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2 Febbraio 2021

SCENOGRAFIA… quale? E soprattutto: perchè?

Filed under: Scenografia — admin @ 12:10

2008

Mi corre obbligo avvertire colui che avrà la pazienza di leggere: non sarò ossequioso; avrò dubbi e domande, soprattutto su me stesso, ma anche su altri…

Ho frequentato la scenografia (con la esse minuscola, come minuscola ormai appare la sua importanza), ho conosciuto grandi maestri e grandi mistificatori, ho frequentato i laboratori di pittura e realizzazione (detta con una certa sufficienza “scenotecnica”), ho frequentato grandi palcoscenici (e grandi “artisti” che vi lavoravano), ho frequentato piccoli palcoscenici (e “piccoli grandi artisti” che vi prestavano la loro opera), ho praticato la scuola (accademica) prima come studente e poi come docente, ho visto teatri di tutte le misure e specie, ho visto progettarli, restaurarli, trasformarli. Ho visto un po’ di tutto e un po’ di niente (costa molto in termini di tempo e di soldi, purtroppo, il vedere uno spettacolo o visitare un lontano teatro). Mi chiedo spesso a cosa sia servito tutto ciò, tranne la piccola trasmissione della mia esperienza agli studenti…

Cominciamo dalla inevitabile irritazione che ho dentro quando apro un giornale o una rivista (anche specializzata che parli di teatro…): non riesco più a capire cosa mi succeda (può essere decisamente l’età, ma a parte questa concreta possibilità…) e perché mi assalgano una serie di domande e di dubbi.

Ho imparato, studiando, lavorando e insegnando, ad apprezzare e diffondere concetti quali la bellezza, la coerenza, la storia, la cultura, la funzione e lo scopo delle cose, la semplicità, la chiarezza, la curiosità e l’onestà intellettuale, il coraggio innovativo, ma poi…?

  • Poi vedo articoli, scritti da giornalisti, critici, letterati in cui si parla di tutto, si favoleggia di spettacoli meravigliosi, si teorizzano e se ne estrapolano interpretazioni straordinarie, ci si pavoneggia citando elementi storici sconosciuti ai più, si fanno riferimenti coltissimi, ma poi…?

Quando si tratta di parlare di scenografia…il nulla o quasi.

Descrivere la parte visiva dello spettacolo è diventata ormai un inutile accessorio (spesso non si cita neppure lo scenografo o il costumista dello spettacolo!). Primo dubbio: non sarà forse perchè tutte le persone che scrivono, in questo ambito, hanno una preparazione straordinaria dal punto di vista storico, critico, metodologico, ma assolutamente nessuna dal punto di vista visivo, scenografico, compositivo (non uso volutamente l’aggettivo “artistico”)?

Sembra ci si dedichi principalmente e sempre più spesso ad omaggiare i cosiddetti “nomi sicuri”… Il vecchio scenografo, con evidenti ed indubitabili grandi capacità ed esperienza (divenuto anche regista e costumista naturalmente: prendi uno e paghi 3), garanzia di uno spettacolo elegante al limite del lezioso, pulito ma sempre più o meno ripetitivo, strapagato, potente ed onnivoro (10/15 spettacoli l’anno fra riprese e nuove, faraoniche produzioni); oppure il “vulcanico interprete della visualità operistica” (come è stato definito un esotico (ex) giovane che naturalmente firma regia scene e costumi…) soprannominato Attila: quando c’è lui in cartellone, dopo i suoi allestimenti non c’è più un soldo per i titoli restanti della stagione; oppure il regista oriundo, alla moda (regia, scene[quali?] e costumi…com’è logico e sempre per lo stesso motivo…) “uno dei più innovativi interpreti del teatro musicale di oggi” e guardo i suoi “bozzetti” sul quotidiano (una rarissima occasione): tre “segni” che avrebbero la pretesa di essere “artistici” ma che in realtà scimmiottano i vecchi schizzi di Le Corbusier; e poi la realizzazione: il contrapporsi di forme assolutamente incoerenti, inutili, gratuite (gabbie di ferro a più piani contrapposte ad estrusioni curvilinee da orrendo monumento anonimo degli anni ’60), inutilmente roboanti e gigantesche, fintamente essenziali (la vera essenzialità è altra cosa: ma è poi necessaria quando si ripropone un’opera ottocentesca?) degne del primo studentello incolto e confuso al primo anno d’Accademia. Tutto ciò viene descritto con le seguenti parole:«…appartiene a una generazione di uomini di teatro che ha elaborato in chiave poetica la sperimentazione, e quindi ha rinunciato alla provocazione fine a se stessa: non alla lettura analitica, sorgiva ma anticonvenzionale, del mondo espressivo che regge la scrittura operistica ottocentesca…». Capisco che manca il coraggio di “rischiare” un nuovo nome, di puntare su qualcuno che sta crescendo, in una parola, sul “futuro”…

  • Poi mi chiedo perchè se vedo, al primo anno d’Accademia, un lavoro simile, invito lo studente che lo propone a cambiare corso di studi… Ma se a questo (giustificatamente) ingenuo essere, capita di vedere cose simili a quelle da lui prodotte, su un quotidiano nazionale, con le lusinghiere didascalie che lo descrivono, cosa penserà del suo severo ed ipercritico Docente? Che è un aguzzino ed un incapace? Credo di sì…ed avrebbe ragione. E la coerenza formale, l’analisi storica, i criteri compositivi e funzionali, l’attenzione al rapporto costo-risultato ed altre amenità del genere? Perchè studiando e sperimentando progettazione si richiede tutto ciò? E che fine fanno poi questi criteri, che si ritengono basilari?

  • Poi mi chiedo quanto costi quell’allestimento, quante persone ci abbiano lavorato, chi abbia approvato quel progetto e sulla base di quali considerazioni estetiche, pratiche ed economiche, e mi chiedo anche (domande che dovrebbero obbligatoriamente farsi certi amministratori teatrali, sovrintendenti sorretti solo da forze…politiche e direttori artistici) se fosse possibile far di meglio e con minore spesa…E scorrono davanti ai miei occhi una infinita serie di progetti e disegni, esecutivi, modelli, fatti da molti bravissimi studenti di scenografia (sempre con la esse minuscola) che ora hanno finito i loro studi e stanno servendo birre in un bar o stanno, se sono fortunati, lavorando saltuariamente in qualche studio di grafica o di web-design…

  • Poi mi chiedo a che titolo un famoso dirigente teatrale, sempre dalle colonne dello stesso quotidiano asserisca:«…l’attuale ordinamento delle fondazioni lirico-sinfoniche (ed il cosiddetto spettacolo dal vivo n.d.r.) si sta rivelando incapace di salvare sia l’immagine sia lo sviluppo dell’offerta del prodotto culturale da parte dei nostri storici Teatri d’opera. In un clima di indebolimento dei consensi, aggravato da disposizioni legislative e regolamentari che hanno trasferito all’esterno una visione distorta sui costi artistici (legati al mercato internazionale) e sui costi del lavoro, lo stato di degrado e di tramonto non è stato ancora bloccato…I nostri Teatri d’opera non sono realtà astratte: sono costituiti da professionisti della musica, del canto, e della danza cui si accompagnano specialisti adibiti alle attività diverse di palcoscenico, dei laboratori e dei servizi che perseguono comuni finalità di particolare valore sociale e culturale…penso invece che sia compito della politica, verificare (?n.d.r.) lo sbocco professionale degli autori, interpreti ed esecutori (soltanto? n.d.r.) e dei diplomati dei Conservatori (e delle Accademie? n.d.r.), anche alla luce dell’evidente mancanza di politiche pubbliche rivolte al mondo delle arti (finalmente! n.d.r.) e dello spettacolo…Si appalesa che non stiamo dando a chi si getta nelle braccia dell’arte quel “raggio di fiducia e di poesia” che è per loro indispensabile…».

Se non erro questa persona è dirigente teatrale ai massimi livelli da circa (posso sbagliare, ma di poco) trentacinque anni: dov’è stato fin’ora e che tipo di politica teatrale ha avallato, se ha assistito, impassibile (o forse impotente o soltanto opportunisticamente silente?) allo “stato di degrado e di tramonto che non è stato ancora bloccato”; e da chi deve essere bloccato? E’ “visione distorta sui costi artistici” il continuo, diffuso ricorrere alle tristemente famose “agenzie” (un tempo proibite in Italia ed ora perfettamente legali…questa sì, decisione “politica”) che, lucrando succulente percentuali sui contratti artistici (cantanti, direttori, registi ecc., quasi mai scenografi…c’è poco da lucrare), applicano compensi raddoppiati rispetto all’estero? Perchè non comincia lui stesso a dare quel “raggio di fiducia e di poesia” indispensabile alle nuove generazioni?

E’ vero che molte di queste agenzie hanno sede all’estero e quindi gli emolumenti erogati dalle Fondazioni finiscono in una sorta di “buco nero” anche fiscale?

E’ vero che sono stati chiusi quasi tutti i laboratori di scenografia delle Fondazioni (con la scusante, fasulla, degli eccessivi costi del personale) affidando l’esecuzione degli allestimenti esclusivamente a ditte private con finte gare d’appalto già pilotate? E’ vero che così facendo si è prima trascurata e poi persa (anche le ditte private stanno man mano chiudendo) una vera e propria “sapienza della tradizione scenografica” che era quasi esclusiva degli ex Enti Lirici e dei Teatri di Tradizione, vero e proprio “baluardo” di quei “valori culturali” dei quali si lamenta il tramonto e la perdita? Perchè si ricorre sempre più spesso a frettolosi, spesso inutili quanto costosi corsi di formazione ed aggiornamento del personale (attingendo a fondi europei…) perchè sindacalmente si è puntato sulla quantità anzichè sulla qualità e la formazione? Non è forse “mancanza di politiche pubbliche rivolte al mondo delle arti” il fatto (grave e soltanto italiano) che Conservatori e Accademie non siano ancora facoltà universitaria ma soltanto una indecifrabile quanto equivoca “alta formazione” non bene identificata? Non è forse vero che ancora oggi ci si affida più volentieri (e spesso) ad architetti senza nessuna competenza teatrale e preparazione specifica, proprio perchè provvisti di una laurea, anzichè a scenografi giovani e preparati per allestimenti e progettazione teatrale, ma anche museale ed espositiva? Perchè, come tutti i lavori pubblici (o quasi) non si mette “a concorso” un’opera ed il suo allestimento (con la possibilità di scelta sia del progetto che del suo rapporto costo-qualità)? Perchè si investe in co-produzioni che fanno lo stesso spettacolo (sovente molto mediocre) a distanza di poche decine di chilometri e non si punta, invece, a “vendere” un buon prodotto (e competitivo) anche all’estero? E, a proposito di “estero”, premettendo che non ho niente contro gli stranieri, anzi, credo che una delle poche ancore di salvezza culturale sia proprio il nostro rapporto con l’Europa: ma perchè, sull’onda spesso di malintese novità artistiche, per l’opera si chiamano registi e scenografi stranieri (spesso strapagati) che nulla hanno a che fare con la tradizione operistica italiana (che non conoscono e sovente neppure amano…), la più parte delle volte producendo dei “fiaschi” di pubblico, di consenso ed economici? (apro un qualsiasi numero di una rivista specializzata e leggo il resoconto di uno spettacolo visto in uno dei più prestigiosi teatri italiani di tradizione, testualmente:«…Lo spettacolo, che si coproduce con…(teatro straniero), è davvero modesto. E’ modesto per le soluzioni figurative prive di suggestione. Con quei cubi, che fungono da accessi alla scena e assomigliano a tunnel di un metro in corso d’opera, le scene di…(inglese) non accendono la fantasia. E’ modesto per una stilizzazione che, invece di aggiungere, toglie fascino all’allestimento e lo rende anodino, che è ancor peggio di anonimo. Ci potresti ospitare tutte le opere di argomento marinaro o lambite dal mare, dall’Idomeneo al Billy Budd. La regia di…(anch’egli inglese) ha lasciato che i fatti seguissero il loro corso…ha lasciato i personaggi a loro stessi…A mandare fuori rotta questa singolare eroina (la protagonista, n.d.r.), hanno contribuito anche i costumi del già citato…(scenografo, n.d.r.): in talune scene … ha optato per un abito la cui foggia è più adatta ad una diva invitata ad un ricevimento che alla vereconda sposa di…. E’ un errore grave, da matita blu.» A questo teatro è stato assegnato un “contributo speciale” di sei milioni (6.000.000!) di euro..Qualcuno verifica che siano spesi bene, oppure questi “manager” sono sempre ed ancora impudentemente al loro posto?)

  • E poi chiedo (a me stesso ed al mio ruolo istituzionale) perchè l’insegnamento della scenografia, nel suo insieme, viene sottovalutato e trascurato dagli ordinamenti e persino dalla cultura ufficiale? Perchè i corsi superiori d’arte, in generale, e nel nostro caso di scenografia non sono corsi di laurea veri e propri? Non può essere anche un po’ (o tanto) per colpa nostra? (di noi docenti dico…). E’ vero che siamo aggiornati, curiosi, scrupolosi, attenti, rigorosi? O forse spesso viaggiamo sulle ali di una certo, sicuro tradizionalismo, sia didattico che progettuale e sperimentale, soffocando conseguentemente in schematismi alquanto rigidi e sorpassati ogni possibile novità e ricerca? E soprattutto perchè non scriviamo? Perchè non esistono testi di scenografia (tranne pochissime, sparute ed introvabili pubblicazioni ormai anche obsolete)? Perchè in qualsiasi campo della conoscenza, della scienza e del sapere una rivista specialistica rappresenterebbe un indispensabile strumento, un sicuro punto di riferimento, aggiornamento, confronto, mentre in Italia (contrariamente all’estero) si vendono pochissime copie dell’unica rivista, ad esempio, di scenografia? Perchè siamo (quasi) sempre assenti da confronti e simposi internazionali, da concorsi ed esposizioni continentali, da collaborazioni con organizzazioni culturali straniere? Siamo proprio sicuri che quando un nostro studente va a vedere (se ci va…) uno spettacolo contemporaneo, riconosca esattamente i principi, gli strumenti, le tipologie tecniche, quelle drammaturgiche ed espressive che sono elementi fondanti della nostra didattica? Oppure ammettiamo che possa avere un senso di disorientamento quando di giorno, a scuola, apprende concetti e nozioni che di sera, andando a teatro, vede trasfigurati ed alterati, se non abbandonati perchè desueti, a tal punto da non riconoscerli o non vederli più? E, ancora in campo internazionale, perché all’ultima quadriennale di Praga, forse una delle più mportanti rassegne di scenografia mondiale, l’Italia era uno dei pochissimi paesi che non ha presentato i suoi scenografi adducendo, come scusa, la mancanza di fondi (una decina di migliaia di euri)?

  • Poi mi chiedo perchè le facoltà di medicina abbiano cliniche universitarie, quelle di scienze motorie abbiano palestre, quelle di ingegneria abbiano laboratori attrezzati ecc. e gli studi accademici sul teatro e sulla musica non abbiano dei teatri? Fabrizio Cruciani (Lo spazio del teatro, Editori Laterza, Roma-Bari, 1992) scriveva: «…in questa cultura lo spazio del teatro non può accettare di essere sala più o meno efficiente, più o meno umana, ma solo sala per spettacoli, per teatro-merce sempre più costoso. La committenza chiede però sale per spettacoli e gli architetti che le costruiscono fanno spazi per il teatro-merce o cattedrali nel deserto. E gli uomini di teatro fuggono dai teatri. Lo spazio del teatro, per essere vivo, deve avere proporzioni e memoria (sic! n.d.r). Se non è più il palazzo degli spettatori o il museo della cultura, può essere la “casa” degli attori (e di tutti coloro che il teatro lo “fanno”, n.d.r.). Un luogo abitato anche prima e dopo lo spettacolo, un luogo di lavoro in cui si ha interesse ad essere ospiti. Si può certo abitare in case costruite per altri o per altro (è quel che di solito viene fatto); si può anche costruire una casa in cui abitare come artisti e in cui ricevere ospiti. Qui lo spettatore che viene allo spettacolo “sente” lo spazio vissuto e “vede” quello spazio come elemento vivo e funzionale dello spettacolo stesso; qui lo spazio dello spettacolo crea la condizione del suo essere guardato, crea lo spettatore…». Gli fa eco Jean-Guy Lecat, Scenografo, per molti anni nella compagnia di Peter Brook: «…Ci sono tre pelli in un teatro. La prima è l’esterno, l’edificio nel contesto della città. La seconda pelle è il luogo di incontro, da una parte il pubblico e dall’altra degli attori, e comprende anche tutti i servizi, bar, ristoranti, toilettes. Per queste due parti gli architetti possono lavorare autonomamente. Ma la terza è lo spazio teatrale vero e proprio. Questo, la parte interna del teatro, non deve avere un legame artistico con le altre due, ma deve essere completato dalla gente di teatro in prima persona». Perchè allora ci si ostina a trovare fondi per il restauro o la costruzione di teatri per poi averne pochi o addirittura non averne per una seria programmazione e, invece, non si affidano queste strutture completamente a “persone di teatro” che fanno il “mestiere teatrale” o che lo stanno studiando?

Sicuramente cerco risposte: ma credo non ci siano risposte; credo che le domande galleggino in aria e restino come sospese…in attesa che qualcosa o qualcuno cambi. Certo è che non si deve più fingere che non esistano o che non si pongano affatto. Ce lo pongono e ci dicono che esistono tutte le generazioni di illusi che abbiamo costruito e formato e che non riescono a trovare, ed ormai disperano di trovare, quel “raggio di fiducia e di poesia, per loro indispensabile”, che abbiamo loro sottratto o quanto meno spento.

26 Aprile 2018

Un ricordo che ha quasi vent’anni

Filed under: Scenografia — admin @ 11:04

Ho ritrovato un vecchio fax che l’amico Paolo Paolucci, purtroppo scomparso, mi inviò il 29 Luglio 1998, due anni dopo il rogo della Fenice. Paolo allora era un consigliere regionale in quota “Democratici di Sinistra” e presentò, assieme ai colleghi Lorenzo Vigna e Giampaolo Sprocati, una “Interrogazione a risposta orale” su

“SALVAGUARDARE LA TRADIZIONE SCENOGRAFICA DELLA FENICE SOSTENENDO L’ATTIVITA’ DELL’ATELIER-LABORATORIO DI REALIZZAZIONE E PITTURA SCENOGRAFICA”

L’atelier-laboratorio negli anni ’60

 

Il fax ritrovato

Il testo diceva:

“premesso che

a) il Teatro la Fenice, al momento del suo incendio, era uno dei pochi Enti Lirici italiani che ancora aveva, nel suo organico, un atelier-laboratorio di realizzazione e pittura scenografica;

b) questo atelier, posto nello splendido sottotetto del teatro, aveva una tradizione scenografica di oltre un secolo e mezzo ed un organico di 4/7 unità ad alta specializzazione;

c) la tradizione scenografica della Fenice ha rappresentato da sempre un punto di riferimento fondamentale e prestigioso per la storia del teatro e della scenografia italiana ed europea, come testimoniano le recenti pubblicazioni nonografiche dell’arch. Maria Ida Biggi, “Giuseppe Borsato” e “Francesco Bagnara”, curate dagli Amici della Fenice ed edite da Marsilio;

d) l’attività artistica di questo laboratorio consentiva al Teatro un risparmio, sulla produzione delle scene, di almeno 2/300 milioni annui

 

I sottoscritti consiglieri interrogano la Giunta per sapere se

  1. le forze istituzionali politiche ed intellettuali intendono verificare i presupposti tecnici ed economici che permettano a questo atelier-laboratorio di continuare a produrre;
  2. le suddette forze si adoperino affinché il frettoloso imperativo “dov’era e com’era” consenta almeno che il progetto della futura Fenice preveda un analogo spazio destinato alla pittura scenografica, possibilmente ma non necessariamente, all’interno del teatro;
  3.  si intensifichino e, possibilmente, si istituzionalizzino i rapporti di studio e collaborazione fra questa struttura e gli studenti dei corsi specifici di scenografia della locale e prestigiosa Accademia di Belle Arti unitamente a quelli dell’Istituto Universitario di Architettura alcuni dei quali, nell’ultimo anno accademico, hanno affrontato un tema progettuale sulla nuova Fenice.

La firma

 

L’atelier-laboratorio non vedrà mai la luce, né in teatro né altrove, e La Fenice verrà inaugurata il 14 Dicembre 2003 senza alcun riferimento o ricordo di quel secolo e mezzo di storia e di scenografia.

13 Febbraio 2017

Un ricordo di Lele

Filed under: Scenografia — admin @ 13:17

 

Aprendo il solito quotidiano, in treno il 27 Gennaio scorso, mi si affaccia una dolorosa notizia:”Addio allo scenografo Lele Luzzati”. La giornata non poteva cominciare peggio.
Conoscevo Lele fin dai primi anni ’80, quando lui era prossimo alla sessantina ed io ne avevo appena superato la metà. A quel tempo ero uno degli scenografi realizzatori de “La Bottega Veneziana”, atelier che spesso realizzava allestimenti per il Teatro Regio di Torino. L’opera da realizzare era “Dibbuk” di Ludovico Rocca (da una storia ebraica) e Lele ne era lo scenografo. I miei ricordi si fanno tenui (sono passati più di 25 anni), ma il ricordo di quella splendida figura è ancora assai vivo.
Lele era una persona semplice, gentile in tutte le cose che faceva, ma soprattutto nell’aspetto e nei modi. Mi ricordo che mi colpì molto, quando lo conobbi, il suo abbigliamento: portava vecchi occhiali rotondi che gli cerchiavano i piccoli occhi, a fessura, su una faccia aperta e “antica”, in un atteggiamento di continuo sorriso, che peraltro era continuamente ricorrente nel suo modo di fare; la sua giacca di velluto, con le toppe di pelle, era segnata dal tempo e copriva un semplice maglione che lasciava spuntare il colletto di una umile camicia a quadri scozzesi (di quelle che vediamo portare, in generale, a semplici operai o montanari…); ma soprattutto le scarpe ricordo: un vecchio e robusto modello, fané, ma dignitoso e tenuto talmente lucido ed ingrassato da nascondere perfettamente la molta strada percorsa.
Era l’esatto contrario dello scenografo istrione, un po’ capriccioso, difficile ed ostinato: era accomodante, mentalmente elastico, comprensivo e ad ogni imprevisto o difficoltà aveva sempre una buona parola ed un consiglio adatto.
Ho avuto modo di entrare nel suo mondo grafico e nella sua opera in maniera analitica, dovendo io dipingere su enormi fondali ogni suo segno, ogni sua campitura, ogni suo pezzo di collage che diventava materia, composizione, elemento indispensabile al racconto: già, perché lui amava raccontare (amava dire:«Perché la memoria è una cosa fredda, il racconto invece è caldo: è tutta la vita che racconto, io che sono così avaro di parole»). Dagli anni ’80 in poi, ho avuto modo di fare assieme a lui, altri, numerosi lavori, ogni volta felice, io, di rincontrare uno splendido personaggio com’era Lele. L’ultima volta che l’ho visto è stato in occasione di uno spettacolo (L’enfant et le sortilége di Ravel) che si sarebbe dovuto mettere in scena alla Fenice di Venezia nel Marzo 1996, alla riapertura del teatro dopo i restauri…Non avrei più rivisto nè La Fenice (rogo del Gennaio 1996), nè lui. Addio carissimo Lele, hai lasciato in tutti noi un bellissimo ricordo…
dp

13 Luglio 2015

Poesia e spazio

Filed under: Scenografia — admin @ 10:04

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L’architettura è l’arte di riempire (strutturare, modificare) lo spazio. É un atto di misurazione. Si attua mediante forme, volumi, materie, colori. Questa è la sua essenza. Perciò abitare è poetico. E la poesia si fonda sempre sul metro. I versi dei poeti misurano il tempo, le pareti e i muri, lo spazio. Misurare rassicura: è una forma di conoscenza e dominio. Anche la felicità è una misura: la misura tra novità e abitudine.

13 Luglio 2014

Dal pennello al pixel…

Filed under: Scenografia — admin @ 13:09

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“Nulla evolve più lentamente del teatro”.
Questa lapidaria e relativamente recente frase di Peter Brook con ogni probabilità era riferita al “luogo” teatrale inteso in senso fisico (di edificio teatrale), ma forse anche in senso drammaturgico. Non forse in senso tecnico. La storia recente della scenografia e della scenotecnica ha, al contrario, marcato un repentino processo di trasformazione visiva (diciamo negli ultimi vent’anni), mai avute fino ad oggi ed il colpo senza dubbio più duro lo ha ricevuto un “sapere” dalle radici profonde, che si sta, tutt’altro che lentamente, perdendo: mi riferisco a quello della pittura scenografica. Non se ne vuole qui celebrare il rito funebre o nostalgicamente ricordare i bei tempi del “teatro dipinto”, né, per contro, fare un inno modernista alle nuove tecnologie proiettive e digitali: cercheremo di analizzare serenamente queste tecniche e questi linguaggi, quelli nuovi e quelli che stanno per cedere il passo, senza pregiudizi di sorta, alla luce di un nuovo millennio di scenografia teatrale.
Risulta quindi inevitabile partire dalla pittura visto che un percorso dentro la scenotecnica, come vuole essere questa nuova rubrica, non può che cominciare dalla storia di quei “meravigliosi ingegni”, abili manufatti impreziositi da sapiente pittura, che fin dalla sua nascita ha caratterizzato il teatro e la sua parte visiva.

Il dato di fatto certo è che le nuove tecnologie proiettive e digitali, sempre più raffinate e sofisticate, stanno soppiantando quasi completamente il fondale dipinto e la sempre più scarsa richiesta di pittura ha finito per assottigliare le fila di quella già sparuta schiera di abilissimi pittori-scenografi che l’Italia si può dire abbia esportato in tutto il mondo.
Non è il caso di dilungarsi sulla completa evoluzione storica, fuori delle nostre competenze, ma fin dal teatro greco si hanno notizie delle due componenti principali della tecnica scenografica e cioè la macchina e la pittura. Di questa non abbiamo certamente tracce del passato, neanche recente: il “dipinto scenografico” è di per sé effimero, dura poco più di una stagione. E’ una tecnica fatta di poco anche perché si debbono preparare grandi superfici in poco tempo, poco costose e di grande effetto: naturale quindi che durino, anche, poco. Raggiungono il massimo della loro bellezza quando sono lì, su un palcoscenico, bagnate da qualche debole luce. La luce del palcoscenico: negli ultimi anni dell’800 la luce elettrica aveva già inferto un duro colpo alla pittura di scena; ne aveva mostrato crudelmente i limiti, le finte ombre, il colore esagerato, la larga pennellata, come testimoniano quei “bozzetti” di primo ottocento dai colori e dai contrasti così violenti…Ma la tecnica si era ulteriormente raffinata, dissolta, divenendo ancora più precisamente evocativa: la luce pittorica si immergeva in quella elettrica ed un nuovo senso assumeva quel “décor”, di un “realismo sognato”.
Gli ateliers di pittura scenografica stanno chiudendo i loro battenti: fa parte di un processo, a mio avviso, inevitabile. Le nuove tecniche hanno un enorme fascino, una grande resa ed offrono possibilità espressive straordinarie, ma la domanda a cui non sappiamo rispondere è: quanto è giusto che questa antichissima professione, questa affascinante abilità e sapienza si perda?
Sembra non esserci risposta: la pittura scenografica innanzitutto non si può insegnare, neppure nelle Accademie, se non dipingendo per il teatro in grandi spazi (cosa che le Accademie non hanno); si tramanda, dopo un lunghissimo apprendistato, da “maestro” ad allievo “sul campo” in maniera del tutto simile alla “bottega” rinascimentale. Perché un lunghissimo apprendistato? Semplicemente perché si usano strumenti giganti (pennelli, matite, tavolozze, stecche e squadre), dai manici lunghissimi (si dipinge in piedi, camminando sulla tela), che pesano molto e soltanto dal punto di vista fisico ci vuole un lungo allenamento unicamente per cominciare ad usarli bene, in maniera disinvolta. E poi si deve imparare la tecnica a poco a poco: si comincia dalla preparazione della tela, alla sua “apprettatura”, al disegno, alle grandi prime campiture, fino ad arrivare ad un sempre maggior dettaglio, alla raffinatissima finitura, quasi sempre conclusa con una leggera spruzzata di colore trasparente data con una arcaica pompa a zaino, di rame e ottone, con la quale i contadini davano il verderame alle viti…Questo, che a parole sembra un semplice processo, presuppone un apprendimento di molti anni anche perché ci sono generi diversi di pittura: i fondali spesso propongono delle architetture in prospettiva (altre conoscenze…), oppure dei paesaggi desertici o rocciosi, oppure strane decorazioni orientali, oppure cieli burrascosi o azzurri, foreste e giardini, interni pietrosi di castelli di ogni epoca; i soggetti sono talmente numerosi che spesso, come succedeva soprattutto in Francia, gli scenografi si specializzavano nei “generi”: c’era chi era maestro di paesaggio, chi di bosco, chi di architettura, chi di interni ed arredamenti ed altrettanto spesso, per un’unica opera, atto per atto si sceglievano realizzatori diversi a seconda dell’ambientazione della scena…Pochissimi sono coloro che sanno dipingere ad altissimi livelli tutti i generi.
Questa professione trae le sue discendenze da quella figura di artista-architetto, mago eclettico rinascimentale che vantava conoscenze estremamente diversificate di architettura, di prospettiva, di pittura, di botanica, di storia, degli stili, di archeologia, di astronomia, di paesaggio, arrivando fino ad avere nozioni di statica, di scultura, di anatomia, di chimica…in pratica le componenti di un intero mondo, perché questo era chiamati a rievocare, a reinventare, ad imitare, o solo a suggerire.
Tutto ciò sta progressivamente sparendo: gli scenografi pittori realizzatori ormai, in Italia si possono contare sulle dita delle sole due mani…Le ditte private hanno tempi e necessità che non permettono di tramandare e conservare questo altissimo artigianato: probabilmente il compito potrebbe essere affidato agli Enti Autonomi quali le Fondazioni Liriche, alcune delle quali conservano questo aspetto produttivo (La Scala, l’Arena di Verona, L’Opera di Roma), ma tutto fa pensare ad un progressivo smantellamento anche di queste ultime attività laboratoriali come ha già fatto parzialmente il San Carlo di Napoli o totalmente come La Fenice di Venezia. In questo ultimo, significativo caso, poi, non solo il magnifico atelier ricavato dal sottotetto del loggione ha cambiato fisionomia e destinazione, ma nessun elemento e nessuna scritta in qualche modo nemmeno ricorda che in quel luogo si era sviluppata una storica scuola scenografica fra le più importanti in Italia e che ha annoverato fra le sue fila scenografi quali Bertoja, Borsato, Bagnara e molti altri per ben 170 anni, e questo a dispetto del “dov’era e com’era”…
Uno degli ultimi laboratori rimasti in centro storico ed uno dei più affascinanti è senza dubbio quello del Teatro dell’Opera di Roma. Sembra quasi uno scherzo, un gioco: il laboratorio in cui si “confeziona” l’inganno, l’illusione il “falso” è situato esattamente a fianco della famosa “Bocca della verità”…
Vi si accede attraverso una breve salita e questo immenso immobile tenebroso e oscuro al pianterreno e ai piani intermedi adibiti a magazzino, dopo un’ascesa di quattro piani, diventa magicamente luminoso nel “salone” dove si dipingono le scene, con enormi finestroni che da una parte si rivolgono verso un panorama stupendo della meravigliosa città eterna e, nel verso opposto dopo una grandissima terrazza, si affacciano sul Circo Massimo…Che dire? Gli scenografi romani sono fortunati!
Si sottolineava l’aspetto della luce: E’ senza dubbio importante dipingere con una buona luce, proprio per non avere alterazioni cromatiche dovute a dominanti che possono essere generate da luci inadatte o, semplicemente, da angolazioni particolari dei raggi luminosi. La pittura è un argomento molto delicato e di difficile approccio. Allo scenografo pittore spesso viene richiesta non solo una perizia straordinaria, ma sovente gli si richiede di diventare un’altra persona, un altro artista. E’ il caso, ad esempio, di quando viene riproposto, in grande, un quadro famoso: il pittore deve dimenticarsi della sua tecnica, del suo mondo pittorico, della sua particolare sensibilità, per appropriarsi di quello di un famoso artista; da Tiepolo, a David, a Mantenga, a Sironi, a Boccioni, a Corot… (vado a memoria di esempi che personalmente ho visto o affrontato). La capacità e l’esperienza di un pittore scenografo sta proprio qui: sia che affronti un’opera famosa, sia che affronti un qualsiasi bozzetto o immagine (anche fotocopie in bianco e nero di qualche bozzettista frettoloso o poco capace…), deve “entrare” in un altro mondo, capirne il senso e carpirne l’essenza, e farlo suo, almeno fino alla fine dello spettacolo e alla sua messa in scena; non è affatto facile e, se da una parte è un’esperienza inebriante e di prezioso arricchimento, dall’altra è altrettanto vero che non sempre ci si riesce o non ci si riesce fino in fondo. Si ha allora un senso di frustrazione e sgomento, ma non si può e non si deve chiedere aiuto a nessuno: si è soli con la propria, pesante responsabilità. Sono al tempo stesso i “chiari” e gli “scuri” di questa antica professione, la cui tecnica sembra abbia dato origine ai grandi “teleri” rinascimentali (Tintoretto), con una difficoltà ulteriore: quando si dipinge una superficie così grande (10/20 metri e più), mentre si lavora su una parte, è difficile avere “sott’occhio” il tutto, dominare tutta l’immagine ed i rapporti che la compongono.
Il laboratorio del Teatro dell’Opera di Roma ha la fortuna di avere una passerella ad un’altezza di circa cinque metri, da cui si può osservare la superficie dipinta ed avere quindi un’idea più precisa del risultato, perché altrimenti (e tanti sono i laboratori che ne sono privi) il risultato si vede soltanto in palcoscenico, al montaggio delle scene, quando spesso è troppo tardi per rimediare a qualche (possibile) errore…
L’ambiente di Roma è straordinario, sia sotto il profilo logistico, sia sotto quello umano, sia sotto quello strettamente professionale. Dagli operai specialisti (detti “macinatori” in ossequio al periodo in cui si “macinavano” le “terre” che da blocco diventavano polvere e quindi pigmento, colore), alle sarte che cuciono e confezionano le enormi tele che andranno appese, agli aiuti che imparano impostando il lavoro con il disegno e le prime grandi stesure di colore, ai collaboratori che coordinano le attività dei gruppi di lavoro, fino ai realizzatori che si dedicano alla finitura ed organizzazione totale della quale hanno tutta la responsabilità; ognuno fa la sua parte e contribuisce con la propria esperienza al risultato finale nei tempi stabiliti.
Già, perché un altro punto fondamentale sono i tempi.
Il normale pittore, come si sa, ha i “suoi” tempi: c’è chi dipinge un quadro in un giorno, chi in un mese, chi anche in un anno…C’è un’estrema labilità. Ma i tempi di uno scenografo pittore li decide il…cartellone e la stagione. Spesso si è chiamati a dipingere un intero spettacolo (1500/2000 metri quadrati di pittura) in meno di due mesi: una cinquantina di giorni lavorativi; non meno di 30 metri quadrati (finiti!) al giorno: ritmi da imbianchino, più che da pittore..
E’ una lotta costante contro il tempo: e tutta la tecnica pittorica scenografica si basa sulla velocità di esecuzione, un risultato eccellente ed un basso costo, naturalmente. C’è da aggiungere che i ritmi di lavoro dei realizzatori (quei pochi…) che ancora prestano la loro opera nelle fondazioni e negli enti, sono un po’ più “umani” rispetto ai loro colleghi delle ditte private, che spesso hanno ritmi forsennati… e non è un’esagerazione. Ed è anche per questo motivo che il compito di “tramandare” quest’arte e questa professione dovrebbe essere demandato proprio alle fondazioni ed agli enti, come già sottolineato: primo perché rientra proprio nel loro statuto la conservazione, lo sviluppo e la diffusione dell’arte teatrale e secondo perché gli stessi tempi sono in grado di permetterlo; è impensabile infatti che nei ritmi impossibili delle aziende private si trovi tempo e modo per “insegnare” alcunché (spero, però, in cuor mio, di essere smentito…). Quello dell’Opera di Roma è uno dei pochi laboratori rimasti in cui si può fare…

Daniele Paolin per la rivista The Scenographer

28 Settembre 2012

Intervento del Prof. Daniele Paolin per gli incontri “Luciano Damiani: la rivoluzione della scena” – Casa dei Teatri – Villa Pamphilj – Roma – Gennaio/Marzo 2011

Filed under: Scenografia — admin @ 08:17

archetipi e nuova scenotecnica

13 Luglio 2011

Spazi, proporzioni, poesia in un incontro con Maurizio Balò.

Filed under: Scenografia — admin @ 13:25

 

 

Per andare ad incontrare Maurizio Balò, devo valicare l’Appennino, immerso com’è, a tratti, fra nebbie e schiarite, in un paesaggio umido, gocciolante, ma che la luce radente che lo illumina fa apparire denso di cristalli luminosi che campiscono nel verde scuro: apparizioni trasfigurate, quasi teatrali, occultate e scoperte dalla velocità del treno come un gioco di sipari contrastanti.
Arrivo a Firenze, caotica di turisti, ma la via dove abita lo scenografo è stretta e quieta, al di là dell’Arno. Salgo le ripide scale e mi affaccio su un bellissimo studio luminoso, alto, arredato con semplicità, quella stessa semplicità che traspare dal personaggio Balò e che salta immediatamente agli occhi. E’ la prima volta che parlo con lui: ci siamo incrociati più volte nella nostra professione, ma non abbiamo mai avuto modo di parlare. Io conosco lui ma lui non conosce me. E’ un professionista che ho sempre ammirato per una serie di motivi, il primo dei quali è che non “appare”; non è un presenzialista (qualità ormai rara), pur essendo uno dei più famosi scenografi italiani. L’altro motivo, e forse più importante, della mia ammirazione è dovuto ad una semplice constatazione: mi capita di vedere spesso, in riviste più o meno specializzate, qualche scena che attrae ad una prima occhiata la mia attenzione, fra tante che questo pregio, ai miei occhi, non hanno, e spesso scopro che sono sue; ma mentre nella maggior parte dei casi, con un po’ di esperienza, riesco a riconoscerne, a prima vista, l’autore, con lui non succede mai: non è immediatamente riconoscibile, non ha un suo “stile” identificabile. Per lui ogni strada è un percorso diverso, inesplorato. Cominciamo a parlare proprio di questo: ogni autore che affronta, ogni regista con cui lavora rappresentano un capitolo assolutamente nuovo ed inesplorato. Approfondito e solido, negli anni, risulta naturalmente il suo lungo sodalizio soprattutto con Massimo Castri e Gianfranco Cobelli, coi quali ovviamente ha una “sintonia” particolare, collaudata e che lo porta ad essere ancora più affrancato nella sua ricerca.
Cominciamo a parlare direttamente di vera e pura scenografia: è una bellissima sensazione ed ho l’immediata percezione di quanto oramai raramente succeda. Glielo manifesto e ne nasce un comune rammarico nel costatare quanto a questo punto si parli così poco di scenografi e di scenografia: distrattamente, quasi controvoglia, più per dovere di citazione (quando ancora c’è…) che per vero interesse e soprattutto competenza. E la prima serie di domande che ci poniamo sono appunto queste: quanto conta la scena e che importanza riveste nell’economia dello spettacolo e della completezza della sua percezione? E’ giusto che la scena sia la protagonista visiva o è la sua “discrezione” di rapporto con la drammaturgia, la regia, gli interpreti che ne fanno assumere il vero valore espressivo? Balò naturalmente considera la scena una presenza indispensabile ed equilibrata, fondamentale e delicata, preziosa ma non invasiva: mi ricorda come, da ragazzo, in una delle sue prime volte a teatro come spettatore abbia capito, all’apertura di sipario, che il fantasmagorico allestimento che aveva davanti, pieno di movimento, oggetti, decorazioni ed attrezzi vari, gli avesse subito fatto capire quale fosse esattamente il tipo di scenografia che avrebbe sempre evitato. Questo fin dagli inizi della sua carriera, dagli esordi nel teatro universitario (a questo proposito: moltissimi scenografi che ho incontrato mi hanno confessato di aver cominciato dal cosiddetto “teatro universitario”: ma dove è finito questo benedetto “teatro universitario” di cui non si ha più nessuna traccia e che invece, fino a pochi decenni or sono, era alla base della formazione teatrale?- nota rivolta alle dissimulate Istituzioni di Alta Cultura…-). E da allora la sua ricerca si direzionò verso la semplicità, limando, negli anni e nel continuo lavoro di progettazione, tutto il superfluo, il “non indispensabile”, l’eccedente fino a valorizzare al massimo l’espressività del vuoto.

SPAZI

Già, il vuoto, lo spazio. Mi racconta come tutta la sua opera progettuale sia progressivamente avanzata verso la valorizzazione dello spazio e del vuoto. Questo fenomeno e questa aspirazione sembra sia quasi una costante in tutti gli scenografi che abbiano messo al centro della loro professione la ricerca della essenzialità espressiva e non si siano fermati ad un semplice “arredamento” dello spazio del palcoscenico; molto spesso in forte contrasto col desiderio di qualche regista o di qualche responsabile artistico che tenderebbero a soffrire di quella sorta di immaturità visiva ed infantile definita con il termine horror vacui che così spesso è alla base dell’accezione negativa dell’aggettivo “scenografico”. A questo punto Maurizio, per meglio farmi capire come lavora (la cosa che più mi interessa), si alza e da un’altissima scaffalatura estrae, da una decina di simili, un librone rilegato e dal sapore quasi antico: lo apre e mi mostra in sequenza le pagine; sono, di carta giallastra, piene di piccoli disegni al tratto, di piccolissimi schizzi a tempera, di annotazioni, di immagini incollate: una raccolta infinita di pensieri, di considerazioni e valutazioni estetiche e pratiche allo stesso tempo, quasi un lungo racconto senza pause di argomenti diversi. E’ strano come la notevole diversità fra le sue scene, lui mi confessa invece scaturire da pensieri progettuali concatenati fra loro anche di lavori separati che abbandona e riprende in momenti diversi, ma che progrediscono quasi di pari passo, affiancati, talvolta intrecciati o sovrapposti, espressione di una grande unica ricerca estetica che per contro risulterà poi a sfaccettature estremamente differenziate e disomogenee.
Queste piccole immagini, tutto sommato approssimative, sono fatte di ritmi che si susseguono fra vuoti e pieni, attribuendone una forza espressiva paritetica; pur essendo piatte e bidimensionali suggeriscono spazi e cromatismi di notevole ampiezza e profondità, senza la minima preoccupazione di ciò che possa succedere “a lato”, in quinta. Pensieri che si affollano sulle grandi pagine con una semplicità di tratto quasi disarmante. Mi confessa di non considerarsi graficamente un talento, di non essere quindi molto “dotato”: ma che significa? L’aspetto del talento grafico ha sempre avuto nel cosiddetto bozzetto, solitamente, un’importanza significativa, quasi fondamentale, se non altro come “documentazione” obbligatoria per gli aspetti principalmente “artistico-amministrativi” (le direzioni dei teatri…): e dunque? Peter Brook, d’altronde, nel suo The Empty Space afferma: «Gli amatori d’arte non riescono mai a capire perché i bozzetti e le scenografie non siano sempre opera di “grandi” pittori e “grandi” scultori. Quello che è necessario, invece, è un disegno incompleto, un disegno che abbia chiarezza senza rigidità, che si possa definire “aperto” nel senso che si oppone a “chiuso.” Questa è l’essenza del pensiero teatrale: un vero bozzettista teatrale penserà sempre i propri bozzetti in movimento, in azione, secondo l’apporto dell’attore in funzione all’interno di una scena in svolgimento».
Mi spiega il suo modo di lavorare: dopo questi piccoli schizzi, quando, soddisfatto, deve arrivare necessariamente ad una verifica, Balò costruisce un modellino ancora piccolo in scala 1:100; non si occupa ancora della materia e delle misure precise: è solo una verifica da cui capire la bontà della progettazione dal punto di vista spaziale, tridimensionale e vagamente funzionale; ha ancora la possibilità di cambiamenti anche significativi e questo procedimento permetterà di cominciare a porsi una serie di questioni concrete sulla realizzazione: strutture, dimensioni, cambi e movimenti, cromatismi, rapporti e funzioni.

PROPORZIONI

Ciò che mi stupisce dei piccoli disegni che vedo in quelle pagine giallastre è che, pur minimi, hanno tutto ciò che è indispensabile (“chiarezza senza rigidità”…), anche oggetti e figure ben riconoscibili: Maurizio ne proietta un valore straordinario. Vengono in mente concetti così ben espressi tratti da Ingresso a teatro a cura di A. Cascetta e L. Peja: “… anche quando costituiscono un elemento indispensabile all’azione, come la cassetta di Arpagone o il fazzoletto di Desdemona, rispettivamente ne L’avaro di Moliére e nell’Othello shakespeariano, gli oggetti scenici tendono comunque a farsi segni: essi cioè, nel passaggio sulla scena, subiscono un processo di semiotizzazione. Mentre nella vita reale la funzione utilitaristica di un oggetto è di solito più importante della sua significazione, sulla scena teatrale la significazione ha la massima importanza”. E’ per questo che gli oggetti teatrali non devono essere molti e non devono affatto sembrare “veri”, proprio perchè risulterebbero, in scena, “finti”, paradossalmente, ma significativamente. Oggetti e personaggi quindi offrono segni tangibili direttamente riferiti alla proporzione. A proposito di questo non si può fare a meno di notare come le scene di Maurizio siano in qualche modo (come le definisce lui stesso) “sovradimensionate”: la spiegazione sta proprio nel senso di grande vuoto pulsante che permea le sue scene; le figure, e quindi i personaggi, ne sono il complemento significativo, al tempo stesso essenziale e massimamente valorizzato. Ho davanti agli occhi la nera figura di Elettra che si muove su un enorme prato giallo che dal palcoscenico, attraverso un enorme portone dischiuso, scende fino ad occupare tutta la platea; una immensa pietraia in Tre sorelle con un tavolo che campisce su un cielo; un grande interno semicilindrico (unica geometria qualche volta ricorrente) sul quale si aprono piccole finestre e popolato di scure strane figure simili ad Uccelli. La scena non è la protagonista dello spettacolo (come uno scenografo è spesso portato a pensare nel suo isolamento progettuale), quindi, concetto molto importante e spesso sottovalutato, ma costituisce un apporto fondamentale alla recitazione e quindi all’intera drammaturgia.

POESIA

La terza fase del lavoro di progettazione di Balò è costituita dal modello definitivo in scala 1:50. Le forme e le superfici si fanno di dimensione tale da poterne definire la natura e gli aspetti più propriamente poetici della materia, del tempo e del luogo: la quarta dimensione. L’indeterminatezza dei primissimi schizzi va man mano definendosi in scala sempre maggiore e la lenta progressione di ingrandimento fa “maturare” il progetto con una serie di scelte che saranno alquanto definitive, ma non assolutamente finali. La grande perizia e la cura certosina che lo scenografo impiega in queste ultime finiture sono esattamente la proiezione del sogno che le ha create e da cui ci si ridesterà quando quelle minute superfici prenderanno la dimensione ultima, quella reale, in qualche laboratorio di realizzazione scenografica: questo sarà il vero conclusivo momento delle scelte definitive, da cui difficilmente si potrà recedere; si potrà soltanto ritoccare, perfezionare, ma non più mutare. Quella perizia e la cura usate nel progetto dovranno necessariamente trovare un preciso riscontro nella stessa perizia e cura dello scenografo realizzatore; a lui sarà demandata questa difficile, delicatissima operazione: quella di realizzare nella realtà quello che fino a quel momento è soltanto il progetto di un sogno. Si deve avere l’obbiettività di ammettere che non sempre succede: talvolta sbaglia il sognatore, talvolta sbaglia il realizzatore e talvolta ambedue hanno delle aspettative che oggettivamente sono costretti, quantomeno, a limitare. Ma nella maggior parte dei casi, i materiali che passano da uno stato di sogno ad una realtà dinamica, assumono la propria credibile natura e vera valenza espressiva sotto le luci, in palcoscenico: ecco la vera difficoltà; i materiali scenografici soprattutto teatrali visti alla luce diurna o con luci di servizio o di sala sono notevolmente diversi, spesso molto approssimativi se non addirittura goffi. E’ difficile stabilire se saranno più o meno appropriati sotto le luci perché lo si vedrà soltanto ed unicamente in palcoscenico, quando saranno immersi nella giusta atmosfera e bagnati da una luce adeguata: qui intervengono esperienza, conoscenza ed intuito, componenti essenziali per arrivare ad un risultato ottimale sotto il profilo poetico e di intensità espressiva.

La nostra conversazione, infine, scivola verso ricordi comuni che hanno come denominatore la poesia: l’unica volta in cui le nostre strade si sono incrociate è stata alla Fenice, in occasione dell’allestimento di Rosamunde, una strana favola fra (appunto) realtà, ricordo e sogno. Rammento che in questo spettacolo Balò, per sottolineare queste tre diverse dimensioni del racconto, estremamente necessarie alla sua comprensione, usò un espediente davvero singolare e significativo: la forma del boccascena nero variava a seconda della diversa circostanza con un meccanismo semplicissimo ma efficace; rettangolare per la realtà, vagamente ovalizzato per il ricordo e circolare per il sogno. La scena, poi era costituita da una sorta di doppio guscio roccioso e rossastro che per mezzo di doppi scorrimenti circolari, mutava a vista; lentamente, in una penombra misteriosa e magica, svelava di volta in volta chiare situazioni diverse: una spiaggia deserta con i resti di un relitto, una piazza in festa, lo studio di un mago-astronomo ed altre ambientazioni che il tempo ha purtroppo intaccato nella mia memoria. Nel ricordare quell’allestimento, Maurizio sfila uno di quei libroni ben rilegati dall’enorme scaffale e mi mostra le immagini dei suoi studi per l’opera: immediatamente queste prendono ad alimentare in maniera precisa il mio ricordo e lo richiamano fedelmente con forza ed accuratezza, un prodigio che neppure la più perfetta delle fotografie potrebbe mai compiere, ma che la vibrazione di un semplice pigmento sopra una povera carta giallastra ancora riesce a ricreare.
d.p.

STAGE DESIGN: VISUAL OR PROJECT?

Filed under: Scenografia — admin @ 12:57

La costruzione è una scienza, è anche un’arte, in altre parole il costruttore necessita del sapere, dell’esperienza e della intuizione naturale.

Eugène Viollet-le-Duc

 
 
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Il dubbio che ogni separazione fra scienza, tecnica ed arte sia assolutamente superflua ha intaccato per secoli la cultura e la formazione. Nel caso della tecnica teatrale questo dubbio è ancora più marcato. L’abituale separazione fra Scenotecnica e Scenografia sembra ormai avere confini sempre più incerti e sfumati nello spettacolo contemporaneo, quando ancora esistenti. Questa separazione poteva forse avere un senso quando, per ricordare le parole di Luciano Damiani, lo scenografo bozzettista era il “fornitore di immagini” che poi diventavano scena per mano di abili artigiani (pittori, falegnami, scultori, tecnici ecc.) che si occupavano di sviluppare e realizzare, grande al vero, la scena, rendendola tridimensionale e funzionale per lo spazio del palcoscenico.

La scenografia contemporanea, al contrario, sembra sempre più rivolgersi a processi che si integrano fra loro, guidati da un progetto drammaturgico, poetico, espressivo, estetico, unico vero fine a cui tendere. Tale integrazione ingloba conoscenze in campi sempre più diversificati e specialistici, guidati da necessità nel medesimo tempo formali e funzionali in una continua interazione. Si vedono quindi proliferare continue invenzioni scenografiche, veri e propri straordinari prototipi che sovente rappresenterebbero da soli l’avverarsi di sogni che lo scenografo, da sempre nella storia, ha avuto, ma che solo la tecnologia novecentesca ha permesso di realizzare.

Una di queste sicuramente è il cosiddetto PIANO FLESSIBILE, inventato dallo scenografo Luciano Damiani.


Perché un piano flessibile?
Il “reale” e i fantastici “inferiore” e “superiore” sono “entità” spaziali che già appartenevano al teatro barocco all’italiana – con le differenze del caso, chiaramente – ma non solo: il palcoscenico elisabettiano dei teatri pubblici, ad esempio, era già idealmente diviso in tre zone poeticamente ben definite; c’era infatti uno stage, situato probabilmente all’altezza delle teste degli spettatori; l’altezza dipendeva da esigenze di buona visibilità, ma anche per assicurare spazio sufficiente alla collocazione del cosiddetto inferno, hell, situato sotto il piano di palcoscenico e dal quale sortivano diavoli ed altre apparizioni demoniache mediante l’utilizzo di una o più botole. Lo stage poi, era parzialmente coperto da un tetto detto “cielo” (heavens): qui, con tutta probabilità, si trovavano i macchinari per le discese soprannaturali delle divinità. Lo stage era il “reale”, gli altri due spazi possono essere paragonati ai “fantastici” inferiore (hell) e superiore (heavens).
Bisogna precisare che, con l’utilizzo del velo in sala (una tela trasparente appesa dal palcoscenico alla sala, sopra gli spettatori), Damiani si occupò del “fantastico superiore”, ma non ebbe occasione di sperimentare il “fantastico inferiore” finché il comune di Milano gli propose l’allestimento per l’Orfeo, dal Poliziano, già messo in scena da Leonardo Da Vinci (Milano, Castello Sforzesco, Corte delle Armi; 1983)». “Fu un’occasione “fortunata” – scrive Damiani – “perché scoprii l’elemento in grado di completare la “macchina” di Teatro che volevo: il fantastico inferiore”.
In realtà Damiani non amava l’idea di riprendere pedissequamente la messinscena di Leonardo: Da Vinci nel suo progetto, aveva pensato a una collina come una mezza cupola: questa si “apriva” facendo apparire all’interno gli inferi. Damiani risolse il problema della collina realizzando un piano di palcoscenico che, flettendosi, diveniva un arco e permetteva di creare uno spazio superiore e uno inferiore. All’occorrenza inoltre, neutralizzando la spinta che lo aveva flesso, l’arco poteva ritornare a essere un normale piano di scena. Era l’avverarsi di un antico sogno che probabilmente avevano avuto molti scenografi nella storia: un piano che fletteva, si inarcava e lasciava intravedere un intero mondo degli inferi, un “sotto”, un inferno, un hell. Damiani raccolse la sua stessa sfida, da bravo, testardo “egocentrico”, come ama autodefinirsi…
Pensò aduna struttura flessibile, che misurasse 17 metri di lunghezza per poco più di 5 metri di larghezza, formata da tubi flessibili di poliestere termoindurente rinforzato con il 60% di fibra di vetro che furono acquistati da una ditta specializzata di Monaco.
Damiani ebbe un’intuizione geniale: inarcandosi, il piano sarebbe risultato prospettico, per cui la parte anteriore, più vicina al pubblico, si sarebbe arcuata maggiormente della parte posteriore. È comunque importante soffermarsi sul fatto che, trovandosi in posizione ad arco, il flessibile fosse in prospettiva: subendo spinte diseguali e flettendosi in maniere differenti, la struttura risultava sollecitata maggiormente e ciò significava andare incontro a ulteriori problemi statici e dinamici; eppure Damiani, conscio di tutto ciò, scelse appositamente di realizzare un piano flessibile prospettico. Se ciò non fosse stato infatti, il flessibile sarebbe apparso come un semplice ponte, un cavalcavia semovente (anche se un giornalista lo definì comunque in codesta maniera) piuttosto che una forma particolare quale era – quasi un lembo di crosta terrestre che, spinto da una forza misteriosa, si elevava.
La soluzione escogitata per la creazione delle due superfici lignee equivalenti era forse la più complessa e fu quella che giunse per ultima.
Venne progettata una struttura metallica studiata in modo da poter essere fissata alle aste flessibili. Gli elementi di acciaio erano posti, su tutta la lunghezza dei tubi, a una distanza di un metro uno dall’altro ed erano quindi, in numero pari a dodici; le lastre di legno erano spesse sei millimetri. Il vero e proprio pavimento, cioè la parte calpestabile, era composto da due strati sovrapposti di legno compensato; la parte inferiore del piano viceversa, non essendo praticabile ed avendo l’unica funzione di impedire la vista della struttura, era costituita da un solo strato di compensato.
Al doppio strato di compensato del pavimento, previde l’incollaggio due tappeti: da un lato dell’antirombo, dall’altro, quello calpestabile, del feltro. La funzione dell’antirombo era di limitare i rumori dovuti al ballo; si immaginino dei danzatori saltare o correre sul piano di palcoscenico flessibile: senza un “silenziatore” sarebbe stato come picchiare sulla pelle di un tamburo. Il feltro dipinto con della guaina rossa, aveva il medesimo scopo, ma non solo: risultava indispensabile ai ballerini come superficie grippante e come copertura delle guide metalliche che ospitavano i pannelli di compensato. Come già illustrato in precedenza infatti, è fondamentale per il ballo avere una superficie che impedisca scivolate e, altresì, un piano in cui sia assente qualsiasi elemento che possa ferire, se non peggio, i piedi dei danzatori.
Per concludere, Damiani studiò anche una soluzione per inserire, all’interno del flessibile dei proiettori; questi erano molto utili per illuminare la parte sottostante il piano quando si trovava in posizione ad arco. L’altezza interna del flessibile era di 16,4 centimetri e, nonostante fosse piuttosto sottile, dei piccoli proiettori potevano con facilità, essere collocati al suo interno. Chiaramente dove fuoriusciva il fascio di luce non era presente alcun pannello di legno.
Inizialmente i primi test che seguirono la progettazione e che cominciarono nel 1981, rivelarono un enorme difetto di costruzione: i tubi, non adeguatamente fissati alla squadra di metallo solidale con il congegno idraulico di spinta, si liberarono dalle loro sedi: il piano si “sdraiò” rovinosamente a terra. Si immagini un piano di diciassette metri di lunghezza che, per inarcarsi, necessita di una spinta pari a numerose tonnellate, e che, improvvisamente per un difetto di costruzione, si schianti disteso, a terra: il problema era veramente grave, soprattutto dal punto di vista della sicurezza.
La progettazione era stata estremamente accurata, questo si è già appurato, e la ditta che realizzò la carpenteria metallica del piano flessibile era affiancata da ingegneri del centro nucleare di Latina. Detto tutto ciò è legittimo chiedersi come si sia verificato un problema simile.
In realtà le variabili di cui tenere conto, erano un numero esorbitante. Se il piano si fosse inarcato in maniera simmetrica, cioè uguale sia anteriormente che posteriormente, probabilmente sarebbe stato più semplice calcolare punti di rottura, spinte, eccetera. Avere invece una flessione asimmetrica, dovuta alla presenza delle squadre poste alle estremità del flessibile, complicava enormemente le cose.
Se dopo sei lunghi mesi di lavoro si ottennero i risultati sperati infatti, fu solo grazie alle numerose prove eseguite che furono di enorme importanza. Damiani confessa che, se non avesse avuto modo di testare le soluzioni progettate possedendo spazi e mezzi finanziari adeguati probabilmente non sarebbe arrivato a nulla.
È importante precisare che il piano flessibile possedeva già una lieve curvatura naturale realizzata “in opera”, vale a dire durante la costruzione, necessaria perché il piano s’inarcasse. La predisposizione generata tuttavia, non fu sufficiente per vincere l’iniziale resistenza del piano all’inarcamento, sicché, con il solo scopo di innescare il movimento, si unì alla compressione idraulica in orizzontale, una spinta in verticale apportata da uno scivolo collocato sotto il flessibile.
Il palcoscenico flessibile aveva un unico difetto, se così possiamo chiamarlo: com’è già ampiamente noto, esso era praticabile sia in posizione orizzontale, che in quella “ad arco”. Se una massa di ballerini entrava da un’unica parte, ad esempio da destra, la struttura tendeva a oscillare verso sinistra.
In realtà questo tipo di “reazione” alle sollecitazioni da parte del flessibile si può giudicare normale: tutto sommato va sottolineato che il piano era lungo 17 metri e si inarcava fino a un’altezza massima di ben 3,2 metri. In ogni caso il problema fu aggirato facendo salire da entrambe le parti e contemporaneamente, la medesima quantità di personaggi.
Dice lo stesso Damiani: «…questo flessibile è la conclusione di tutta una ricerca che ho fatto io nell’arco di trenta, quarant’anni. Ma questa è la conclusione di un tentativo di fare in chiave moderna il teatro barocco, cioè: quinte palcoscenico inclinato, botole e soffitti. Era ancora in sospeso il risolvere il fantastico inferiore. Non c’erano altri mezzi a disposizione. È arrivata, per fortuna, la proposta da parte del Comune di Milano, di rifare la messa in scena di Leonardo. Però ho detto: “Io la messa in scena di Leonardo non la faccio, non voglio fare un modello per il museo della Scienza e della Tecnica. Faccio un’altra cosa!” e lì per lì ho detto: “Faccio un piano flessibile”, ma non sapevo assolutamente neanche come farlo. Realmente ho detto al sindaco di Milano: “Faccio un’altra cosa” ed è partita naturalmente quest’idea che a poco a poco si è sviluppata attraverso, prima dei tentativi, dopodiché con un primo fallimento pauroso. Ma poi ha funzionato!».
È possibile pensare che non sia stata compresa appieno l’importanza e la difficoltà insiti nella realizzazione di un palcoscenico flessibile. Quando Damiani lo utilizzò per la prima volta nello spettacolo Orfeo, la stampa non diede molto peso a questa innovazione scenografica. Leggendo i vari articoli di giornale sembra quasi normale che Damiani avesse realizzato un piano di diciassette metri che si inarcava e su cui dei ballerini eseguivano figure di danza. I commenti furono curiosi: “Damiani, dal canto suo, ha utilizzato come base figurativa le colline leonardesche, costruendo però una sorta di arco teso a separare la terra dagli inferi”; e ancora: “Leonardo è un cliente difficile, […] se perfino una artista come Damiani ne è rimasto bloccato”; Anche chi sembrò aver apprezzato non si sbilanciò più di tanto: “La scenografia […] è piuttosto bella.”
Al di là delle difficoltà tecniche per realizzare un piano di palcoscenico simile, da questi commenti si evince che nemmeno le necessità poetiche furono comprese, come pure l’importanza e l’unicità di questa geniale soluzione. E non sono certo di minima importanza: è lui stesso a confessare che il piano flessibile è la conclusione di tutta una ricerca compiuta nell’arco di trenta, quarant’anni…: di una vita.

Daniele Paolin

Brani di intervista, modello e foto tratte dalla tesi di Laurea “Il piano flessibile di Luciano Damiani” di Matteo Fianchi – Accademia di Brera Milano – Relatore prof. Daniele Paolin.

13 Luglio 2010

The international festival of scenic arts 2010

Filed under: Scenografia — admin @ 12:41

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LO SCENOGRAFO E GLI STRUMENTI DEL SUO TEMPO: UN PUNTO DI VISTA

Parliamo naturalmente di teatro: cinema e televisione affrontano il problema della scenografia con altri presupposti.

E’ difficile parlare di scenografia nel periodo attuale, soprattutto in Italia. La grave situazione economica che il nostro paese sta attraversando condiziona pesantemente ogni libera scelta artistica, di ricerca, di innovazione e di sperimentazione. In questo panorama si produce poco e male, soprattutto a discapito delle nuove generazioni di professionisti che si dedicano alla scenografia, proprio in un momento in cui nuove tecnologie si affacciano all’orizzonte del secondo decennio del secondo millennio sia sul versante della progettazione, sia sul versante della realizzazione che della tecnologia di palcoscenico.
Sul versante della progettazione il mercato offre numerosi e sofisticatissimi software di modellazione tridimensionale, oltre ai ben noti sistemi di disegno assistito, con i quali è possibile avvicinarsi in maniera considerevole a quello che sarà il risultato finale. Una simulazione, quindi, del reale che unisce una qualità della texture con quella della luce di livello inaspettato. Esiste ormai sul mercato anche un software freeware che permette addirittura, anche a vecchi incompetenti come il sottoscritto, di modellare velocemente degli schizzi volumetrici molto attendibili che sostituiscono i modellini di massima in cartoncino che si facevano fino a poco tempo fa soprattutto per capire la bontà e la qualità delle proporzioni e delle strutture.

Sul versante invece della tecnologia e della realizzazione si può riscontrare un sempre maggiore abbandono della pittura in favore soprattutto di sofisticati sistemi proiettivi. Sistemi meccanici, illuminotecnici e multimediali si stanno imponendo in palcoscenico ed il loro controllo diviene sempre più specialistico per cui se non si è a contatto con la pratica quotidianamente, risulta difficile qualsiasi aggiornamento.

Ma il punto a mio parere non è questo.

Due aspetti fondamentali stanno cambiando rapporti storicamente poco propensi a cambiare e ad innovarsi e questo grazie ad un più stretto rapporto tra arte e scienza che le nuove tecnologie e i nuovi linguaggi ci impongono: la drammaturgia e l’organizzazione stessa dello spettacolo.
I nuovi media impongono necessariamente nuovi linguaggi per raccontare, alcuni già entrati nel lessico televisivo e cinematografico. Mi vengono in mente le parole premonitrici che qualche anno fa, presentando uno spettacolo intermediale di cui era co-autore, Giorgio Celli, etologo ed appassionato di drammaturgia, disse al pubblico:

”Sembra quasi necessario che l’uomo acquisti coscienza del mutamento prossimo venturo, ma che non lo comprenda soltanto con la ragione, ma che venga coinvolto emozionalmente. La complicità della parte sinistra del nostro cervello non è sufficiente, bisogna chiamare in causa anche la parte destra, mettendo la ragione in sintonia con l’emozione, la percezione visiva con l’esercizio della logica, il vedere con il pensare, il pathos con il cogito. Come ottenere questo risultato se non attraverso un’opera multimediale, interdisciplinare, ad interfaccia tra scienza e arte, se non con un collage tecnologico, con un evento totale, con la simulazione di una grande profezia cosmologica?
Io credo che questo sia il tentativo anticipatorio di quello che potrebbe essere il teatro del prossimo millennio. A mio parere il teatro sta declinando, spinto da altri mezzi assai più suggestivi: come potrà sopravvivere, se vorremo farlo sopravvivere?
Da un lato credo che diventerà uno psicodramma: due attori che parlano circondati da poche persone e questo potrà essere un teatro dell’immaginazione, della finzione, dell’emozione, della partecipazione diretta; l’altro tipo di teatro potrebbe essere un tipo di teatro totale, dove tutti i mezzi di riproduzione dell’immagine e di trasmissione delle parole e dei suoni concorrono insieme a fare una specie di grande “conflagrazione””.

Dello psicodramma si è già impadronita la tv con i vari reality che stanno imperversando su tutti i fronti: un gran numero di spettatori (che alimentano l’audience e quindi la pubblicità e quindi gli introiti…) assistono in qualità di voyeurs alle emozioni “dal vero”, in partecipazione emotiva diretta (ma su questo ci sarebbe molto da dire…) di interi gruppi eterogenei di persone.
Al teatro forse resta quella che Celli chiama “evento totale” di movimento, di immagini, di parole e di suoni dal vivo, in tempo reale, in altre parole la multimedialità o intermedialità.
E qui non si tratta di mettere telecamere e monitors in scena o usare le proiezioni o laser vantando di essere all’avanguardia; si tratta invece di usare dei veri e propri linguaggi multi o inter mediali che sono cosa diversa e più articolata ancorché spettacolare.

Ma la domanda è: si può ancora parlare di “scenografia” come scienza autonoma o è meglio chiamarla “scienza delle apparenze” come qualcuno ha proposto? Non a caso molti spettacoli contemporanei escono dagli ormai angusti spazi teatrali. Ma soprattutto: esistono drammaturghi che scrivono e che immaginano un teatro simile? Ed esistono nuove personalità registiche e scenografiche che si approprino di questi nuovi linguaggi legati alle tecnologie, ma soprattutto all’intermedialità?

Probabilmente sì, e sono ancora una sparuta ed isolata minoranza che faticosamente sta emergendo, ma questo non è il momento propizio per sperimentare, per provare, per curiosare e ricercare nei meandri del futuro: soprattutto in Italia mancano i mezzi e le opportunità e certo non bisogna aspettarsi nulla dalle cosiddette istituzioni…. Prendono però sempre più piede nuove metodologie e nuovi sistemi di lavoro e di organizzazione. Ormai i numerosi specialismi obbligano necessariamente (finalmente, direi!) ad un serio lavoro di gruppo, in cui varie personalità hanno lo stesso peso e lo stesso intervento sulla qualità dello spettacolo: non è più affare soltanto del regista demiurgo factotum in primis e dello scenografo fornitore di immagini in seconda battuta; ingegnere del suono, light designer, ingegnere informatico, ingegnere meccanico, tecnico informatico, art director ed altre figure ancora stanno sempre più costantemente affiancando e sostenendo quelle storiche della progettazione dello spettacolo ed in futuro lo faranno ancora di più.

Per quanto riguarda il rapporto fra le nuove tecnologie e lo spettacolo, ultimamente mi hanno colpito due cose: la prima riguarda il passato e la seconda il futuro.

Per ciò che concerne il passato ho scoperto solo poco tempo fa una figura straordinaria di scenografo, sul quale in Italia si sa poco, che ha elaborato una serie di teorie e di spettacoli ancora oggi all’avanguardia, ma lo ha fatto fin dalla fine degli anni ’60 ed è questo l’incredibile: si tratta di Jacques Polieri, scenografo francese che già da quegli anni aveva pensato ad un nuovo rapporto fra pubblico e spettacolo con l’ideazione di settori di pubblico che aveva così l’opportunità di muoversi nelle tre direzioni dello spazio, cambiando continuamente punto di vista sullo spettacolo; o anche il suo théatre mobile à scène annulaire che è una sorta di teatro totale semovente; ma le innovazioni principali hanno riguardato la sua messa in scena: immagini elettroniche, proiezioni, riprese-ponte fra continenti diversi… Insomma “ha previsto, venti/trenta anni prima, la fine del teatro nella sua forma tradizionale, la banalizzazione del cinema, e lo straordinario sviluppo della televisione, del video e dei mezzi elettronici” come ha scritto Jean-Michel Place.

Per il futuro, la cosa che mi ha più sorpreso come appasionato di scenografia, è senza dubbio la nascita e lo sviluppo di tecniche di proiezione tridimensionale animata su facciate o elementi architettonici che hanno la possibilità di trasformare l’architettura in una metamorfosi continua affascinante: il più antico sogno dello scenografo si avvera e cioè quello di vedere un ambiente che si trasforma gradualmente in altra cosa, in altra figurazione senza nessuna invasività, quasi una forma di trasfigurazione spettacolare.
Questo mezzo rappresenta senza dubbio una risorsa straordinaria dal punto di vista visivo, ma credo anche che attualmente sia usato come semplice dimostrazione di abilità “effettistica”, senza dubbio interessante, ma assolutamente gratuita: credo che quando tutto ciò avrà una destinazione ed un impiego al servizio di un “racconto” più o meno lineare, potrà assumere una superiore forza espressiva e si apriranno quindi altri orizzonti icastici interessanti.

 

pdf dell’Intervento completo di Daniele Paolin

24 Giugno 2010

scenografia e scenotecnica (arte e tecnica): discipline diverse?

Filed under: Scenografia — admin @ 08:15

«La consunta dicotomia fra azione artistica ideativa, pura e libera, e scenotecnica che la realizza, mostra una visione miope del problema che non è più da molto tempo di dipendenza esecutiva nei confronti di un oggetto altrimenti già delineato. Il trattamento dello spazio globale, inteso anche come parti di vuoto, come aria e luce, è altrettanto importante della scelta degli elementi figurativi che dichiarano il significato della scena. Progettare con coerenza nello spazio volumi, ritmi, colori, luci, immagini, forme, è l’azione oggi più importante nella sfida con la fisicità del teatro, rappresentazione e costruzione a tre dimensioni di un brano di mondo ricreato. Proiettare un pensiero fatto di forme e luci nella loro esistenza fisica e farlo diventare oggetto in profondità, modello o scultura, significa determinare e controllare non più la tradizionale immagine-bozzetto ma l’intero sistema spettacolo nella sua esistenza come entità concreta calata in una propria dimensione spazio-temporale».

Da Verso la scena di Giorgio Ricchelli (Docente IUAV)

Scientia sine Arte nihil est : Ars sine scientia nihil est”, Jean Vignot, 1392

“Mentre può esistere una tecnica senza arte, non è mai esistita un’arte senza una tecnica”.  René Berger

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