www.scenotecnica.com

22 Giugno 2010

verso una “scienza delle apparenze”

Filed under: Scenografia — admin @ 15:57

derjasbn

 

Studi sulla scenografia, fra progettazione e realizzazione.

Intervento del Prof. Daniele Paolin all’Accademia di Brera per il ciclo INCONTRI CON I GRANDI MAESTRI DELLA SCENOGRAFIA INTERNAZIONALE organizzato dalla rivista The Scenographer Masterclass di progettazione e realizzazione – I nuovi linguaggi scenografici – Aprile 2007

Negli ultimi cinquant’anni la scenografia ha percorso un cammino considerevole, quale, agli inizi del secolo, non era neppure possibile presagire, sebbene, il frenetico avvicendarsi di scoperte ed invenzioni in campo tecnico, e la vitalità delle arti figurative, altrettanto sconvolgenti e rivoluzionarie, fossero segni chiaramente premonitori dello schiudersi di nuovi e più vasti orizzonti.

Partendo dalle aride esperienze stilistiche e dalle fredde ricostruzioni archeologiche, peculiari della produzione tardoromantica, siamo pervenuti, nel giro di alcuni decenni che hanno visto intrecciarsi tentativi ed esperienze di ogni genere e sia pure di diverso valore, ad un’arte moderna ed attuale, caratterizzata da una pluralità di inedite ed inconfondibili esperienze.

Purtroppo, non ci sentiremmo di affermare con uguale sicurezza che tale sorprendente ciclo sia stato seguito da un adeguato approfondimento critico. Se un tempo le idee intorno alla funzione ed alla finalità della scenografia risultavano confuse, per troppa parte appaiono tali ancor oggi. Sembra che tutto concorra a perpetuare od a far prosperare alcune false teorie, le quali, giungendo talvolta persino a snaturarne e ad alterarne il carattere, hanno accompagnato la scenografia per secoli, anche nei momenti di particolare splendore.

La carenza critica è determinata da cause ben precise ed individuabili, per quanto non tutte siano facili da superare. Come ebbe a notare il Molinari, in un acuto saggio sulla formulazione di una metodologia per la storia del teatro, il maggior numero di studi inerenti i più vari aspetti dello spettacolo sono stati svolti da così detti “uomini del mestiere”; questi, per una singolare forma mentis, sovente affiancata da una inadeguata preparazione critica, “sia pure tra geniali intuizioni, assai spesso di carattere autocritico ed autodefinitorio”, non sono riusciti a determinare od a proporre un metodo di lavoro efficiente e razionale.

A questa osservazione, che rimane valida ed accettabile anche per la scenografia, vorremmo aggiungerne una seconda, a nostro avviso altrettanto incidente. E cioè come, nel caso in questione, un cospicuo contributo critico sia stato offerto in prevalenza da studiosi di arte figurativa i quali, seguendo un consueto metodo di lavoro, hanno considerato dei bozzetti unicamente l’aspetto grafico, analizzandoli alla stregua di un’opera pittorica, compiuta in sé, senza quasi mai preoccuparsi di prenderne in esame le più reali qualità sceniche, le sole che dovrebbero essere ritenute valide agli effetti teatrali.

Nel tentativo, spesso vano, di colmare lo svantaggio derivante da un’arte che lascia tracce troppo effimere e inconsistenti, ci si trova a dover operare una autentica “ricostruzione archeologica delle forme spettacolari”: a lavorare su frammenti, con materiale incerto ed incompleto. Di qui un continuo ed inevitabile attingere a fonti mediate, a notizie di seconda mano desunte dalle recensioni di cronisti non sempre sicure ed attendibili, alle “memorie” od ai “diari” di viaggiatori stranieri i cui pregi maggiori consistono quasi sempre nel valore letterario, od infine ad inerti documenti d’archivio.

Manca, in altri termini, la condizione indispensabile a dar vita all’intuizione critica, la quale si verifica, per dirla col Venturi “…non soltanto con la critica delle idee precedenti, ma soprattutto con l’esperienza intuitiva delle opere d’arte. Senza questo ritorno continuo alle origini, all’impulso intuitivo, al contatto di uomo a uomo, di spirito a spirito, fuori dei limiti imposti dalla tradizione, non sarebbe possibile la creazione di una nuova critica. Il progresso, cioè, non avviene per giro di ruota, secondo la routine: avviene a salti. E il trampolino per la critica d’arte è l’opera d’arte ispiratrice”.

Questo contatto ideale di “uomo a uomo” per lo storico della scenografia è pressoché irraggiungibile: non si attua interamente neppure quando, nel più fortunato dei casi, egli può disporre dei bozzetti scenici, giacché, è bene chiarire, i bozzetti non sono scenografie, ma solo appunti, incompleti e lacunosi, per giungere ad esse. La scenografia si avrà solo quando le parti dipinte, le parti costruite, i giuochi di luce, l’attrezzeria, saranno lì sul palcoscenico, intorno all’attore che vi conferirà l’esatta dimensione teatrale. Se ne ricava il valore del tutto marginale del bozzetto, che al limite potrebbe anche essere soppresso, senza alcun danno per l’effetto scenico finale, qualora lo scenografo – inventore ottenga direttamente dai suoi collaboratori tutto quanto gli è necessario.

E’ opportuno stabilire, partendo ab origine, se, a proposito della scenografia, sia lecito parlare di arte, ed in caso affermativo occorre definirne le caratteristiche fondamentali, e la sua funzione nel teatro moderno. Si è spinti a porre tale quesito in considerazione dell’operazione essenzialmente composita della scenografia, nella quale concorrono, con maggiore o minore incidenza, a seconda dei casi, pittura, scultura, decorazione ed architettura. Questo rapporto, sia pure con prevalenze alterne, ha senza dubbio apportato giovamento ad entrambe le parti, ma, sempre a scapito della scenografia, ha anche contribuito a rendere più vaghi e incerti i suoi confini con le arti figurative.

Questo però è motivo sufficiente per ritenere la scenografia un sottoprodotto della pittura o dell’architettura, o non si tratta piuttosto di un’arte autonoma che, servendosi opportunamente di queste, le assimila per riproporle in una espressione nuova ed autonoma?

Oltre che per la già deprecata deficienza critica – ricordiamo per inciso le frasi convenzionali ed i frettolosi giudizi con i quali, senza eccessivo indugio, vengono liquidati gli allestimenti scenici, non solo nelle recensioni dei quotidiani, ma persino nelle riviste specializzate – tali casi traggono spunto principalmente da alcuni equivoci che si verificano nell’insegnamento e nell’attività professionale.

Trascurando il corso della facoltà di architettura, che tende solo a dare un’informazione e che quindi non può qualificare professionalmente, lo studio della scenografia in Italia si esplica unicamente presso le Accademie di Belle Arti. Esso si attua, quindi, in un ambiente costituzionalmente volto alle arti figurative: ciò, mentre da un lato contribuisce alla formazione di un gusto estetico, ausilio indispensabile per lo scenografo, d’altro canto, per la totale assenza di rapporti con gli altri fattori costitutivi dello spettacolo (regia, attori, ecc.), ostacola e ritarda lo sviluppo e l’assimilazione di un gusto teatrale, tendendo quindi a creare pericolose deformazioni nella personalità del futuro scenografo. Occorrerà il massimo impegno da parte del docente per evitare che l’allievo, sotto il continuo influsso dell’ambiente, invece di adoperare il colore in base al suo significato emotivo, sia indotto ad indulgere in arbitrarie soluzioni pittoriche, magari efficaci dal punto di vista formale, ma prive di senso di relazione alle esigenze della scenografia.

Mentre questi inconvenienti, se non eliminati, possono essere ampiamente circoscritti mediante una continua e vigile opera didattica, ben più gravi sono gli accidenti che si verificano nell’attività professionale: infatti vige ancor oggi il costume, antico quanto arbitrario, di affidare al pittore la soluzione di problemi teatrali, nella errata convinzione che un talento pittorico, magari di eccezionale livello, senza bisogno di alcun approfondimento specifico, sia in grado di affrontarli e risolverli quanto, se non meglio, uno scenografo.

Senza volere ignorare o sminuire il concreto contributo offerto alla scenografia dalle arti figurative in tutte le epoche – contributo che in alcuni casi è servito persino a favorire svolte ed improvvisi mutamenti di rotta – bisogna quindi convenire che è auspicabile una maggiore chiarezza e precisione nello stabilire i limiti della loro interferenza. Ciò si potrà ottenere solo evitando, in base a giudizi troppo frettolosi e superficiali, di ritenere positivo, senza alcuna discriminazione, ogni intervento estraneo, anche quando non si tratta che di episodiche avventure destinate a rimanere senza storia.

Come è noto, un apporto compatto della pittura, l’ultimo in ordine di tempo, che abbia avuto sensibili ed apprezzabili ripercussioni sulla scenografia, al di fuori degli interventi singoli, rimane legato al nome dei balletti russi.

Ma a parte ciò, bisogna convenire che ormai, essendo la scenografia definitivamente uscita da depressive situazioni contingenti, appare del tutto privo di significato riproporre esperienze passate, in base ad esempi efficaci solo se inquadrati in una precisa situazione storica. Ogni iniziativa in tal senso, benché pretenda di essere anticipatrice e progressista, non può, al contrario, che risultare anacronistica e retriva; servirà solo a riportare la scenografia indietro nel tempo, annullando decenni di fertili tentativi e di fruttuose ricerche.

Un rapido sguardo su alcune produzioni pittorico – teatrali di questi ultimi anni ne fornisce un’esauriente dimostrazione. Tralasciando esempi del tutto deteriori, il caso più ricorrente è quello di artisti che, lungi dal condizionare la abituale maniera espressiva alle esigenze della scenografia, hanno adoperato il palcoscenico come una enorme sala da esposizione, limitandosi ad esporre un loro quadro opportunamente ingrandito e dilatato. Il ripetersi di epidermiche esperienze da parte di un medesimo artista, ad onta della diversità delle opere rappresentate, quando non è seguito da un adeguato approfondimento specifico, finisce inevitabilmente col cadere in monotone ripetizioni di un tema unico. Talvolta l’opera scenografica del pittore o dell’architetto, al di fuori di ogni consapevole intenzione, è riuscita a realizzare un ideale contatto con il testo per una congenialità del tutto naturale e spontanea. In casi particolari – che però, come ogni altro, può essere risolto da un qualsiasi scenografo provveduto delle indispensabili doti di sensibilità e di gusto – il pittore o l’architetto sono stati scelti, in base ad un ineccepibile ragionamento, proprio perché la loro maniera risultava singolarmente affine al clima dell’opera.

Quantunque in gran parte riferite alla pittura – e ciò per il maggior numero di interferenze – tali osservazioni rimangono valide anche per l’architettura la quale, tuttavia, occupa una posizione alquanto diversa. Le espressioni più moderne dello spettacolo, cinema e televisione, per il loro carattere estremamente realistico, richiedono allestimenti in cui la preparazione tecnica e la conoscenza stilistica dell’architettura sono indispensabile corredo. Significativo l’orientamento preso in questi ultimi anni nelle Accademie od al Centro Sperimentale di Cinematografia: a presiedere l’insegnamento di scenografia, quando non vi è uno scenografo, viene designato un architetto il quale, ovviamente, abbia avuto le necessarie esperienze in materia.

Nel nostro rapido esame, a titolo puramente esemplificativo, ci siamo limitati a segnalarne solo una parte, al fine di porre in risalto l’arbitrarietà e l’illegittimità di alcuni interventi. Di quelli, cioè, che con i loro disinvolti e superficiali contatti finiscono per mortificare la preparazione scenografica, annullandone ogni valore.

Non si auspica quindi che venga esaurendosi una cooperazione, a volte anche proficua, ma che essa sia circoscritta a quei casi che offrano le opportune garanzie di una adeguata conoscenza specifica e di una reale adesione ai problemi dello spettacolo.

Si può quindi concludere che le arti figurative appaiono come una componente indispensabile e preziosa per la scenografia, purché contenute entro i limiti di una funzionalità teatrale. Sebbene abbia mutato volto nei secoli, questa esigenza esiste da sempre: pittura, architettura o scultura, entrando a far parte di una scenografia, sono sempre state assimilate e riproposte con un significato ed una forza espressiva del tutto propria ed inedita. E’ proprio la relazione con il testo e la drammaturgia, su cui sorge un’autonoma rappresentazione, la caratteristica che maggiormente differenzia la scenografia dalle altre arti, per le quali si lavora in perfetto abbandono, senza interposizioni o mediazioni di sorta. Ciò sia detto non per ricondurre a formula la soluzione di un problema fondamentalmente estetico, ma solo per porre in risalto l’aspetto più valido, la più originale caratteristica della scenografia moderna.

Se si vuole evitare di emettere giudizi non pertinenti anche per una valutazione critica, quindi, è al criterio interpretativo del testo in termini teatrali che bisogna guardare, giacché su tale principio, e non sulle estrosità pittoriche e sulle audacie architettoniche, sia pure ad altissimo livello, si sono fondate le più valide espressioni.

E’ sorprendente come le parole fin qui citate e che volutamente ho simulato formulassero il mio pensiero, siano in realtà di un grande studioso, storico, scrittore, docente di scenografia: sono di Franco Mancini, estratte dall’articolo SCENOGRAFIA: UN RAPPORTO DA PRECISARE e sono state scritte nel 1964 (43 anni or sono…) su “Critica d’Arte” fascicolo 62.

I giorni scorsi mi sono chiesto, rileggendolo, cosa fosse cambiato in 43 anni. Mi sono risposto: molto poco. E’ per questo che le pagine lette sembrano scritte oggi.

Mancini, ricordo, asserisce: “Se un tempo le idee intorno alla funzione ed alla finalità della scenografia risultavano confuse, per troppa parte appaiono tali ancor oggi”.

L’importanza storica da una parte, e la rapidissima evoluzione della scenografia nel suo insieme (teatrale, televisiva, ma soprattutto cinematografica) sono, in Italia principalmente, purtroppo controbilanciate da un crescente, generalizzato disinteresse culturale e mediatico verso questa bellissima disciplina nella quale il nostro paese ha sempre primeggiato. Poche le pubblicazioni, scarsissimi i libri, rari i convegni, ancor più rare le mostre, spesso svogliate le recensioni, interrotte soltanto da momenti di indubitabile prestigio quali i premi Oscar come Gianni Quaranta e Dante Ferretti.

La ricerca delle motivazioni che giustifichino questo dato evidente vanno ricercate nella natura stessa della prassi scenografica: quella dello scenografo è una professione pregnante, oserei dire “totalizzante”, ma per certi versi oscura e sconosciuta alla grande maggioranza e forse un po’ trascurata dal mondo della cultura accademica nella sua accezione più ampia. Si lavora per mesi, prima dell’evento, isolati nella progettazione, nella ricerca, nella documentazione fino ad arrivare allo straordinario momento in cui si materializza la scena, il manufatto, immersi in mille problemi di carattere economico, tecnico, artistico, organizzativo, molto spesso con ritmi forzati e sostenibili solo con notevole difficoltà, fino ad arrivare all’evento performativo, momento in cui tutto si concentra, acquista un senso e prende corpo.

Tutto ciò ha un aspetto comunque magico, emozionante, straordinario.

Ovvio quindi che resti ben poco tempo per la riflessione, la scrittura, la sedimentazione teorica, l’analisi serena o soltanto per una accurata, preziosa raccolta documentale di questo iter, di questo meraviglioso, difficile processo creativo. Gli scenografi lasciano poco materiale al grande pubblico, agli studiosi o solo agli appassionati, ma quasi sempre non per colpa o cattiva volontà: solo ed unicamente per mancanza di tempo.

E per il professionista che è anche docente, e che quindi ha la necessità di trasmettere questo sapere, quest’arte, queste capacità a nuove generazioni, diventa difficile anche il solo dare dei semplici punti di riferimento e strumenti “altri”, oltre alla propria esperienza, pur importante, come invece succede nella maggior parte delle altre discipline d’insegnamento.

Risulta quasi inevitabile quindi, citando ancora Mancini, che un «contributo critico sia stato offerto in prevalenza da studiosi di arte figurativa i quali considerano, dei bozzetti, unicamente l’aspetto grafico, analizzandoli alla stregua di un’opera pittorica, compiuta in sé, senza quasi mai preoccuparsi di prenderne in esame le più reali qualità sceniche, le sole che dovrebbero essere ritenute valide agli effetti teatrali».

Spesso, nella mia vita di docente, mi sono chiesto in quale modo, lo studente che avevo davanti, potesse riuscire a capire che il suo “bozzetto” non possedeva quelle “reali qualità sceniche, le sole che dovrebbero essere ritenute valide agli effetti teatrali”.

Ma come trasmettere queste particolari qualità se non arricchendo le sue conoscenze con la pratica scenica, la sola che possa formare questa capacità critica?

I nostri istituti formativi non sono ancora oggi in grado di avere rapporti istituzionali con realtà teatrali o quantomeno con altre organizzazioni disciplinari attigue allo spettacolo. Ecco che, ricorda Mancini già 43 anni or sono «per la totale assenza di rapporti con gli altri fattori costitutivi dello spettacolo (regia, attori, ecc.), ostacola e ritarda lo sviluppo e l’assimilazione di un gusto teatrale, tendendo quindi a creare pericolose deformazioni nella personalità del futuro scenografo». Non è cambiato nulla. Neppure lo stato giuridico delle Accademie e di chi vi insegna, detto per inciso.

E allora siamo costretti a trattare unicamente la “teoria scenografica”. Siamo costretti a lavorare su quei “bozzetti” che, per ricordare le parole di Mancini «non sono scenografie, ma solo appunti, incompleti e lacunosi, per giungere ad esse. La scenografia si avrà solo quando le parti dipinte, le parti costruite, i giuochi di luce, l’attrezzeria, saranno lì sul palcoscenico, intorno all’attore che vi conferirà l’esatta dimensione teatrale».

I cosiddetti “bozzetti”, quindi, se da una parte rappresentano un prezioso alimento per quel “gusto artistico” e compositivo che sembra essere indispensabile, inevitabilmente si allontanano da quella “dimensione teatrale” e spaziale che si auspica. Sono scene spesso vuote, senza protagonisti, senza storia: diventano solitarie protagoniste di se stesse; vogliono solo ed unicamente far bella mostra di se. Ed è qui che l’aggettivo “scenografico” assume quel consueto, becero, insopportabile significato di “apparenza senza sostanza”, di “estetica senza funzione” di “vuota ampollosità” che normalmente purtroppo assume.

Scenografia invece è fatica, studio, progetto, funzione estetica e funzione drammatica, disciplina dura, dura quanto la sua parte tecnica, normativa e metodologica. La mancanza di laboratori e di rapporti istituzionali con centri di produzione, confina l’insegnamento tecnico-pratico della realizzazione scenografica unicamente allo stadio ancora una volta soltanto “teorico”. Per ricordare ancora Mancini:«Dare un’informazione non è qualificare professionalmente».

Per anni mi sono personalmente battuto per abbattere, almeno, quella storica barriera che separa, normativamente in ambito accademico, la Scenografia dalla Scenotecnica o quantomeno per rendere meno evidenti i loro burocratici confini, visto che ci vengono imposti. Ultimamente sono stato confortato da un prestigioso collega scenografo e docente dello IUAV di Venezia, il Prof. Giorgio Ricchelli, che nel suo ultimo libro, Verso la scena, quasi parafrasando Mancini, afferma:«La consunta dicotomia fra azione artistica ideativa, pura e libera, e scenotecnica che la realizza, mostra una visione miope del problema che non è più da molto tempo di dipendenza esecutiva nei confronti di un oggetto altrimenti già delineato. Il trattamento dello spazio globale, inteso anche come parti di vuoto, come aria e luce, è altrettanto importante della scelta degli elementi figurativi che dichiarano il significato della scena. Progettare con coerenza nello spazio volumi, ritmi, colori, luci, immagini, forme, è l’azione oggi più importante nella sfida con la fisicità del teatro, rappresentazione e costruzione a tre dimensioni di un brano di mondo ricreato. Proiettare un pensiero fatto di forme e luci nella loro esistenza fisica e farlo diventare oggetto in profondità, modello o scultura, significa determinare e controllare non più la tradizionale immagine-bozzetto ma l’intero sistema spettacolo nella sua esistenza come entità concreta calata in una propria dimensione spazio-temporale».

Ecco quindi che questo primo di una serie di incontri con i grandi maestri della Scenografia internazionale ed i relativi masterclass pomeridiani organizzati dall’Accademia di Brera e dalla rivista The Scenographer risulta essere l’auspicabile inizio di quel rapporto tanto desiderato e così poco spesso realizzato tra formazione e professione di cui si sente l’assoluta mancanza.

La rivista, fra le poche al mondo sull’argomento, il suo sito e il costituendo Centro Studi sulla Scenografia ci si augura possano ben presto rappresentare un semplice strumento, un mezzo flessibile ed aperto che avrà come obiettivo quello di accompagnare gli studenti, ma anche neo professionisti, alla scoperta dell’importanza di approfondimenti storici e critici, innanzitutto, ma anche di tutte le innovative teorie, tecniche e di chi le impiega, al continuo aggiornamento altrimenti impossibile, soprattutto per quanto riguarda anche quel mondo digitale e mediale che prepotentemente si è affacciato in alcuni settori a forte innovazione tecnologica quali il cinema e la televisione, ma, in maniera forse meno accentuata, anche il teatro.

Auspicando quindi un sempre maggiore coinvolgimento dei discenti nel mondo della produzione e della prassi dello spettacolo ecco almeno l’affacciarsi di quel mondo del “fare”, finalmente preziosissimo strumento indispensabile di quel “pensare” che altrimenti resterebbe, come purtroppo spesso accade, puro esercizio accademico.

12 Giugno 2010

Un maestro: pensieri di Luciano Damiani sul teatro e sulla scenografia

Filed under: Scenografia — admin @ 07:52

Scenografia: che cosa è il vero, la realtà, il reale e che cosa è il falso, la simulazione, il finto, l’evocato?

In teatro il falso trasmette il vero?!

Damiani: “ A volte è necessario si possa cogliere che tutto è finto ma, in altri casi, è altrettanto necessario che, nella somma degli elementi di uno spettacolo, si dia la sensazione di una realtà. Se voglio mettere in scena una putrella di ferro, cercherò di rendere quella putrella il più possibile credibile da un punto di vista teatrale; ciò significa che quell’oggetto non è la riproduzione dell’elemento reale, ma ha in sé quella teatralità, cioè quella “capacità” di comunicazione, quei dettagli che devono far giungere fino allo spettatore – collocato ad una certa distanza – quello che io desidero e che l’elemento reale non possiede, perché viene utilizzato per un altro fine.

…non avendo studiato scenografia All’accademia ho fatto una ricerca personale, che mi ha portato a scoprire determinate cose, soprattutto che progettare con i “raggi visuali” era sì un’enorme fatica, un enorme impegno, ma significava anche avere la certezza di ciò che progettavo in sede di bozzetto. E’ un esercizio che mi ha fatto acquisire un certo tipo di sicurezza: progettare invece di realizzare. In teatro si può realizzare tutto, ma il rapporto tra figura umana e oggetto esige una cura speciale, perché dev’essere parte di un’armonia precisa. Per fare ciò, è necessario conoscere il volume, il “peso” delle cose. Tutto il mio lavoro viene progettato a tavolino, e tutto, oggetto dopo oggetto, viene studiato nel suo rapporto con l’attore. Ciò significa calcolare: e bisogna dire che questo calcolare con i raggi visuali è cosa abbastanza rara; ma in tal modo, si mette un regista nelle condizioni di guardare al bozzetto come alla “fotografia” della realizzazione. Il rapporto uomo – oggetto è fondamentale, e serve ad evitare quel sovradimensionamento delle scene che, spesso, crea un elemento di disturbo. Perché non dovrebbe sfuggire che, all’interno di un testo musicale o poetico, ci sono delle proporzioni che non si possono ignorare, c’è un meccanismo scritto al quale non si può sfuggire: si può variare, reinventare, ma non stravolgere. L’opera è scritta in un certo modo, e in un certo modo deve essere rappresentata.

Credo che il desiderio di alcuni scenografi sia quello di esibire la propria capacità, la propria fantasia creativa, e cioè di non rimanere in una posizione subalterna – come io ritengo invece sia giusto – rispetto al testo ed alla musica. Costruire scene vuol dire mettersi al servizio di un testo, poetico o musicale. Se si vuole diventare protagonisti, si realizzano costruzioni enormi soltanto per il gusto del “meraviglioso”, di ciò che può stupire il pubblico: e un certo pubblico cade facilmente nel “tranello”, si lascia affascinare da questo meraviglioso”.

(Teatro 3? Rassegna trimestrale teatrale diretta da Bartolucci – Capriolo – Fadini. )

(Fratelli Cafieri Editori 1968)

Parigi 27 Aprile 1968. Peter Brook, direttore della Royal Shakespeare Company dichiara: “C’è una cosa che mi ha sempre stupito: nulla al mondo evolve con tanta lentezza quanto il teatro”. ”Il problema meno risolto a teatro è quello del luogo, vale a dire il contatto tra attore e pubblico. Ma mancano a tutt’oggi gli edifici teatrali che a questo problema offrano una soluzione concreta e immediatamente attuabile e concedano al regista la massima libertà di mezzi per la creazione dello spazio necessario ad ogni suo spettacolo, che può anche essere il quadro scenico tradizionale ma deve poter essere tante altre cose”.

Teatro tradizionale: due spazi separati; una scatola (il palcoscenico) chiusa tre lati su quattro, bloccata anche sull’unico lato aperto e facendo sì, quindi, che la quarta parete non sia sempre e soltanto illusoria; l’altro (per il pubblico) un luogo di ricevimento, d’incontro, di meditazione, di ascolto, di visione e, di svago ?

Unico intermediario fra i due luoghi: i sensi quindi. Lo stesso rapporto per Eschilo, Feydeau, Shakespeare, Brecht, Verdi, l’Opera di Pechino, la Comédie – Française, il Berliner Ensemble, Rossini, il Living Theatre.

Damiani progetta gli impianti tecnici e di scena del Teatro Nuovo di Trieste progettato dagli architetti Umberto Nordio e Aldo Cervi, un edificio destinato ad accogliere, col teatro, il Consiglio Regionale, congressi ed altro.

Damiani progetta gli impianti scenotecnici in un ambiente già impostato architettonicamente con criteri tradizionali: pianta a campana, palcoscenico con boccascena, e sala con galleria. Questi elementi – tranne la galleria che ritiene incompatibile con qualsiasi discorso di teatro contemporaneo – gli hanno fornito una sorta di stimolo, invitandolo a giocargli contro.

Ne è uscito un teatro anche tradizionale, ma che contiene una serie di accorgimenti (presenza dei tiri in sala, platea e palcoscenico alzabili e abbassabili a diversi livelli, soppressione del muro che impedisce il collegamento diretto tra attori e spettatori) che possono offrire al regista l’occasione di compiere tutta una serie di esperienze stimolanti. Damiani offre soprattutto uno spazio plasmabile dalla fantasia del regista secondo le esigenze dei singoli spettacoli compreso quello tradizionale.

A questo risultato egli arriva attraverso una serie di esperienze teatrali che hanno maturato in lui una ribellione contro il palcoscenico chiuso, inscatolato, un desiderio di varcarne i limiti, di farlo esplodere e di mettere in discussione tutto un modo “pigro” di fare teatro. Nelle sue scenografie tenta costantemente di “evocare degli spazi, dei fatti poetici, dei suggerimenti contenuti in cose che non si percepiscono nella loro totalità”. Non un ambiente da decorare ma uno spazio da organizzare.

Lasciando in vita anche la struttura tradizionale, ma proponendo questa nuova organizzazione degli spazi, vengono offerte all’uomo di teatro possibilità di comparazione, di esperimento, di controllo e di esprimere in piena libertà le proprie idee. Offre, in altre parole, non soluzioni prestabilite, ma uno strumento di lavoro.

E’ evidente che il passaggio da un riquadro da ammobiliare a uno spazio da organizzare pone grossi problemi, in parte risolvibili solo sperimentalmente attraverso una serie di tentativi. C’è un problema fonetico che può essere affrontato anche senza ricorrere a mezzi meccanici di amplificazione; c’è un problema di illuminazione, imposto dalla necessità di avvolgere in un tutto unico sia il pubblico sia il palcoscenico; c’è la possibilità di riportare il piano di palcoscenico al livello della platea tornando così alla forma del “teatro di sala”, e di disporre il pubblico secondo le norme consuete della visibilità ma anche di proporre soluzioni diverse, invitandolo per esempio non a guardare avanti ma a volgersi in altre direzioni potendo disporre le poltrone in gruppi asimmetrici.

«Chi lavora in un grande Teatro d’opera oggi, agisce in uno spazio e con una “macchina” concepita più di duecentocinquant’anni fa. Il regista e lo scenografo, con le loro messinscene, creano varianti al vecchio tema e tentano di forzare la macchina teatrale che, con il passare del tempo, è diventati sempre più chiusa e, quanto più si è arricchita di mezzi, tanto minor spazio è rimasto alla fantasia e alla libertà creativa.

Per la messa in scena oagi occorre che lo strumento teatro sia flessibile e la tecnica moderna deve portare innovazioni che contri­buiscano nel modo più ampio possibile alla libertà delle scelte.

Il palcoscenico rialzato, il prospetto scenico, il sipario, la fossa del­l’orchestra e la sala sono gli elementi che costituiscono lo schema del Teatro d’opera. In un Teatro ove la componente dominante è la musica, la fossa d’orchestra (con tutti i suoi annessi) è elemento es­senziale, e con essa tutto quando riguarda l’acustica. E’ quindi alla fossa d’orchestra che va la prima attenzione, sia nelle varianti picco­la o grande (orchestra verdiana, mozartiana ecc.), sia in rapporto al­l’avanscena, nel caso si voglia portare lo spettacolo verso la platea, per un contatto ravvicinato cantanti – orchestra (occorre allora pro­lungare l’avanscena coprendo a mensola parte dell’orchestra). Tale soluzione in genere crea problemi in orchestra e in palcoscenico dif­ficoltà per il sipario di ferro antincendio; spesso le difficoltà aumen­tano per la mancanza di tiri in avanscena.

Seconda per importanza è la visibilità dalla sala e altrettanto im­portante è la visibilità (non cosi facile da ottenere come parrebbe) dei cantanti e delle masse corali per il direttore d’orchestra, e vice­versa. Il regista e lo scenografo hanno un punto ideale, in platea, da dove osservano e controllano lo spettacolo. Questo punto si trova generalmente in mezzo alla platea, a una distanza dal quadro scenico pari alla larghezza del boccascena. Raramente regista e scenografo si preoccupano di cosa può vedere lo spettatore posto in alto sul fondo dietro di loro, o lungo le pareti laterali. La ragione è che non esistono mezzi per poter intervenire a migliorare la visibilità, se non quello di ridurre tutto lo spettacolo nei pochi metri dell’avanscena. Bisogna tenere conto del fatto che il quadro scenico consente la vi­sibilità solo frontale, e a un’altezza superiore di poco all’altezza mas­sima del boccascena. Il Teatro alla tedesca, dove in sala è avvenuta l’abolizione dei palchi, ha in genere una buona visibilità; nel Teatro tradizionale all’italiana, dotato di palchi, la visibilità per un buon terzo è ridottissima, cioè nei posti laterali e nei loggioni.

La visibilità dal palcoscenico al direttore d’orchestra interessa tutti gli artisti, il coro in particolare. Il piano di palcoscenico inclinato del Teatro all’italiana, contrariamente a quello tedesco che è orizzonta­le, offre un po’ di visibilità in più; i mezzi tecnici a disposizione e i diversi declivi realizzabili con i ponti mobili del palcoscenico aiuta­no a risolvere, almeno in parte, questo problema, presente in tutti gli spettacoli con il coro.

Il piano di palcoscenico, con i mezzi tecnici di cui è dotato, è un altro componente essenziale per la realizzazione della messa in sce­na. Il profilo longitudinale del palcoscenico all’italiana ha una pen­denza dal 3 al 5 %. Contribuisce a una migliore visibilità e caratteriz­za il palcoscenico “prospettico” del nostro Teatro. Quello del Teatro tedesco è orizzontale per ragioni di praticità (manovrabilità dei carri e delle costruzioni scenografiche) e, unito al girevole e alle piatta­forme mobili, è uno degli elementi che caratterizzano il palcoscenico considerato “moderno”.

Fra le innovazioni moderne, è da ritenere ancora valido il palco­scenico con i ponti mobili, sezionabili, con il piano a inclinazioni re­golabili, pannelli periscopici, portarive, possibilità di botole centrali e sottopalco praticabile. Molto meno utili, poiché con il loro ingom­bro creano problemi, sono gli impianti fissi con le piattaforme mo­bili e il girevole, tra l’altro oggi facilmente realizzabili secondo le esigenze dei singoli spettacoli.

Spesso costituisce un problema per la messinscena, in particolare nei Teatri italiani, la mancanza di spazio ai due lati e dietro il palco­scenico. Occorrono spazi liberi e simmetrici che permettano i movi­menti di scena. Il Teatro alla Scala è in questo senso un esempio classico di difficoltà e per risolvere – provvisoriamente e parzialmen­te – il problema ho dovuto trasformare in diverse occasioni il palco­scenico e la sala della Piccola Scala, nonché parte del portico di via Filodrammatici, opportunamente chiuso, in un deposito di scene.

Altro elemento della macchina teatrale di fondamentale importan­za è la soffitta e forse oggi, con la totale meccanizzazione dei tiri con stangoni fissi, è il più condizionante. I tiri meccanizzati hanno certa­mente contribuito ad alleggerire e rendere più agevoli i cambiamenti di scena, ma hanno ridotto le risorse della soffitta. I tiri a stangone fisso riducono l’altezza della soffitta e limitano l’utilizzazione solo parallelamente al prospetto scenico. Inoltre gli impianti elettrici in­gombranti che hanno invaso la soffìtta limitano e a volte negano lo spazio e l’uso dei tiri lungo l’asse del Teatro o secondo linee oblique; l’utilizzazione è possibile solo lateralmente, oltre le attrezzature elet­triche. La soffitta crea problemi alla messa in scena, se la sua altezza non misura almeno tre volte quella del quadro scenico; deve avere tiri a mano liberi e contrappesati, oltre ai tiri meccanici con regola­zioni per la velocità; inoltre occorre avere la possibilità di regolare la lunghezza degli stangoni.

Gli impianti per l’illuminazione, le attrezzature e i dispositivi elet­trici creano difficoltà se ingombranti e inamovibili. Oggi in molti Teatri si stanno sostituendo le vecchie apparecchiature con altre nuove, più potenti e poco ingombranti, che possono ridurre sensibil­mente le difficoltà.

Altri problemi riguardano la messa in scena, e sono l’efficienza e la qualità dei laboratori di realizzazione delle scene e dei costumi, l’organizzazione della sala prove e le prove in palcoscenico con tutti i servizi annessi. Ma penso che i problemi strettamente legati all’ar­chitettura e alla macchina teatrale abbiano un interesse preminente.

Costruire un Teatro d’opera oggi significa utilizzare ancora il vec­chio schema del Teatro tradizionale, sia perché è il più diffuso in Europa., sia perché ad esso è connaturata gran parte del repertorio classico e contemporaneo. Gli spettacoli e le messinscene che esigono il riquadro del prospetto scenico giustificano ampiamente l’utilizza­zione di questo schema. Tuttavia non si possono ignorare le espe­rienze maturate in senso al Teatro d’opera negli ultimi anni. Espe­rienze che hanno certo confermato la validità del vecchio schema: ma si devono considerare anche i problemi e le difficoltà che si sono venuti a creare col tramonto di certe mode e con l’affermarsi dell’in­novazione.

Le nuove richieste registiche e scenografiche tengono conto delle esperienze del Teatro tradizionale e di quanto si è ritenuto valido nelle moderne innovazioni tecniche del recente passato, ma consi­derano lo spazio scenico tradizionale non solo come un luogo da arredare, ma come un volume da organizzare. Perciò occorre che lo strumento Teatro diventi flessibile, che la meccanizzazione tenga conto delle esigenze attuali e lasci al regista e allo scenografo maggior libertà nello svolgimento e nella realizzazione delle loro intenzioni artistiche. [… ]»

I pensieri espressi in quella conferenza provengono da una riflessione maturata dagli anni Sessanta, verso il termine dei quali si colloca il pro­getto di Luciano Damiani e Umberto Nordio per il Teatro Nuovo di Trieste.

Presentando quel loro progetto, gli autori analizzano le due forme del teatro «all’italiana» e del teatro «alla tedesca» (ispirato alla concezione di sito teatrale elaborata da Wagner), le fattispecie contemporanee anche dal punto di vista dell’attrezzatura dello spazio scenico. Esprimono la loro concezione di un «teatro flessibile».

Analisi storico – critica del teatro all’italiana secondo Damiani.

Dal Tardo ‘600 la forma più diffusa in Europa è il “teatro all’italiana”, dove il diaframma boccascena – sipario divide il pubblico dallo spettacolo e la scena non si fonde con lo spettatore come nel teatro classico o in quello medioevale, elisabettiano, o giapponese: lo spettatore assiste, non partecipa.

Di esso ci interessano soprattutto le crisi evolutive: il rapporto palcoscenico – platea, e con esso il rapporto attore – spettatore; nonché i vari aspetti modificatori sociali, artistici, estetici e politici.

Lo schema architettonico di questo teatro tradizionale comprende: palcoscenico rialzato, prospetto scenico, boccascena – sipario e sala con palchi per “privilegiati”.

Le prime critiche mosse al teatro tradizionale s’accentrano proprio sul criterio di distribuzione dei posti, l’architettura della sala, l’arredamento e la luce, come elementi che condizionano il pubblico ad un clima mondano, lo distraggono e ne riducono la partecipazione “attiva, intellettuale” allo spettacolo.

Nel 1876 scoppia la prima crisi: le idee unitarie di Richard Wagner esigono che il pubblico partecipi allo spettacolo e che il luogo scenico sia a diretto contatto con lo spettatore. Gli architetti Semper e Brükwald realizzano il teatro di Bayreuth.

Viene modificata la struttura architettonica della sala secondo criteri sociali, ideologici ed estetici. Si tolgono i palchi, l’orchestra viene sottratta alla vista dello spettatore il palcoscenico viene portato a mensola sopra il “golfo mistico”, a contatto diretto con il pubblico; le quinte (che appartenevano al palcoscenico) sono spostate in sala come elementi architettonici delle pareti laterali e del proscenio, nell’intento di creare un’unitarietà ideale tra sala e luogo scenico.

Tutto ciò risulta con chiarezza se nella pianta del teatro, seguendo la linea prospettica delle quinte di sala, tracciamo la loro continua­zione sul palcoscenico: ne risulterà che la platea si inserisce nello schema della scena prospettica producendo (almeno graficamente) una fusione tra palcoscenico e sala. Se poi tracciamo nella sezione longitudinale la continuazione delle quinte sul palcoscenico, ci ac­corgeremo che la natura stessa del palcoscenico rialzato determina una frattura e non permette di completare l’operazione della fusione sala – palcoscenico, ma lascia ancora insoluto (almeno in parte) il pro­blema.

L’operazione è comunque interessante: la sala ha subito una notevole ­trasformazione architettonica, che non tarderà a dare frutti. Inoltre il fatto di lasciare al buio la sala durante lo spettacolo crea un’atmo­sfera mistica ed austera nella quale il pubblico si immedesima e partecipa. A questo risultato danno un notevole contributo la scoperta e la successiva utilizzazione della luce elettrica e i nuovi cri­teri costruttivi architettonici.

La crisi aperta da Wagner nel teatro tradizionale dà origine ad un nuovo tipo di teatro, detto « alla tedesca ».

Sulla base delle nuove esperienze vengono costruiti numerosi Tea­tri, tra i più importanti il Prinsregententheater di Monaco di Bavie­ra, il Teatro Municipale di Elberfe’d, il Covent Garden di Londra, l’Opera House di Chicago, ecc.

Una ventata di rinnovamento tocca anche i teatri italiani: vengono portate modifiche alle sale. viene scavata la fossa dell’orchestra, si fa buio in sala durante lo spettacolo, mentre si modernizzano gli impianti tecnici di palcoscenico con l’uso dell’elettricità sia come forza motrice sia come energia illuminante.

Gli elementi che compongono lo schema architettoníco del teatro « alla tedesca » sono: palcoscenico rialzato, prospetto scenico – boccascena – sipario e sala democratizzata con l’abolizione dei palchi.

Le idee di Wagner vengono sviluppate nell’epoca contemporanea. Walter Gropius, Salomonson, Norman Bel Geddes, ecc. cercano di eliminare il diaframma tra sala e palcoscenico, di rompere l’uni­tarietà della scena tradizionale e di passare alla pluralità dei tipi di rappresentazione.

Dal 1925 al 1938 vengono fatti numerosi progetti in questo senso; ma purtroppo poco è stato realizzato e i risultati pratici non sono stati tali da far ritenere collaudato un nuovo schema atto a sostituire il vecchio.

Pertanto i teatri costruiti dopo la seconda guerra mondiale hanno conservato gli schemi tradizionali, tranne poche eccezioni, teatri «in pista » e certi teatri sperimentali dove sono state create strut­ture movibili di sala e palcoscenico ispirate al « Total Theater » di Gropius (pluralità dei tipi di rappresentazione).

In generale le strutture dei teatri moderni tendono, con soluzioni di compromesso, alla coesistenza tra spettacoli diversi nello stesso luogo scenico, ignorando il problema del diaframma prospetto scenico – palcoscenico rialzato.

Proprio per questa aspirazione alla coesistenza, si sviluppano le strutture tecniche e, per consentire le varie realizzazioni artistiche, diventano sempre più complessi e più meccanizzati i mezzi tecnici di palcoscenico. Si sviluppano anche gli impianti elettrici e i dispositivi fissi, o in parte fissi o mobili, invadono il palcoscenico, mentre la soffitta è resa in parte inutilizzabile. (Per ragioni illuminotecniche espressionistiche in gran parte dei teatri tedeschi le pareti del palcoscenico vengono tinteggiate di nero.

Il teatro della nostra epoca è caratterizzato, soprattutto fuori d’Italia, dalla presenza di enormi mezzi tecnici che da una parte hanno contribuito ad alleggerire e rendere più agevoli i cambiamenti di scena, dall’altra hanno reso rigido lo schema tecnico del palcoscenico. Esempio: le soffitte dei teatri supermeccanizzati (con attrezzature elettriche tipo bilancione di panorama, bilance, passerelle volanti, ecc., poste generalmente ad un metro e mezzo o due metri l’una dall’altra) riducono notevolmente lo spazio a disposizione dei tiri e anche l’altezza della soffitta stessa, utilizzabile nella sua totalità solo parallelamente al prospetto scenico, mentre è estremamente limitata lungo l’asse del teatro o secondo linee oblique…

E’ possibile utilizzarle solo lateralmente, oltre le attrezzature elettriche!

I tiri meccanizzati con stangoni fissi riducono ulteriormente le già scarse risorse della soffitta e condizionano sempre di più la libera realizzazione degli spettacoli.

Nei teatri italiani, meno macchinosi, si riconosce (in particolare negli impianti tecnici di soffitta) una maggiore flessibilità, dovuta anche al minor numero (alla scarsità) degli impianti illuminotecnici (tranne in alcuni grandi teatri) e al loro minore ingombro. Le pareti del palcoscenico non subiscono il trattamento dei teatri tedeschi (tinteggiature di nero) ma ci si limita a chiudere o schermare le poche finestre e a usare la luce elettrica.

I due tipi di teatro tradizionale, all’italiana e alla tedesca, con lo schema base palcoscenico rialzato – prospetto scenico si possono definire “teatri a struttura unitaria” o meglio “teatri a struttura chiusa”, siano essi per la lirica, per la prosa o per spettacoli d’altro genere.

I teatri di prosa, il cui schema deriva da quello dei teatri per spet­tacoli lirici, hanno dimensioni inferiori, sia per la presenza di complessi (attori, dirigenti, tecnici) meno numerosi, sia perché i palcoscenici dispongono di mezzi tecnici più limitati. La sala di un teatro di prosa deve essere contenuta entro limiti difficilmente superabili, determinati dalla fisicità dell’attore: la sua voce e le sue espressioni devono essere chiaramente percepibili in ogni punto della sala.

La ragione maggiore della frattura del prospetto scenico nelle strutture architettoniche del teatro tradizionale è nel fatto che il palcoscenico è separato dalla sala da un muro che prende tutta l’ampiezza nella parte bassa del boccascena e la cui altezza è limitata

dal piano dello stesso palcoscenico.

Questo muro si trova in tutti i teatri di tipo tradizionale, e nell’epoca moderna, dopo una lunga storia di teatri andati a fuoco, è conside­rato, insieme con il sipario di ferro, uno degli elementi indispensabili alla sicurezza del teatro. (La presenza e la funzione di questo muro, si nota soprattutto nei teatri di recente costruzione, specialmente in quelli dove il proscenio mobile si abbassa per lasciare posto alla fossa dell’orchestra e contemporaneamente i piani mobili del palcoscenico scendono in sottopalco e lasciano chiaramente vedere questo e elemento, che qualche volta, in rapporto alla mobilità che lo circonda, appare in tutta la sua assurdità.)

Questo muro è alla base del diaframma che separa la sala dal luogo scenico ed è parte del prospetto; su di esso appoggiano il sipario di sicurezza e il piano di palcoscenico.

L’altezza del palcoscenico condiziona l’altezza del sud­detto « muro », ma anche i profili longitudinali del pavimento della sala e dello stesso palcoscenico, legati tra loro dalla regola di visibilità.

Il profilo longitudinale del palcoscenico tradizionale « all’italiana » ha una pendenza dal tre al cinque per cento ed è uno degli elementi che contribuiscono a ottenere una buona visibilità. I piani inclinati, o declivi, caratterizzano oggi il palcoscenico prospettico del teatro « all’italiana » mentre il profilo longitudinale del palcoscenico tradizionale « alla tedesca » è in piano ( per ragioni di praticità, manovrabilità dei carri delle costruzioni scenografiche ecc.) ed è uno degli elementi che caratterizzano il palcoscenico moderno.

Il profilo longitudinale del palcoscenico, prospettico o moderno, determina insieme con l’altezza del proscenio, il profilo longitudinale della platea e viceversa. Più il piano di palcoscenico è basso rispetto al pavimento della platea, tanto più aumenterà l’inclinazione di quest’ultimo.

In questi ultimi anni, il teatro italiano ha teso (alla ricerca di una diversa partecipazione del pubblico allo spettacolo) a eliminare la frattura fra sala e scena, ecc. La scenografia cerca di rompere la difesa del prospetto scenico, di aggredire l’architettura e di por­tare l’azione in seno al pubblico per ottenere una partecipazione in­tellettuale attiva; per esempio, il boccascena diventa parte integrante della scenografia, oppure la scenografia tende a scavalcarlo, a passare sul proscenio e a scendere sul piano di platea, o a includere in parte o totalmente la sala… Rimane sempre esclusa da questi tentativi di “rottura” la scena sopraelevata; anche quando si tenta di ridurre l’ostacolo del palcoscenico rialzato con ele­menti scenici praticabili, la struttura architettonica non permette nessuna modifica sostanziale. La scena sopraelevata rimane uno dei problemi del teatro contemporaneo.

Si sente la necessità, non tanto di riprendere la polemica novecen­tista sul rapporto tra pubblico e azione nel concetto del « totale », ma di una « operazione » sullo schema del teatro tradizionale, che permetta una verifica del rapporto platea – palcoscenico e attore – spettatore, con la possibilità di una libera scelta.

Costruire un teatro oggi significa utilizzare ancora il vecchio schema, sia perché è il più diffuso in Italia ed in Europa, sia perché ad esso è connaturata grande parte del patrimonio classico e contem­poraneo italiano ed europeo. Esso è inoltre giustificato dalla na­tura degli spettacoli e delle messinscene che esigono il riquadro del prospetto scenico. Tuttavia, se non si possono ignorare le esperienze teatrali avvenute (in seno al teatro tradizionale) negli ultimi anni, esperienze che hanno qualche volta confermato la validità del vecchio schema (come nel caso della proposta brech­tiana – sala, del “Berliner Ensemble” a schema tradizionale e spettacolo epico – esempio di unificazione dialettica), ma si devono considerare anche le proposte di rottura, di insofferenza per la scena sopraelevata, per il boccascena ed il sipario.

Con la Royal Shakespeare Company – ha spiegato Brook – abbiamo fatto delle prove di gesti, di voci, un po’ come il Living Theatre. Ne ho dedotto che il problema meno risolto a teatro è quello del luogo, vale a dire il contatto tra attori e pubblico.

TEATRO DI TRIESTE

CRITERI ARTISTICI E TECNICI

Per la progettazione degli impianti tecnici di palcoscenico e sala si è consapevolmente rinunciato alla formula applicata ‘negli ultimi anni nei nuovi teatri: rapporto medio tra capienza, visibilità e ascolto per tutti i tipi di spettacolo.

In considerazione delle diverse e “attuali” esigenze del teatro di prosa sono previsti, partendo da criteri artistici e tecnici, alcuni elementi modificatori della sala e del palcoscenico.

CRITERI ARTISTICI

I criteri artistici tendono a valorizzare il meglio del teatro classico italiano e del teatro espressionista europeo e tengono conto delle crisi evolutive del teatro contemporaneo, delle proposte e delle verifiche e avvenute in Italia ed in Europa negli ultimi venti anni.

Propongono:

Di utilizzare la sala nelle sue dimensioni totali, con impianti predisposti per l’amplificazione audiovisiva , e nel contempo ridurre la capienza della sala entro i limiti dettati dalla misura fisica dell’attore (chiaro ascolto e visibilità perfetta in ogni punto della platea).

Di considerare la platea il solo elemento nello schema del teatro tradizionale, significativo nel rapporto sala – palcoscenico in tutti i suoi aspetti, artistici, estetici tecnici e sociali.

Di abolire la scena sopraelevata (in quanto elemento inamovibile) nonché gli elementi tradizionali del boccascena, il sipario come parte integrante dell’arredamento della sala e con esso panni d’Arlecchino, mantovane, cornici, ecc.

Di predisporre strumenti che permettano una libera scelta tra i diversi tipi di sipario, in sede di realizzazione drammatica; come pure la libera scelta del profilo longitudinale del piano di palcoscenico nelle versioni « prospettica italiana » e « palcoscenico moderno », la disponibilità di altezze diverse tra il piano di palcoscenico ed il piano di platea e l’unificazione dei due piani in un unico elemento.

Di risolvere di conseguenza il problema della visibilità (entro i nuovi rapporti di altezza tra platea e palcoscenico) considerato non solo nel suo aspetto tecnico, ma anche in quello artistico ed estetico.

Di utilizzare elementi tecnici del palcoscenico in sala. Di «prolungarne» la «estensione» o «estenderne» in sala una parte: quelli che per la loro funzione e la loro storia nel teatro, nonché per le loro caratteristiche estetiche, contribuiscono al tentativo di eliminare la frattura del prospetto scenico e di portare lo spettacolo in seno al pubblico.

Di sostituire le luci in sala – lampadari, appliques, luci fluorescenti al neon, a vista ecc. – con impianti che evochino le luci tradizionali del palcoscenico: luci della «bilancia», della «ribalta», lampade colorate e no (regolabili nell’intensità luminosa e nella posizione).

Di fare del palcoscenico un luogo che, per 1’equilibrio delle sue dimensioni in contrapposizione alle misure dell’uomo, le pareti chiare, la distribuzione e composizione degli strumenti, i colori vivaci degli impianti tecnici, le strutture di acciaio, i legni, oltre che essere uno «strumento moderno», possa, anche privo di elementi scenografici, lasciare, come sola protagonista, l’azione drammatica.

Di sostituire, nella misura più ampia consentita, le strutture unitarie degli impianti, illuminotecnici, sonori, televisivi ecc., con impianti – strumenti di spettacolo a struttura flessibile e rinnovabili nelle varie fasi dei loro reciproci rapporti.

Unico diaframma tra sala e palcoscenico, il sipario di sicurezza, il quale non deve avere 1’aspetto terribile e contrastante che assume in un teatro tradizionale, ma deve essere parte integrante di un unico strumento armonico, con una veste che dichiari la sua funzione (non dipinto o decorato), per esempio: metallo lucido come uno specchio (in cui la sala si potrebbe riflettere). Propongono quindi per la sala un ambiente «piacevole» e «raccolto» (per incontri culturali) «stimolante» e «variabile» e non mondano né austero.

Infine i criteri artistici tendono, entro lo schema del teatro tradi zionale, a una verifica del rapporto sala – palcoscenico, attore – spettatore, che sia la più ampia possibile per la libertà delle scelte.

CRITERI TECNICI

I criteri tecnici tengono conto delle esperienze del teatro tradizionale e di quanto si è ritenuto valido nelle moderne innovazioni del teatro europeo.

Tendono a una coesistenza delle due esperienze e propongono strutture scenotecniche, impianti di palcoscenico e sala, che per la loro natura, per la nuova collocazione di una parte di esse e per la loro particolare variabilità, consentano la realizzazione di uno strumento di teatro flessibile, che permetta di passare dal teatro tradizionale a “struttura chiusa” a un teatro tradizionale a “struttura aperta”.

Propongono:

La riduzione della sala mediante una parete mobile (di materiale idoneo all’acustica) in un rapporto 7-11 tra ampiezza – boccascena e profondità sala.

La riduzione dell’apertura del prospetto scenico (con elementi variabili e asportabili) dal rapporto 7-5 a un rapporto 5-3 (la riduzione massima consentita dalla visibilità «in sede tradizionale»).

Un palcoscenico in piano, inclinabile, con la possibilità dell’utilizzazione di tre declivi, 4 %, 7%, 11 %., alzabili e abbassabili a quote diverse rispetto al piano di platea, in un rapporto di 1000.

12

L’abolizione del muro che separa il palcoscenico dalla sala (presente in tutti i teatri tradizionali nella parte bassa del prospetto) e la sua sostituzione con una parte del sipario di sicurezza costituito di due elementi.

Il sipario di sicurezza, in un rapporto totale tra base e altezza di 9 a 10, dove la parte superiore e in un rapporto 9-6 e 1’inferiore 9-4.

L’eliminazione del palcoscenico rialzato con l’abbassamento del sipario di sicurezza inferiore, in quanto parte integrante del piano di palcoscenico mobile al livello del piano di platea.

Una platea mobile, con la parte posteriore alzabile e la parte anteriore ferma, in un rapporto tra profondità sala e innalzamento di 11 a 3, allo scopo di ottenere, correggendo 1’inclinazione della platea, piena «visibilità» rispetto alle diverse quote di palcoscenico, sia esso in piano o con i vari declivi, senza o con proscenio.

L’apertura del prospetto scenico non più in un rapporto tra base e altezza di 7 a 5 (come nella soluzione tradizionale) ma di 7 a 7, con la parte in più, in un rapporto di 7 a 2, appartenente al sottopalco.

La sostituzione di tutte le costruzioni tradizionali a gabbia dei ponti mobili del palcoscenico a due piani, con strutture nuove, che consentano l’utilizzazione dello spazio (tra i due piani) per l’azione scenica e l’allestimento scenotecnico.

La disposizione simmetrica di tutti gli elementi che sostengono il piano di palcoscenico tenendo presente la necessità dello spazio libero nella parte centrale (esempio: una botola non sarà a sinistra o a destra della linea mediana del palcoscenico, ma al centro, a differenza dei montanti di sostegno dei ponti ecc.)

Tiri in soffitta in tre versioni; alternando tiri semplici a mano e tiri contrappesati a mano, inframmezzati ogni due metri da un tiro a motore elettrico. Inoltre la continuazione dei tiri semplici e a stangone nel retropalco, in avanscena e nel soffitto

della sala, suddivisi come sopra, e 1’utilizzazione di una parte di essi per l’illuminazione della sala.

Gli elementi che compongono il palcoscenico nei seguenti rapporti: piano di palcoscenico, tra ampiezza e profondità, di 23 a 11; parte mobile ponti e sipario di ferro, di 16 a 11; fossa dell’orchestra di 11 a 3; retropalco e prolungamento della scena di 21 a 8; ampiezza del palcoscenico utile e del boccascena di 23 a 9 e altezza della soffitta e del boccascena di 20 a 6.

Al fine di ottenere una struttura di teatro tradizionale a sistema unitario e insieme un teatro flessibile, che lasci maggiore libertà al regista e allo scenografo nello svolgimento e nella realizzazione delle loro intenzioni artistiche, propongono e ritengono assolutamente indispensabili: la suddivisione del palcoscenico in elementi indipendenti l’uno dall’altro, il suo abbassamento e la sua altezza rispetto al piano di platea, i piani inclinabili per i diversi declivi, il sipario di sicurezza in due elementi, il piano dell’orchestra mobile che diventa proscenio, i tiri per la quasi totalità in sala e la

distribuzione e meccanizzazione degli impianti tecnici nella mi sura assolutamente necessaria a garantire uno svolgimento rapido e sicuro dello spettacolo.

I criteri tecnici tengono conto, per l’attività e la funzionalità di tutti gli impianti di palcoscenico, dell’attuale situazione del teatro italiano, sia dei «Teatro Stabili» sia delle « Compagnie di giro », del personale tecnico a disposizione e dei compiti ad esso affidati; in particolare, per il funzionamento delle strutture meccaniche del palcoscenico, tengono conto della necessità di contenere il numero del personale nei limiti delle passate stagioni teatrali.

IMPIANTI ILLUMINOTECNICI DI SCENA

Gli impianti per 1’illuminazione sono costituiti da attrezzature e dispositivi, predisposti secondo criteri che tengono conto delle esperienze del teatro italiano ed europeo.

Dopo la comparsa della luce elettrica sul palcoscenico, trascorsa una prima fase in cui illuminare significava soltanto imitare il giorno, la notte, 1’alba, il tramonto, ecc., si è avuta una serie di esperienze, collegate alle varie evoluzioni della drammaturgia.

Abbandonate le scene dipinte, l’illuminazione, che era solo un mezzo per evidenziare la pittura e il colore, passa a dare vita, volume e plasticità alle nuove scenografie (Appia), e il risultato determinato dall’ombra propria e dall’ombra portata del corpo dell’attore o di un volume scenografico comincia ad essere considerato elemento determinante per ottenere una particolare «espressività». La scena viene illuminata da una luce diffusa, regolata con filtri di vario tipo per permettere l’esaltazione, con ombre e luci, volume e plasticità, degli elementi di maggiore interesse dello spettacolo.

Nella scena post – naturalistica (Gordon Craig) le luci attenuando i contrasti, fondono attore e scena, o meglio costume e scena, e aiutano a formare uno spazio infinito.

I nuovi mezzi tecnici a disposizione (bilance, ribalta) e l’illuminazione dell’avanscena aumentano la possibilità di attuare l’illusione dello spazio infinito e danno anche inizio alla conquista dell’avanscena stesso.

Lo spettacolo è portato .in avanti, e non più in profondità, mentre l’utilizzazione dell’avanscena porta alla regolazione della ribalta.

Vengono collocati dei proiettori in fondo alla sala allo scopo di ottenere (Reinhardt) «ancora» una luce diffusa in scena e di intervenire, con fasci di luce laterali in palcoscenico, a illuminare gli attori staccandoli dall’ambiente nel quale sono immersi.

L’illuminazione viene utilizzata per mettere in evidenza i valori plastici scenografici e i materiali (Erwin Piscator); ha inizio l’impiego su vasta scala delle proiezioni, fisse e in movimento, su schermi trasparenti ecc.

I corpi illuminati diventano, nella scena nuda (Mejerchol’d) elementi uguali alle costruzioni scenografiche a vista: «demistificazione».

Poi l’illuminazione a luce pittorica (impressionistica, Kvapil) morbida, colorata, alla quale fa riscontro una violenta illuminazione, molto colorata, che segue l’azione con rapidi interventi espressionistici (Hilar).

Illuminazione a luce diffusa, sia per l’attore che recita sia per il pubblico. Fonti di luce visibili per togliere al pubblico «una grande parte dell’illusione di assistere ad azioni naturali e non create per l’azione teatrale» (Brecht).

Illuminazione a luce – atmosfera oggettiva, con il tentativo di cancellare, sia sugli elementi di scena sia sull’attore, ombre proprie ed ombre portate, al fine di ottenere un’illuminazione bidimensionale senza la percezione delle fonti.

SOLUZIONI PARTICOLARI

Il palcoscenico e a base rettangolare, prende tutta la superficie del contenitore in cemento armato e la sua parte centrale mobile è poco più larga dell’apertura del prospetto scenico; è suddiviso in quattro ponti con due piani in legno di cui uno appartiene al piano del sottopalco e l’altro al pavimento del palcoscenico. I movimenti

dei ponti sono di tipo meccanico, con motori elettrici con contrappesi.

La distanza verticale tra i due piani, prevista per l’utilizzazione in sede di azione scenica, è determinata dai montanti situati nella parte posteriore dei ponti che collegano la costruzione di base con il piano superiore e creano uno spazio utile pressappoco uguale alla totalità della superficie dei ponti. Il movimento di abbassamento è tale che i piani superiori scendono in sottopalco a livello del primo ballatoio e l’alzamento è tale che i piani inferiori si trovano a livello del pavimento di palcoscenico fisso.

I primi tre ponti hanno il piano superiore inclinabile con movimenti meccanici, eseguiti a mano nel sottopalco mobile. I piani si alzano nella parte posteriore, azionando i dispositivi meccanici a gradazioni diverse e, insieme con l’alzamento dei ponti, creano un unico piano inclinato (declivio) largo quando il palcoscenico mobile e profondo quanto i tre ponti; hanno tre diverse pendenze del 3,6%, 7 %, 11 %.

I quattro ponti sono utilizzabili anche per concerti, ponendo a livelli diversi i singoli piani per l’orchestra, i cori ecc., e sono utili negli spettacoli di prosa per gli abbassamenti ed alzamenti vari, i tipi di piani inclinati (declivi) e l’utilizzazione del sottopalco mobile. Inoltre il piano in legno dei primi tre ponti, composto di elementi asportabili, permette l’apertura di botole dalla misura 1 x 1 in 9 gruppi di tre elementi, per un totale di 27 botole, nove delle quali poste sull’asse del teatro, e la loro utilizzazione per apparizioni e sparizioni di elementi scenografici.

I movimenti dei ponti, eseguiti meccanicamente con argani elettrici e contrappesi, sono previsti a corsa regolare, silenziosi, a velocità diverse e con la possibilità di bloccaggio (senza la percezione visiva dell’operazione) e la suddivisione della corsa in moduli che permettano sia l’inclinazione del piano totale del palcoscenico mobile nei vari declivi, sia la formazione dei vari piani alle altezze normali dei praticabili in uso nei palcoscenici italiani e stranieri.

I tiri a stangone della soffitta in sala sono appesi a cinque cavi di acciaio ed azionati da argani a mano con fermo di sicurezza.

Gli stangoni sono lunghi quasi quanto la sala e ne seguono l’andamento curvilineo laterale.

Le corde dei singoli tiri sono tutte utilizzabili sia da sinistra sia da destra. In sostituzione del moschettone normale con il ciondolo è prevista una legatura a piombo speciale. Inoltre nel soffitto della sala proseguono tiri a stangone, con relativi argani, e file di tiri semplici.

I tiri sono proposti per una continuazione in sala degli elementi scenografici del palcoscenico (rispettando le esigenze scenotecniche moderne), sia per l’utilizzazione degli impianti sia per l’illuminazione della sala.

L’apertura del prospetto scenico e chiusa dal sipario di sicurezza.

Costituito di due elementi, esso e suddiviso orizzontalmente in due parti di diversa altezza ed e azionato da motori elettrici e contrappesi. La parte inferiore del sipario di sicurezza è nel sottopalco e fa parte del palcoscenico mobile con la parte dello spessore rivestito in legno.

E’ l’elemento fondamentale (con la gradazione dei movimenti uguali ai ponti mobili di palcoscenico ed ai ponti della fossa dell’orchestra) per ottenere l’abbassamento completo del piano di palcoscenico al livello della platea. Insieme con la parte alta del sipario di ferro è l’elemento richiesto dalle speciali norme di pubblica sicurezza allo scopo di dividere fuoco e fumo tra palcoscenico e platea.

Entrambi i sipari sono costruzioni rigide in acciaio, con entrambi i lati rivestiti in lamiera e con le intelaiature calcolate per una sovrapressione da un unico lato. Sono ricoperti nella parte interna (in palcoscenico) da un cartone d’amianto contro il calore e hanno una protezione in rete metallica contro i danni meccanici.

La parte inferiore del sipario di palcoscenico è rivestita di materiale compatto non infiammabile ed elastico e appoggia sulla parte in legno del sipario inferiore.

Il sipario superiore nei movimenti normali appoggia su quello inferiore, a qualsiasi altezza si trovi quest’ultimo, con un interruttore automatico, installato nell’argano meccanico del sipario superiore, che entra in funzione in relazione a tutte le posizioni del sipario inferiore. Nelle chiusure di emergenza entrambi i sipari si muovono senza impulso elettrico o meccanico, ma esclusivamente per il loro peso specifico.

Il sipario inferiore scende rapidamente da qualsiasi posizione si trovi alla velocità d’arresto, e il sipario superiore si abbassa e chiude alla velocità accelerata richiesta per «l’emergenza».

La corsa d’alzamento del sipario inferiore è di poco superiore alla corsa d’alzamento massima dei piani di palcoscenico mobile e l’abbassamento e alla quota di platea (posizione di arresto). La corsa totale del sipario superiore incomincia al livello del piano di platea ed arriva alla posizione più alta oltre l’apertura del prospetto scenico. Le velocità normali sono per entrambi i sipari commutabili e regolabili senza scatti dalla posizione ferma fino a una velocità accelerata utile.

Sono previsti, nel sipario inferiore, innesti sulla parte frontale della platea che permettano l’applicazione di pannelli con decorazioni o una piccola ribalta a mensola, con sporgenze limitate e larga per tutta l’apertura del prospetto, che consenta l’utilizzazione della fossa dell’orchestra e del sipario tradizionale.

Verso la platea, davanti al prospetto scenico, si trova la fossa dell’orchestra, composta di ponti mobili.

I loro movimenti, sia nella gradazione delle varie posizioni sia nella velocità, sono del tipo e della qualità dei ponti di palcoscenico e del sipario di sicurezza inferiore. I piani mobili dell’orchestra sono indipendenti l’uno dall’altro e si possono predisporre tra loro a quote diverse. La posizione più bassa è quasi al livello del primo ballatoio del sottopalco e la più alta corrisponde all’altezza massima di un proscenio tradizionale.

La parte anteriore della platea, cioè il settore delimitato dal corridoio trasversale che unisce le due scale d’accesso del pubblico, è costituita da una costruzione, indipendente dalle strutture mu rarie, dall’inclinazione regolabile per mezzo di movimenti meccanici ed idraulici comandati elettricamente. Il punto di contatto con la «linea» della fossa dell’orchestra rimane fermo come cerniera e la parte posteriore si alza (quanto lo consente la struttura architettonica della sala) permettendo la correzione della visibilità quando il palcoscenico mobile scende a quote diverse al livello del piano di platea. Il movimento degli elevatori è bloccabile con precisione in qualsiasi posizione.

Nel I987-’88 Luciano Damiani idea e realizza, negli ambienti stessi di quel teatro, «una mostra che si prefigge di far conoscere il nuovo spazio del Teatro di Documenti», anch’esso ideato e realizzato da Damiani, a Roma nei magazzini di Monte Testaccio.

Il testo con il quale Damiani enuncia la struttura della mostra è anche in parte il manifesto della sua concezione della scenografia e della sua poetica di scenografo. La sua idea del «Nuovo Teatro» è quella di strutturare e riaggregare gli spazi funzionali – siti del pubblico, della scena, delle at­trezzature, dei vani di servizio. . . – secondo le opportunità e necessità tec­niche delle diverse funzioni. E’ in ciò il rifiuto della filogenesi del teatro, che ha specificato, ricavato e costruito gli spazi che via via si sono resi opportuni e necessari a partire dalla sala – il sito per il pubblico – e in­torno a questa in tutte le direzioni.

La scenizzazione intransigente della forma teatro secondo una sua teoria dello sguardo è oggi il punto di arrivo del pensiero di Damiani. Ne de­rivano logicamente conseguenze diverse, per esempio per quanto riguar­da i rapporti fra quadro visivo e mobilità del pubblico, la drammaturgia delle luci e del suoni, la distribuzione dello spettacolo nel tempo e negli spazi. Fra le altre implicazioni, è necessario almeno accennare alla revi­sione della funzione e del ruolo del pubblico e del regista. E con questo il percorso riflessivo e ideativo di Damiani, partito negli anni Sessanta dalla rivendicazione del ruolo dello scenografo – bozzettista, sembra ap­prodato alla discussione del ruolo funzionale centrale del teatro del No­vecento, cresciuto e sviluppatosi per tutto il secolo. E’ interessante no­tare che la discussione del ruolo del regista non muove dalle ragioni del testo, o degli attori, ma da quelle della scena. E’ questo un altro tratto di originalità del pensiero di Damiani.

«Allestire una mostra che si limiti a collezionare bozzetti e modelli di scenografie non mi ha mai interessato. Ho sempre sostenuto che il bozzetto di una scena, testimonianza di eventi già avvenuti ed esauriti, nasce in funzione di uno spazio che è altrove, e ad esso, alla sua dimensione lo spettatore deve fare riferimento, e immaginare di trovarsi a teatro. Mentre ha senso allestire una mostra di scenografia quando al visitatore è offerta la possibilità di sperimentare in concre­to lo spazio della scena e non limitarsi alla semplice riproduzione che ne dà il bozzetto.

La mostra del Teatro di Documenti ha come intento di compensa­re queste carenze, proponendo in seconda istanza l’esposizione di disegni, progetti, bozzetti, a testimoniare la ricerca che data ormai da quarant’anni.

L’obiettivo della mostra è quello di far conoscere al visitatore il Nuovo Teatro e come sono state recuperate le condizioni di spazio della scena, di fronte alle quali mi sono trovato nell’arco del mio la­voro, e di sottoporre a una verifica i documenti di Teatro cui ho fatto ricorso per appropriarmi di quella pagina “bianca” ma non neutrale che è lo spazio scenico del Teatro di Documenti, dove non esistono oggetti “innocenti”.

Mi si poneva il problema della scelta per il racconto, così da trac­ciare una sorta di itinerario nel Teatro che il visitatore può percor­rere, avvalendosi dei documenti come strumento – guida a una even­tuale verifica immediata e concreta delle soluzioni sceniche proposte.

Il pubblico è stimolato a un’esperienza che lo vede non più rele­gato al ruolo di spettatore, ma impegnato anche nella dimensione operante dell’attore.

Gestita sulla base di questi criteri, la mostra si articola sostanzial­mente come offerta di una via da esplorare, di una determinata ricer­ca di teatro, mediante veicoli di comunicazione non mutuati da altri campi di espressione artistica non specifici della dimensione teatrale.

Non intendo limitarmi a trattare il rapporto uomo – attore e scena, ma uomo – attore e teatro, teatro inteso come palcoscenico più sala. Più precisamente, si può parlare di “teatro nel teatro”, con il criterio dell’esperienza immediata, progressiva, applicata all’architettura del teatro che sono andato elaborando nel corso degli anni per approdare, nel Teatro di Documenti, al coinvolgimento totale della sala, del palcoscenico e anche degli spazi normalmente adibiti a camerini e depositi di attrezzeria. Arrivando così a uno schema di teatro dove il «sogno» si contrappone al «reale», il Teatro della Luce da una par­te e il Teatro dell’Ombra dall’altra e al centro il palcoscenico e l’or­chestra fusi in un unico “corpo”.

Il visitatore inizia il percorso avendo alla sinistra una bassa fine­stra ad arco dove vede una linea bianca sul pavimento correre all’in­finito, come lo spartitraffico di un’autostrada. A destra un sipario bianco, trasparente; attraversandolo, il visitatore entra idealmente in palcoscenico (riferimento al progetto di Wagner che voleva il pubblico partecipe). E’ il luogo del sogno, con le nuvole sulle volte, a sinistra i gradoni che salgono verso il “fantastico superiore”, poi le botole che portano al “fantastico inferiore”. Sulla destra le tre porte del Teatro Classico Pagano e poi della Cristianità: Inferno, Pur­gatorio, Paradiso.

Con l’apertura del sipario la parte del pavimento tra la finestra ad arco e il sipario stesso si apre, e si alza uno specchio, rivelando così la fossa dell’orchestra e la sala sottostante, dove la fossa dell’orche­stra appare come un palcoscenico all’italiana con macchinerie baroc­che.

Le volte con le nuvole e l’arco scenico con gli arredi chiari com­pletano i due spazi che vogliono, in sintesi architettonica – scenogra­fica, proporre al visitatore il Teatro all’Italiana e la crisi evolutiva determinata da Wagner.

Dal Teatro bianco dei sogni (o della Luce) lo spettatore, attraver­sando un velo nero passa nella Città, nel “reale”, dove sono i came­rini degli attori, del trucco: il nuovo spazio teatrale che potrebbe appartenere, per via di “squarci” nei pavimenti, al “tranche de vie” ma anche al teatro espressionista tedesco e, poiché i camerini hanno forme di templi in marmo nero bronzi e specchi, anche a un luogo di meditazione sulla vita.

Il visitatore si trova fra macchine teatrali, oggetti, specchi, auto­mobili, tavoli per conversare e consumare, in spazi intercomunican­ti che attraverso grandi grate poste nel pavimento permettono di vedere in verticale gli ambienti e i camerini, che appaiono sovrap­posti.

In questo spazio, agibile tridimensionalmente, il pubblico è stimo­lato a condurre un’esperienza che lo vede impegnato anche nella di­mensione dell’attore.

Durante lo svolgimento della mostra i disegni, i progetti e i boz­zetti esposti disegneranno una sorta di itinerario; ma avverranno anche interventi musicali, di prosa, poesia e canto, dislocati lungo il percorso della mostra che, con i materiali, le diverse possibilità ope­rative, gli strumenti di racconto disponibili, tenteranno di risolvere gli interrogativi posti dal mezzo teatrale, dall’uomo di teatro da una parte e dal suo diretto fruitore, il pubblico, dall’altra. Interventi mu­sicali, di prosa, poesia o canto, verranno eseguiti da artisti singoli o in gruppo, da noti professionisti e da allievi di Accademie.

Allo scopo di reperire i fondi necessari al completamente del Teatro di Documenti verranno offerti all’incanto bozzetti, documenti, riproduzioni appartenenti al mio Studio.»

Il documento, che porta la data 20 maggio 1988, ha una chiusa caratteri­stica di Damiani, come se egli volesse dire che, nell’indifferenza dei tempi in ben altri spettacoli incantati, il Teatro farà da sé, corpo separato della cultura e separato perché in esso ancora si combatte la lotta di Dioniso e Apollo contro Mercurio, il combattimento della sacralità con la venalità. Su altri palcoscenici, è finito da tempo.

(A cura di Giorgio Taborelli)

13 Maggio 2010

SCENOGRAFIA… quale? E soprattutto: perchè?

Filed under: Scenografia — admin @ 12:52

DSCN0771

 

Considerazioni intime, ma soprattutto domande retoriche e corrosivi dubbi di un (quasi) vecchio scenografo.

Mi corre obbligo avvertire colui che avrà la pazienza di leggere: non sarò ossequioso; avrò dubbi e domande, soprattutto su me stesso, ma anche su altri…
Ho frequentato la scenografia (con la esse minuscola, come minuscola ormai appare la sua importanza), ho conosciuto grandi maestri e grandi mistificatori, ho frequentato i laboratori di pittura e realizzazione (detta con una certa sufficienza “scenotecnica”), ho frequentato grandi palcoscenici (e grandi “artisti” che vi lavoravano), ho frequentato piccoli palcoscenici (e “piccoli grandi artisti” che vi prestavano la loro opera), ho praticato la scuola (accademica) prima come studente e poi come docente, ho visto teatri di tutte le misure e specie, ho visto progettarli, restaurarli, trasformarli. Ho visto un po’ di tutto e un po’ di niente (costa molto in termini di tempo e di soldi, purtroppo, il vedere uno spettacolo o visitare un lontano teatro). Mi chiedo spesso a cosa sia servito tutto ciò, tranne la piccola trasmissione della mia esperienza agli studenti…

Cominciamo dalla inevitabile irritazione che ho dentro quando apro un giornale o una rivista (anche specializzata che parli di teatro…): non riesco più a capire cosa mi succeda (può essere decisamente l’età, ma a parte questa concreta possibilità…) e perché mi assalgano una serie di domande e di dubbi.
Ho imparato, studiando, lavorando e insegnando, ad apprezzare e diffondere concetti quali la bellezza, la coerenza, la storia, la cultura, la funzione e lo scopo delle cose, la semplicità, la chiarezza, la curiosità e l’onestà intellettuale, il coraggio innovativo, ma poi…?

Poi vedo articoli, scritti da giornalisti, critici, letterati in cui si parla di tutto, si favoleggia di spettacoli meravigliosi, si teorizzano e se ne estrapolano interpretazioni straordinarie, ci si pavoneggia citando elementi storici sconosciuti ai più, si fanno riferimenti coltissimi, ma poi…?
Quando si tratta di parlare di scenografia…il nulla o quasi.
Descrivere la parte visiva dello spettacolo è diventata ormai un inutile accessorio (spesso non si cita neppure lo scenografo o il costumista dello spettacolo!). Primo dubbio: non sarà forse perchè tutte le persone che scrivono, in questo ambito, hanno una preparazione straordinaria dal punto di vista storico, critico, metodologico, ma assolutamente nessuna dal punto di vista visivo, scenografico, compositivo (non uso volutamente l’aggettivo “artistico”)?
Sembra ci si dedichi principalmente e sempre più spesso ad omaggiare i cosiddetti “nomi sicuri”… Il vecchio scenografo, con evidenti ed indubitabili grandi capacità ed esperienza (divenuto anche regista e costumista naturalmente: prendi uno e paghi 3), garanzia di uno spettacolo elegante al limite del lezioso, pulito ma sempre più o meno ripetitivo, strapagato, potente ed onnivoro (10/15 spettacoli l’anno fra riprese e nuove, faraoniche produzioni); oppure il “vulcanico interprete della visualità operistica” (come è stato definito un esotico (ex) giovane che naturalmente firma regia scene e costumi…) soprannominato Attila: quando c’è lui in cartellone, dopo i suoi allestimenti non c’è più un soldo per i titoli restanti della stagione; oppure il regista oriundo, alla moda (regia, scene[quali?] e costumi…com’è logico e sempre per lo stesso motivo…) “uno dei più innovativi interpreti del teatro musicale di oggi” e guardo i suoi “bozzetti” sul quotidiano (una rarissima occasione): tre “segni” che avrebbero la pretesa di essere “artistici” ma che in realtà scimmiottano i vecchi schizzi di Le Corbusier; e poi la realizzazione: il contrapporsi di forme assolutamente incoerenti, inutili, gratuite (gabbie di ferro a più piani contrapposte ad estrusioni curvilinee da orrendo monumento anonimo degli anni ’60), inutilmente roboanti e gigantesche, fintamente essenziali (la vera essenzialità è altra cosa: ma è poi necessaria quando si ripropone un’opera ottocentesca?) degne del primo studentello incolto e confuso al primo anno d’Accademia. Tutto ciò viene descritto con le seguenti parole:«…appartiene a una generazione di uomini di teatro che ha elaborato in chiave poetica la sperimentazione, e quindi ha rinunciato alla provocazione fine a se stessa: non alla lettura analitica, sorgiva ma anticonvenzionale, del mondo espressivo che regge la scrittura operistica ottocentesca…». Capisco che manca il coraggio di “rischiare” un nuovo nome, di puntare su qualcuno che sta crescendo, in una parola, sul “futuro”…

Poi mi chiedo perchè se vedo, al primo anno d’Accademia, un lavoro simile, invito lo studente che lo propone a cambiare corso di studi… Ma se a questo (giustificatamente) ingenuo essere, capita di vedere cose simili a quelle da lui prodotte, su un quotidiano nazionale, con le lusinghiere didascalie che lo descrivono, cosa penserà del suo severo ed ipercritico Docente? Che è un aguzzino ed un incapace? Credo di sì…ed avrebbe ragione. E la coerenza formale, l’analisi storica, i criteri compositivi e funzionali, l’attenzione al rapporto costo-risultato ed altre amenità del genere? Perchè studiando e sperimentando progettazione si richiede tutto ciò? E che fine fanno poi questi criteri, che si ritengono basilari?

Poi mi chiedo quanto costi quell’allestimento, quante persone ci abbiano lavorato, chi abbia approvato quel progetto e sulla base di quali considerazioni estetiche, pratiche ed economiche, e mi chiedo anche (domande che dovrebbero obbligatoriamente farsi certi amministratori teatrali, sovrintendenti sorretti solo da forze…politiche e direttori artistici) se fosse possibile far di meglio e con minore spesa…E scorrono davanti ai miei occhi una infinita serie di progetti e disegni, esecutivi, modelli, fatti da molti bravissimi studenti di scenografia (sempre con la esse minuscola) che ora hanno finito i loro studi e stanno servendo birre in un bar o stanno, se sono fortunati, lavorando saltuariamente in qualche studio di grafica o di web-design…

Poi mi chiedo a che titolo un famoso dirigente teatrale, sempre dalle colonne dello stesso quotidiano asserisca:«…l’attuale ordinamento delle fondazioni lirico-sinfoniche (ed il cosiddetto spettacolo dal vivo n.d.r.) si sta rivelando incapace di salvare sia l’immagine sia lo sviluppo dell’offerta del prodotto culturale da parte dei nostri storici Teatri d’opera. In un clima di indebolimento dei consensi, aggravato da disposizioni legislative e regolamentari che hanno trasferito all’esterno una visione distorta sui costi artistici (legati al mercato internazionale) e sui costi del lavoro, lo stato di degrado e di tramonto non è stato ancora bloccato…I nostri Teatri d’opera non sono realtà astratte: sono costituiti da professionisti della musica, del canto, e della danza cui si accompagnano specialisti adibiti alle attività diverse di palcoscenico, dei laboratori e dei servizi che perseguono comuni finalità di particolare valore sociale e culturale…penso invece che sia compito della politica, verificare (?n.d.r.) lo sbocco professionale degli autori, interpreti ed esecutori (soltanto? n.d.r.) e dei diplomati dei Conservatori (e delle Accademie? n.d.r.), anche alla luce dell’evidente mancanza di politiche pubbliche rivolte al mondo delle arti (finalmente! n.d.r.) e dello spettacolo…Si appalesa che non stiamo dando a chi si getta nelle braccia dell’arte quel “raggio di fiducia e di poesia” che è per loro indispensabile…».
Se non erro questa persona è dirigente teatrale ai massimi livelli da circa (posso sbagliare, ma di poco) trentacinque anni: dov’è stato fin’ora e che tipo di politica teatrale ha avallato, se ha assistito, impassibile (o forse impotente o soltanto opportunisticamente silente?) allo “stato di degrado e di tramonto che non è stato ancora bloccato”; e da chi deve essere bloccato? E’ “visione distorta sui costi artistici” il continuo, diffuso ricorrere alle tristemente famose “agenzie” (un tempo proibite in Italia ed ora perfettamente legali…questa sì, decisione “politica”) che, lucrando succulente percentuali sui contratti artistici (cantanti, direttori, registi ecc., quasi mai scenografi…c’è poco da lucrare), applicano compensi raddoppiati rispetto all’estero? Perchè non comincia lui stesso a dare quel “raggio di fiducia e di poesia” indispensabile alle nuove generazioni?
E’ vero che molte di queste agenzie hanno sede all’estero e quindi gli emolumenti erogati dalle Fondazioni finiscono in una sorta di “buco nero” anche fiscale?
E’ vero che sono stati chiusi quasi tutti i laboratori di scenografia delle Fondazioni (con la scusante, fasulla, degli eccessivi costi del personale) affidando l’esecuzione degli allestimenti esclusivamente a ditte private con finte gare d’appalto già pilotate? E’ vero che così facendo si è prima trascurata e poi persa (anche le ditte private stanno man mano chiudendo) una vera e propria “sapienza della tradizione scenografica” che era quasi esclusiva degli ex Enti Lirici e dei Teatri di Tradizione, vero e proprio “baluardo” di quei “valori culturali” dei quali si lamenta il tramonto e la perdita? Perchè si ricorre sempre più spesso a frettolosi, spesso inutili quanto costosi corsi di formazione ed aggiornamento del personale (attingendo a fondi europei…) perchè sindacalmente si è puntato sulla quantità anzichè sulla qualità e la formazione? Non è forse “mancanza di politiche pubbliche rivolte al mondo delle arti” il fatto (grave e soltanto italiano) che Conservatori e Accademie non siano ancora facoltà universitaria ma soltanto una indecifrabile quanto equivoca “alta formazione” non bene identificata? Non è forse vero che ancora oggi ci si affida più volentieri (e spesso) ad architetti senza nessuna competenza teatrale e preparazione specifica, proprio perchè provvisti di una laurea, anzichè a scenografi giovani e preparati per allestimenti e progettazione teatrale, ma anche museale ed espositiva? Perchè, come tutti i lavori pubblici (o quasi) non si mette “a concorso” un’opera ed il suo allestimento (con la possibilità di scelta sia del progetto che del suo rapporto costo-qualità)? Perchè si investe in co-produzioni che fanno lo stesso spettacolo (sovente molto mediocre) a distanza di poche decine di chilometri e non si punta, invece, a “vendere” un buon prodotto (e competitivo) anche all’estero? E, a proposito di “estero”, premettendo che non ho niente contro gli stranieri, anzi, credo che una delle poche ancore di salvezza culturale sia proprio il nostro rapporto con l’Europa: ma perchè, sull’onda spesso di malintese novità artistiche, per l’opera si chiamano registi e scenografi stranieri (spesso strapagati) che nulla hanno a che fare con la tradizione operistica italiana (che non conoscono e sovente neppure amano…), la più parte delle volte producendo dei “fiaschi” di pubblico, di consenso ed economici? (apro un qualsiasi numero di una rivista specializzata e leggo il resoconto di uno spettacolo visto in uno dei più prestigiosi teatri italiani di tradizione, testualmente:«…Lo spettacolo, che si coproduce con…(teatro straniero), è davvero modesto. E’ modesto per le soluzioni figurative prive di suggestione. Con quei cubi, che fungono da accessi alla scena e assomigliano a tunnel di un metro in corso d’opera, le scene di…(inglese) non accendono la fantasia. E’ modesto per una stilizzazione che, invece di aggiungere, toglie fascino all’allestimento e lo rende anodino, che è ancor peggio di anonimo. Ci potresti ospitare tutte le opere di argomento marinaro o lambite dal mare, dall’Idomeneo al Billy Budd. La regia di…(anch’egli inglese) ha lasciato che i fatti seguissero il loro corso…ha lasciato i personaggi a loro stessi…A mandare fuori rotta questa singolare eroina (la protagonista, n.d.r.), hanno contribuito anche i costumi del già citato…(scenografo, n.d.r.): in talune scene … ha optato per un abito la cui foggia è più adatta ad una diva invitata ad un ricevimento che alla vereconda sposa di…. E’ un errore grave, da matita blu.» A questo teatro è stato assegnato un “contributo speciale” di sei milioni (6.000.000!) di euri…Qualcuno verifica che siano spesi bene, oppure questi “manager” sono sempre ed ancora impudentemente al loro posto?)

E poi chiedo (a me stesso ed al mio ruolo istituzionale) perchè l’insegnamento della scenografia, nel suo insieme, viene sottovalutato e trascurato dagli ordinamenti e persino dalla cultura ufficiale? Perchè i corsi superiori d’arte, in generale, e nel nostro caso di scenografia non sono corsi di laurea veri e propri? Non può essere anche un po’ (o tanto) per colpa nostra? (di noi docenti dico…). E’ vero che siamo aggiornati, curiosi, scrupolosi, attenti, rigorosi? O forse spesso viaggiamo sulle ali di una certo, sicuro tradizionalismo, sia didattico che progettuale e sperimentale, soffocando conseguentemente in schematismi alquanto rigidi e sorpassati ogni possibile novità e ricerca? E soprattutto perchè non scriviamo? Perchè non esistono testi di scenografia (tranne pochissime, sparute ed introvabili pubblicazioni ormai anche obsolete)? Perchè in qualsiasi campo della conoscenza, della scienza e del sapere una rivista specialistica rappresenterebbe un indispensabile strumento, un sicuro punto di riferimento, aggiornamento, confronto, mentre in Italia (contrariamente all’estero) si vendono pochissime copie dell’unica rivista, ad esempio, di scenografia? Perchè siamo (quasi) sempre assenti da confronti e simposi internazionali, da concorsi ed esposizioni continentali, da collaborazioni con organizzazioni culturali straniere? Siamo proprio sicuri che quando un nostro studente va a vedere (se ci va…) uno spettacolo contemporaneo, riconosca esattamente i principi, gli strumenti, le tipologie tecniche, quelle drammaturgiche ed espressive che sono elementi fondanti della nostra didattica? Oppure ammettiamo che possa avere un senso di disorientamento quando di giorno, a scuola, apprende concetti e nozioni che di sera, andando a teatro, vede trasfigurati ed alterati, se non abbandonati perchè desueti, a tal punto da non riconoscerli o non vederli più? E, ancora in campo internazionale, perché all’ultima quadriennale di Praga, forse una delle più mportanti rassegne di scenografia mondiale, l’Italia era uno dei pochissimi paesi che non ha presentato i suoi scenografi adducendo, come scusa, la mancanza di fondi (una decina di migliaia di euri)?

Poi mi chiedo perchè le facoltà di medicina abbiano cliniche universitarie, quelle di scienze motorie abbiano palestre, quelle di ingegneria abbiano laboratori attrezzati ecc. e gli studi accademici sul teatro e sulla musica non abbiano dei teatri? Fabrizio Cruciani (Lo spazio del teatro, Editori Laterza, Roma-Bari, 1992) scriveva: «…in questa cultura lo spazio del teatro non può accettare di essere sala più o meno efficiente, più o meno umana, ma solo sala per spettacoli, per teatro-merce sempre più costoso. La committenza chiede però sale per spettacoli e gli architetti che le costruiscono fanno spazi per il teatro-merce o cattedrali nel deserto. E gli uomini di teatro fuggono dai teatri. Lo spazio del teatro, per essere vivo, deve avere proporzioni e memoria (sic! n.d.r). Se non è più il palazzo degli spettatori o il museo della cultura, può essere la “casa” degli attori (e di tutti coloro che il teatro lo “fanno”, n.d.r.). Un luogo abitato anche prima e dopo lo spettacolo, un luogo di lavoro in cui si ha interesse ad essere ospiti. Si può certo abitare in case costruite per altri o per altro (è quel che di solito viene fatto); si può anche costruire una casa in cui abitare come artisti e in cui ricevere ospiti. Qui lo spettatore che viene allo spettacolo “sente” lo spazio vissuto e “vede” quello spazio come elemento vivo e funzionale dello spettacolo stesso; qui lo spazio dello spettacolo crea la condizione del suo essere guardato, crea lo spettatore…». Gli fa eco Jean-Guy Lecat, Scenografo, per molti anni nella compagnia di Peter Brook: «…Ci sono tre pelli in un teatro. La prima è l’esterno, l’edificio nel contesto della città. La seconda pelle è il luogo di incontro, da una parte il pubblico e dall’altra degli attori, e comprende anche tutti i servizi, bar, ristoranti, toilettes. Per queste due parti gli architetti possono lavorare autonomamente. Ma la terza è lo spazio teatrale vero e proprio. Questo, la parte interna del teatro, non deve avere un legame artistico con le altre due, ma deve essere completato dalla gente di teatro in prima persona». Perchè allora ci si ostina a trovare fondi per il restauro o la costruzione di teatri per poi averne pochi o addirittura non averne per una seria programmazione e, invece, non si affidano queste strutture completamente a “persone di teatro” che fanno il “mestiere teatrale” o che lo stanno studiando?

Sicuramente cerco risposte: ma credo non ci siano risposte; credo che le domande galleggino in aria e restino come sospese…in attesa che qualcosa o qualcuno cambi. Certo è che non si deve più fingere che non esistano o che non si pongano affatto. Ce lo pongono e ci dicono che esistono tutte le generazioni di illusi che abbiamo costruito e formato e che non riescono a trovare, ed ormai disperano di trovare, quel “raggio di fiducia e di poesia, per loro indispensabile”, che abbiamo loro sottratto o quanto meno spento.

« Newer Posts

Powered by WordPress