www.scenotecnica.com

22 Giugno 2010

realtà ed illusione, ovvero: occasioni mancate

Filed under: Teatro — admin @ 11:02

Piantate un palo adorno di fiori in mezzo ad una piazza, riunitevi intorno il popolo e avrete una festa. Ancor meglio: offrite gli spettatori come spettacolo, fateli attori essi stessi, fate che ciascuno si veda e si ami negli altri, affinché tutti siano più uniti.” J. J. Rousseau – Lettera sugli spettacoli.

Nell’immaginario e nella concezione comune, il modello ed il simbolo stesso di Teatro, la sua identità, si rifanno, nella quasi totalità dei casi, alla tipologia del cosiddetto teatro all’italiana, ancora oggi la più diffusa nel mondo.

Questo tipo di teatro, sviluppatosi in epoca barocca, ha resistito al tempo e alle mode fino ai giorni nostri, essendo legato indissolubilmente alla concezione borghese di teatro liturgico, da “gustare” seduti “comodamente al buio ed attorniati da persone dello stesso ceto, guardando un palcoscenico sopraelevato il cui diaframma che lo divide dalla sala, riccamente decorato è chiuso da un sipario di pesante velluto dietro il quale si prepara un sogno…”

La sua natura è indissolubilmente legata alla gran parte del repertorio ed alla tradizione europei; ha resistito anche alle poderose spallate delle avanguardie del ‘900; e se è vero che le concezioni registiche contemporanee sono figlie anche di queste avanguardie, è altrettanto vero che questo modello non è stato sostituito da nessun altro o forse sarebbe più esatto dire che non c’è più bisogno di un modello, ma lo spettatore comune non se ne avvede.

Queste contraddizioni, spesso fonte di aspra polemica, inevitabilmente scoppiano ogniqualvolta si restaura o ripristina un teatro, anche piccolo e di scarso interesse storico, sia esso ancora in qualche modo agibile o sia esso scomparso (come nel caso della Fenice di Venezia).

Da una parte, progettisti, consulenti ed “addetti ai lavori”, sarebbero desiderosi di cogliere un’occasione preziosa per rendere meno rigidamente ancorata alla sua tradizione storica una struttura che, anche dal punto di vista economico e funzionale, dovrebbe assumere nuove e più diversificate valenze; dall’altra, l’opinione pubblica, gli organismi istituzionali e spesso lo stesso committente opterebbe, arrivando anche a livelli di veri e propri atti ricattatori, per una fedele ricostruzione del manufatto, anche a costo di limitarne pesantemente l’uso: verrebbe così premiato l’aspetto di rappresentanza dell’edificio teatrale, a discapito della fruibilità della struttura e della sua essenza principalmente operativa.

La radicalizzazione delle due opposte visioni comporta delle pericolose conseguenze e spesso rende negativamente ibridi i risultati.

Il nostro paese è ricchissimo di teatri, costruiti in periodi storici molto diversi, ma tutti compresi, tranne pochissimi casi, nell’arco di poco più di due secoli (da poco prima del diciottesimo secolo ai primi del ventesimo). Lo sviluppo maggiore del teatro e della sua popolarità si è avuto soprattutto nell’ottocento ed in gran parte grazie al melodramma, un tipo di spettacolo nato e sviluppatosi principalmente in Italia e risulta logica, quindi, l’associazione di questa tipologia di spettacolo e dell’edificio teatrale più adatto alla sua esecuzione con il concetto comune di TEATRO stesso.

Anche in piccolissimi paesi e in centri sperduti della nostra penisola spesso troviamo un teatrino, forse modesto: alcuni sono ancora funzionanti, altri chiusi e fatiscenti, altri ancora trasformati in cinema negli anni cinquanta e sessanta. Ovvio e giusto, quindi che se ne costruiscano molto pochi di nuovi, ma si tenda a recuperare il patrimonio esistente ed il problema inizia proprio a questo punto: recupero storico di un edificio che però ha la stessa destinazione che in origine, ma una diversa funzione ed un diverso criterio di fruibilità dello spazio della sala e della scena.

Nel fenomeno teatrale coesistono due diverse entità, spesso contrapposte, spesso in accordo, ma sempre ed ugualmente necessarie, indispensabili per il compiersi dello spettacolo: il pubblico, e cioè la parte che assimila (ma si potrebbe anche dire partecipa, recepisce, gusta) e per la quale il compiersi dell’atto artistico spesso ha del miracoloso e la parte che produce questo atto e che ha un’organizzazione complessa ma precisa, caotica ma efficace, un meccanismo che ha numerose componenti che necessariamente (ne va della qualità dello spettacolo) devono essere sincronizzate e concorrere alla riuscita della messa in scena.

Se per un attimo ci dimenticassimo che si tratta di teatro (sopravvalutandone un po’ la valenza) e paragonassimo il suo recupero a quello di una qualsiasi struttura produttiva, ci accorgeremmo, anche da spettatori, dell’equivoco. Se dovessimo, per esempio, recuperare un vecchio edificio proto-industriale che supponiamo originariamente destinato alla produzione di stoffe, non per cambiarne la destinazione d’uso, ma per farne una industria tessile contemporanea, non ci si sognerebbe certo di pretendere che la stoffa prodotta sia la stessa, o venga tessuta con gli stessi ottocenteschi telai recuperati, o che gli uffici abbiano gli stessi mobili o le stesse dotazioni: sarebbe impensabile. Sono cambiate le stoffe, i loro filati, il modo di produrle, di pubblicizzarle, di trasportarle, di venderle. L’importante è che l’arte della tessitura resti un’arte, diversa nei tempi e nei modi, ma sempre arte.

Non per questo bisogna dimenticare o tanto meno distruggere il passato e la tradizione nel nome di un efficientismo tecnologico e spietato: raccoglierne le testimonianze è un atto di grande cultura e civiltà oltre che doveroso. Probabilmente esiste un modo equilibrato e attento per farlo. Un equilibrio che consenta di bilanciare questi rapporti.

Tutto questo viene dimenticato quando si tratta di un teatro: tradizione, normativa e burocrazia, affette da sempre da miopia cronica, tendono ad avere il sopravvento sugli equilibri già precari che regolano questi difficili momenti progettuali.

La tendenza più diffusa, poi, è indubbiamente quella di avallare in qualche modo qualsiasi apporto ed investimento tecnologico, anche il più invasivo ed innovativo per la parte “nascosta” e cioè quella del palcoscenico e dei servizi, ma di recuperare all’origine storica, nella maniera più fedele possibile, tutti gli spazi destinati al pubblico ed alla sua collocazione, soprattutto dal punto di vista decorativo.

Proprio la storia dell’architettura e degli spazi teatrali, ci insegna invece che in questo tipo di Teatro, e cioè quello all’italiana, l’effimera scenografia di palcoscenico, fragile, deperibile, mobile, mutevole, nella sua spesso esagerata spettacolarità e finzione, nella maggior parte dei casi continuava anche nella sala (come esempio valga il piccolo Teatro Scientifico, costruito a Mantova tra il 1767 ed il 1769 da Antonio Galli Bibiena, esponente di spicco di una intera dinastia di scenografi, architetti di scena); ma in questo caso siamo di fronte all’eterno dilemma – essenza del teatro: quello che vediamo in queste storiche sale è “vero” o “finto” e cos’è in teatro il “vero” ed il “falso”?

Ce lo dobbiamo chiedere anche alla luce di numerosi indizi, il primo dei quali è determinato dal fatto che gli interni e le decorazioni erano quasi sempre affidati a scenografi o al massimo archtetti-scenografi i quali si avvalevano degli stessi materiali con cui si costruivano e si decoravano le scenografie in palcoscenico, alle quali non si è mai attribuito un grandissimo “valore” storico, tanto meno in epoca contemporanea dal momento che vengono continuamente distrutte dopo aver servito al loro momentaneo scopo. Queste decorazioni spesso venivano cambiate o rifatte nel tempo (proprio come le scenografie) data l’usura e l’annerimento a causa dal fumo dell’illuminazione a fiamma libera o più semplicemente per motivi di “moda”. Materiali semplici e poco costosi quali la paglia, il gesso, il legno, la cartapesta, le finte dorature, la tela e semplice pittura a tempera, spesso solo a chiaroscuro, da sempre alla base della pittura scenografica.

Provocatoriamente, un vero e storico recupero di questa tradizione potrebbe consistere nell’affidare ad uno scenografo contemporaneo la progettazione degli interni, il quale, da abile professionista, potrebbe decorare gli spazi con rilievi in resina e finti legni o finti marmi pregiati fatti di compensato dipinto e ricostruire così qualsiasi epoca storica molto fedelmente (compresa quella attuale). Non solo, ma lo stesso allestimento della sala dovrebbe essere per così dire “mutevole”. Alla mitica “macchina scenotecnica di palcoscenico” potrebbe corrispondere una flessibilità di allestimento della sala.

Perché non pensare (basterebbe osare un po’ di più) che, alla riproposta, in palcoscenico, di un certo tipo di drammaturgia, corrisponda una sala (e quindi anche un pubblico e la sua disposizione) che si adegui a “quel” clima drammaturgico? Gli scenografi sarebbero così liberi di scegliere se far proseguire la loro scenografia intorno al pubblico, oppure separarla completamente in due entità ben contraddistinte, se non addirittura in antitesi, oppure ricostruire il più possibile fedelmente le condizioni e le sensazioni originarie del pubblico in un determinato periodo storico (già nei primi anni del ‘900 Edward Gordon Craig asseriva: “ …ogni tipo di dramma reclama un tipo speciale di luogo scenico…”). Ma ciò creerebbe anche condizioni assolutamente nuove ed impreviste che favorirebbero così il fiorire di nuove possibilità espressive in campo teatrale. Senza contare l’enorme vantaggio che (pensando al complesso caso del teatro La Fenice e delle polemiche sulla sua ricostruzione) tutta la parte dell’opinione pubblica legata, per motivi più svariati, ad una ricostruzione fedele degli interni storici di un teatro, potrebbe ritrovare riproposto quell’ambiente tanto tenacemente desiderato (facilmente ricostruibile per uno scenografo); ma altre categorie di pubblico ne potrebbero trovare uno diverso a seconda delle esigenze, della natura e della tipologia di uno spettacolo.

Le restrizioni dovute alle aggiornate normative sulla sicurezza, per la parte che riguarda la zona destinata al pubblico, potrebbero essere compensate da una tecnologia che ormai si è fatta molto raffinata e disponibile a soluzioni sempre più complesse.

La tendenza attuale più diffusa, nel restauro o recupero di edifici teatrali, è quella di conservare il più possibile il “guscio” originario dell’edificio teatrale, svuotandolo completamente e riprogettando tutto l’interno ex novo, introducendo così quel “gusto contemporaneo” spesso poco misurato se non addirittura (in certi casi) fuori luogo. Ecco così celebrarsi il trionfo del teatro di tipo borghese, secondo una definizione non tanto sociologica, quanto brechtiana del termine, che arriva spesso a caratterizzare le scelte di cartellone ed i contenuti stessi delle stagioni teatrali. Ma il teatro borghese non è altro che “un” tipo di teatro. La storia del luogo scenico e la sua evoluzione ci hanno offerto innumerevoli altre tipologie teatrali e drammaturgiche altrettanto interessanti (parlando solamente del passato), senza contare le innumerevoli possibilità contemporanee e senza guardare a quelle future…

E’ altrettanto vero che spesso questi teatri restaurati, presentano palcoscenici molto piccoli, tipici di un modo semplice di fare spettacolo e di periodi in cui la scena era appena suggerita. La voglia o l’ambizione di dotare questi palcoscenici di servizi e funzioni che comportano una tecnologia pretenziosa ed estremamente invasiva, per contro, finiscono irrimediabilmente per limitare ancor di più l’uso prettamente pratico, operativo, tipicamente teatrale di questo spazio.

Le condizioni storiche, sociali e culturali sono ormai profondamente cambiate e quindi se da una parte le mutate esigenze contemporanee dovrebbero prevedere sale sempre più capienti, in cui la visibilità sia ottimale per tutti, senza divisioni o barriere, facilmente accessibili, comode, sobrie e con una buona diffusione sonora, dall’altra, in palcoscenico, non si dovrebbe esagerare con la tecnologia, spesso fonte di equivoci e sopravvalutazioni.

Ormai è giunto il momento di ribaltare il comune concetto per cui il palcoscenico è il regno dell’illusione e la sala quello della realtà: il regno dell’illusione (la sala, dove vi regna) ritroverebbe, con i presupposti descritti poc’anzi, la sua originaria essenza e quello della realtà (il palcoscenico con il pragmatismo della sua organizzazione e dei suoi meccanismi) la sua funzione storica e creativa.

Ecco quindi completamente rovesciate le comuni aspettative: minore “celebrazione” degli aspetti esteriori o estetici della sala ed una maggiore attenzione al dosaggio della tecnologia in palcoscenico.

Nessun commento

No comments yet.

RSS feed for comments on this post.

Sorry, the comment form is closed at this time.

Powered by WordPress