La costruzione è una scienza, è anche un’arte, in altre parole il costruttore necessita del sapere, dell’esperienza e della intuizione naturale.
Eugène Viollet-le-Duc

Il dubbio che ogni separazione fra scienza, tecnica ed arte sia assolutamente superflua ha intaccato per secoli la cultura e la formazione. Nel caso della tecnica teatrale questo dubbio è ancora più marcato. L’abituale separazione fra Scenotecnica e Scenografia sembra ormai avere confini sempre più incerti e sfumati nello spettacolo contemporaneo, quando ancora esistenti. Questa separazione poteva forse avere un senso quando, per ricordare le parole di Luciano Damiani, lo scenografo bozzettista era il “fornitore di immagini” che poi diventavano scena per mano di abili artigiani (pittori, falegnami, scultori, tecnici ecc.) che si occupavano di sviluppare e realizzare, grande al vero, la scena, rendendola tridimensionale e funzionale per lo spazio del palcoscenico.
La scenografia contemporanea, al contrario, sembra sempre più rivolgersi a processi che si integrano fra loro, guidati da un progetto drammaturgico, poetico, espressivo, estetico, unico vero fine a cui tendere. Tale integrazione ingloba conoscenze in campi sempre più diversificati e specialistici, guidati da necessità nel medesimo tempo formali e funzionali in una continua interazione. Si vedono quindi proliferare continue invenzioni scenografiche, veri e propri straordinari prototipi che sovente rappresenterebbero da soli l’avverarsi di sogni che lo scenografo, da sempre nella storia, ha avuto, ma che solo la tecnologia novecentesca ha permesso di realizzare.Una di queste sicuramente è il cosiddetto PIANO FLESSIBILE, inventato dallo scenografo Luciano Damiani.
Perché un piano flessibile?
Il “reale” e i fantastici “inferiore” e “superiore” sono “entità” spaziali che già appartenevano al teatro barocco all’italiana – con le differenze del caso, chiaramente – ma non solo: il palcoscenico elisabettiano dei teatri pubblici, ad esempio, era già idealmente diviso in tre zone poeticamente ben definite; c’era infatti uno stage, situato probabilmente all’altezza delle teste degli spettatori; l’altezza dipendeva da esigenze di buona visibilità, ma anche per assicurare spazio sufficiente alla collocazione del cosiddetto inferno, hell, situato sotto il piano di palcoscenico e dal quale sortivano diavoli ed altre apparizioni demoniache mediante l’utilizzo di una o più botole. Lo stage poi, era parzialmente coperto da un tetto detto “cielo” (heavens): qui, con tutta probabilità, si trovavano i macchinari per le discese soprannaturali delle divinità. Lo stage era il “reale”, gli altri due spazi possono essere paragonati ai “fantastici” inferiore (hell) e superiore (heavens).
Bisogna precisare che, con l’utilizzo del velo in sala (una tela trasparente appesa dal palcoscenico alla sala, sopra gli spettatori), Damiani si occupò del “fantastico superiore”, ma non ebbe occasione di sperimentare il “fantastico inferiore” finché il comune di Milano gli propose l’allestimento per l’Orfeo, dal Poliziano, già messo in scena da Leonardo Da Vinci (Milano, Castello Sforzesco, Corte delle Armi; 1983)». “Fu un’occasione “fortunata” – scrive Damiani – “perché scoprii l’elemento in grado di completare la “macchina” di Teatro che volevo: il fantastico inferiore”.
In realtà Damiani non amava l’idea di riprendere pedissequamente la messinscena di Leonardo: Da Vinci nel suo progetto, aveva pensato a una collina come una mezza cupola: questa si “apriva” facendo apparire all’interno gli inferi. Damiani risolse il problema della collina realizzando un piano di palcoscenico che, flettendosi, diveniva un arco e permetteva di creare uno spazio superiore e uno inferiore. All’occorrenza inoltre, neutralizzando la spinta che lo aveva flesso, l’arco poteva ritornare a essere un normale piano di scena. Era l’avverarsi di un antico sogno che probabilmente avevano avuto molti scenografi nella storia: un piano che fletteva, si inarcava e lasciava intravedere un intero mondo degli inferi, un “sotto”, un inferno, un hell. Damiani raccolse la sua stessa sfida, da bravo, testardo “egocentrico”, come ama autodefinirsi…
Pensò aduna struttura flessibile, che misurasse 17 metri di lunghezza per poco più di 5 metri di larghezza, formata da tubi flessibili di poliestere termoindurente rinforzato con il 60% di fibra di vetro che furono acquistati da una ditta specializzata di Monaco.
Damiani ebbe un’intuizione geniale: inarcandosi, il piano sarebbe risultato prospettico, per cui la parte anteriore, più vicina al pubblico, si sarebbe arcuata maggiormente della parte posteriore. È comunque importante soffermarsi sul fatto che, trovandosi in posizione ad arco, il flessibile fosse in prospettiva: subendo spinte diseguali e flettendosi in maniere differenti, la struttura risultava sollecitata maggiormente e ciò significava andare incontro a ulteriori problemi statici e dinamici; eppure Damiani, conscio di tutto ciò, scelse appositamente di realizzare un piano flessibile prospettico. Se ciò non fosse stato infatti, il flessibile sarebbe apparso come un semplice ponte, un cavalcavia semovente (anche se un giornalista lo definì comunque in codesta maniera) piuttosto che una forma particolare quale era – quasi un lembo di crosta terrestre che, spinto da una forza misteriosa, si elevava.
La soluzione escogitata per la creazione delle due superfici lignee equivalenti era forse la più complessa e fu quella che giunse per ultima.
Venne progettata una struttura metallica studiata in modo da poter essere fissata alle aste flessibili. Gli elementi di acciaio erano posti, su tutta la lunghezza dei tubi, a una distanza di un metro uno dall’altro ed erano quindi, in numero pari a dodici; le lastre di legno erano spesse sei millimetri. Il vero e proprio pavimento, cioè la parte calpestabile, era composto da due strati sovrapposti di legno compensato; la parte inferiore del piano viceversa, non essendo praticabile ed avendo l’unica funzione di impedire la vista della struttura, era costituita da un solo strato di compensato.
Al doppio strato di compensato del pavimento, previde l’incollaggio due tappeti: da un lato dell’antirombo, dall’altro, quello calpestabile, del feltro. La funzione dell’antirombo era di limitare i rumori dovuti al ballo; si immaginino dei danzatori saltare o correre sul piano di palcoscenico flessibile: senza un “silenziatore” sarebbe stato come picchiare sulla pelle di un tamburo. Il feltro dipinto con della guaina rossa, aveva il medesimo scopo, ma non solo: risultava indispensabile ai ballerini come superficie grippante e come copertura delle guide metalliche che ospitavano i pannelli di compensato. Come già illustrato in precedenza infatti, è fondamentale per il ballo avere una superficie che impedisca scivolate e, altresì, un piano in cui sia assente qualsiasi elemento che possa ferire, se non peggio, i piedi dei danzatori.
Per concludere, Damiani studiò anche una soluzione per inserire, all’interno del flessibile dei proiettori; questi erano molto utili per illuminare la parte sottostante il piano quando si trovava in posizione ad arco. L’altezza interna del flessibile era di 16,4 centimetri e, nonostante fosse piuttosto sottile, dei piccoli proiettori potevano con facilità, essere collocati al suo interno. Chiaramente dove fuoriusciva il fascio di luce non era presente alcun pannello di legno.
Inizialmente i primi test che seguirono la progettazione e che cominciarono nel 1981, rivelarono un enorme difetto di costruzione: i tubi, non adeguatamente fissati alla squadra di metallo solidale con il congegno idraulico di spinta, si liberarono dalle loro sedi: il piano si “sdraiò” rovinosamente a terra. Si immagini un piano di diciassette metri di lunghezza che, per inarcarsi, necessita di una spinta pari a numerose tonnellate, e che, improvvisamente per un difetto di costruzione, si schianti disteso, a terra: il problema era veramente grave, soprattutto dal punto di vista della sicurezza.
La progettazione era stata estremamente accurata, questo si è già appurato, e la ditta che realizzò la carpenteria metallica del piano flessibile era affiancata da ingegneri del centro nucleare di Latina. Detto tutto ciò è legittimo chiedersi come si sia verificato un problema simile.
In realtà le variabili di cui tenere conto, erano un numero esorbitante. Se il piano si fosse inarcato in maniera simmetrica, cioè uguale sia anteriormente che posteriormente, probabilmente sarebbe stato più semplice calcolare punti di rottura, spinte, eccetera. Avere invece una flessione asimmetrica, dovuta alla presenza delle squadre poste alle estremità del flessibile, complicava enormemente le cose.
Se dopo sei lunghi mesi di lavoro si ottennero i risultati sperati infatti, fu solo grazie alle numerose prove eseguite che furono di enorme importanza. Damiani confessa che, se non avesse avuto modo di testare le soluzioni progettate possedendo spazi e mezzi finanziari adeguati probabilmente non sarebbe arrivato a nulla.
È importante precisare che il piano flessibile possedeva già una lieve curvatura naturale realizzata “in opera”, vale a dire durante la costruzione, necessaria perché il piano s’inarcasse. La predisposizione generata tuttavia, non fu sufficiente per vincere l’iniziale resistenza del piano all’inarcamento, sicché, con il solo scopo di innescare il movimento, si unì alla compressione idraulica in orizzontale, una spinta in verticale apportata da uno scivolo collocato sotto il flessibile.
Il palcoscenico flessibile aveva un unico difetto, se così possiamo chiamarlo: com’è già ampiamente noto, esso era praticabile sia in posizione orizzontale, che in quella “ad arco”. Se una massa di ballerini entrava da un’unica parte, ad esempio da destra, la struttura tendeva a oscillare verso sinistra.
In realtà questo tipo di “reazione” alle sollecitazioni da parte del flessibile si può giudicare normale: tutto sommato va sottolineato che il piano era lungo 17 metri e si inarcava fino a un’altezza massima di ben 3,2 metri. In ogni caso il problema fu aggirato facendo salire da entrambe le parti e contemporaneamente, la medesima quantità di personaggi.
Dice lo stesso Damiani: «…questo flessibile è la conclusione di tutta una ricerca che ho fatto io nell’arco di trenta, quarant’anni. Ma questa è la conclusione di un tentativo di fare in chiave moderna il teatro barocco, cioè: quinte palcoscenico inclinato, botole e soffitti. Era ancora in sospeso il risolvere il fantastico inferiore. Non c’erano altri mezzi a disposizione. È arrivata, per fortuna, la proposta da parte del Comune di Milano, di rifare la messa in scena di Leonardo. Però ho detto: “Io la messa in scena di Leonardo non la faccio, non voglio fare un modello per il museo della Scienza e della Tecnica. Faccio un’altra cosa!” e lì per lì ho detto: “Faccio un piano flessibile”, ma non sapevo assolutamente neanche come farlo. Realmente ho detto al sindaco di Milano: “Faccio un’altra cosa” ed è partita naturalmente quest’idea che a poco a poco si è sviluppata attraverso, prima dei tentativi, dopodiché con un primo fallimento pauroso. Ma poi ha funzionato!».
È possibile pensare che non sia stata compresa appieno l’importanza e la difficoltà insiti nella realizzazione di un palcoscenico flessibile. Quando Damiani lo utilizzò per la prima volta nello spettacolo Orfeo, la stampa non diede molto peso a questa innovazione scenografica. Leggendo i vari articoli di giornale sembra quasi normale che Damiani avesse realizzato un piano di diciassette metri che si inarcava e su cui dei ballerini eseguivano figure di danza. I commenti furono curiosi: “Damiani, dal canto suo, ha utilizzato come base figurativa le colline leonardesche, costruendo però una sorta di arco teso a separare la terra dagli inferi”; e ancora: “Leonardo è un cliente difficile, […] se perfino una artista come Damiani ne è rimasto bloccato”; Anche chi sembrò aver apprezzato non si sbilanciò più di tanto: “La scenografia […] è piuttosto bella.”
Al di là delle difficoltà tecniche per realizzare un piano di palcoscenico simile, da questi commenti si evince che nemmeno le necessità poetiche furono comprese, come pure l’importanza e l’unicità di questa geniale soluzione. E non sono certo di minima importanza: è lui stesso a confessare che il piano flessibile è la conclusione di tutta una ricerca compiuta nell’arco di trenta, quarant’anni…: di una vita.
Daniele Paolin
Brani di intervista, modello e foto tratte dalla tesi di Laurea “Il piano flessibile di Luciano Damiani” di Matteo Fianchi – Accademia di Brera Milano – Relatore prof. Daniele Paolin.