Mi corre obbligo avvertire colui che avrà la pazienza di leggere: non sarò ossequioso; avrò dubbi e domande, soprattutto su me stesso, ma anche su altri…
Ho frequentato la scenografia (con la esse minuscola, come minuscola ormai appare la sua importanza), ho conosciuto grandi maestri e grandi mistificatori, ho frequentato i laboratori di pittura e realizzazione (detta con una certa sufficienza “scenotecnica”), ho frequentato grandi palcoscenici (e grandi “artisti” che vi lavoravano), ho frequentato piccoli palcoscenici (e “piccoli grandi artisti” che vi prestavano la loro opera), ho praticato la scuola (accademica) prima come studente e poi come docente, ho visto teatri di tutte le misure e specie, ho visto progettarli, restaurarli, trasformarli. Ho visto un po’ di tutto e un po’ di niente (costa molto in termini di tempo e di soldi, purtroppo, il vedere uno spettacolo o visitare un lontano teatro). Mi chiedo spesso a cosa sia servito tutto ciò, tranne la piccola trasmissione della mia esperienza agli studenti…
Cominciamo dalla inevitabile irritazione che ho dentro quando apro un giornale o una rivista (anche specializzata che parli di teatro…): non riesco più a capire cosa mi succeda (può essere decisamente l’età, ma a parte questa concreta possibilità…) e perché mi assalgano una serie di domande e di dubbi.
Ho imparato, studiando, lavorando e insegnando, ad apprezzare e diffondere concetti quali la bellezza, la coerenza, la storia, la cultura, la funzione e lo scopo delle cose, la semplicità, la chiarezza, la curiosità e l’onestà intellettuale, il coraggio innovativo, ma poi…?
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Poi vedo articoli, scritti da giornalisti, critici, letterati in cui si parla di tutto, si favoleggia di spettacoli meravigliosi, si teorizzano e se ne estrapolano interpretazioni straordinarie, ci si pavoneggia citando elementi storici sconosciuti ai più, si fanno riferimenti coltissimi, ma poi…?
Quando si tratta di parlare di scenografia…il nulla o quasi.
Descrivere la parte visiva dello spettacolo è diventata ormai un inutile accessorio (spesso non si cita neppure lo scenografo o il costumista dello spettacolo!). Primo dubbio: non sarà forse perchè tutte le persone che scrivono, in questo ambito, hanno una preparazione straordinaria dal punto di vista storico, critico, metodologico, ma assolutamente nessuna dal punto di vista visivo, scenografico, compositivo (non uso volutamente l’aggettivo “artistico”)?
Sembra ci si dedichi principalmente e sempre più spesso ad omaggiare i cosiddetti “nomi sicuri”… Il vecchio scenografo, con evidenti ed indubitabili grandi capacità ed esperienza (divenuto anche regista e costumista naturalmente: prendi uno e paghi 3), garanzia di uno spettacolo elegante al limite del lezioso, pulito ma sempre più o meno ripetitivo, strapagato, potente ed onnivoro (10/15 spettacoli l’anno fra riprese e nuove, faraoniche produzioni); oppure il “vulcanico interprete della visualità operistica” (come è stato definito un esotico (ex) giovane che naturalmente firma regia scene e costumi…) soprannominato Attila: quando c’è lui in cartellone, dopo i suoi allestimenti non c’è più un soldo per i titoli restanti della stagione; oppure il regista oriundo, alla moda (regia, scene[quali?] e costumi…com’è logico e sempre per lo stesso motivo…) “uno dei più innovativi interpreti del teatro musicale di oggi” e guardo i suoi “bozzetti” sul quotidiano (una rarissima occasione): tre “segni” che avrebbero la pretesa di essere “artistici” ma che in realtà scimmiottano i vecchi schizzi di Le Corbusier; e poi la realizzazione: il contrapporsi di forme assolutamente incoerenti, inutili, gratuite (gabbie di ferro a più piani contrapposte ad estrusioni curvilinee da orrendo monumento anonimo degli anni ’60), inutilmente roboanti e gigantesche, fintamente essenziali (la vera essenzialità è altra cosa: ma è poi necessaria quando si ripropone un’opera ottocentesca?) degne del primo studentello incolto e confuso al primo anno d’Accademia. Tutto ciò viene descritto con le seguenti parole:«…appartiene a una generazione di uomini di teatro che ha elaborato in chiave poetica la sperimentazione, e quindi ha rinunciato alla provocazione fine a se stessa: non alla lettura analitica, sorgiva ma anticonvenzionale, del mondo espressivo che regge la scrittura operistica ottocentesca…». Capisco che manca il coraggio di “rischiare” un nuovo nome, di puntare su qualcuno che sta crescendo, in una parola, sul “futuro”…
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Poi mi chiedo perchè se vedo, al primo anno d’Accademia, un lavoro simile, invito lo studente che lo propone a cambiare corso di studi… Ma se a questo (giustificatamente) ingenuo essere, capita di vedere cose simili a quelle da lui prodotte, su un quotidiano nazionale, con le lusinghiere didascalie che lo descrivono, cosa penserà del suo severo ed ipercritico Docente? Che è un aguzzino ed un incapace? Credo di sì…ed avrebbe ragione. E la coerenza formale, l’analisi storica, i criteri compositivi e funzionali, l’attenzione al rapporto costo-risultato ed altre amenità del genere? Perchè studiando e sperimentando progettazione si richiede tutto ciò? E che fine fanno poi questi criteri, che si ritengono basilari?
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Poi mi chiedo quanto costi quell’allestimento, quante persone ci abbiano lavorato, chi abbia approvato quel progetto e sulla base di quali considerazioni estetiche, pratiche ed economiche, e mi chiedo anche (domande che dovrebbero obbligatoriamente farsi certi amministratori teatrali, sovrintendenti sorretti solo da forze…politiche e direttori artistici) se fosse possibile far di meglio e con minore spesa…E scorrono davanti ai miei occhi una infinita serie di progetti e disegni, esecutivi, modelli, fatti da molti bravissimi studenti di scenografia (sempre con la esse minuscola) che ora hanno finito i loro studi e stanno servendo birre in un bar o stanno, se sono fortunati, lavorando saltuariamente in qualche studio di grafica o di web-design…
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Poi mi chiedo a che titolo un famoso dirigente teatrale, sempre dalle colonne dello stesso quotidiano asserisca:«…l’attuale ordinamento delle fondazioni lirico-sinfoniche (ed il cosiddetto spettacolo dal vivo n.d.r.) si sta rivelando incapace di salvare sia l’immagine sia lo sviluppo dell’offerta del prodotto culturale da parte dei nostri storici Teatri d’opera. In un clima di indebolimento dei consensi, aggravato da disposizioni legislative e regolamentari che hanno trasferito all’esterno una visione distorta sui costi artistici (legati al mercato internazionale) e sui costi del lavoro, lo stato di degrado e di tramonto non è stato ancora bloccato…I nostri Teatri d’opera non sono realtà astratte: sono costituiti da professionisti della musica, del canto, e della danza cui si accompagnano specialisti adibiti alle attività diverse di palcoscenico, dei laboratori e dei servizi che perseguono comuni finalità di particolare valore sociale e culturale…penso invece che sia compito della politica, verificare (?n.d.r.) lo sbocco professionale degli autori, interpreti ed esecutori (soltanto? n.d.r.) e dei diplomati dei Conservatori (e delle Accademie? n.d.r.), anche alla luce dell’evidente mancanza di politiche pubbliche rivolte al mondo delle arti (finalmente! n.d.r.) e dello spettacolo…Si appalesa che non stiamo dando a chi si getta nelle braccia dell’arte quel “raggio di fiducia e di poesia” che è per loro indispensabile…».
Se non erro questa persona è dirigente teatrale ai massimi livelli da circa (posso sbagliare, ma di poco) trentacinque anni: dov’è stato fin’ora e che tipo di politica teatrale ha avallato, se ha assistito, impassibile (o forse impotente o soltanto opportunisticamente silente?) allo “stato di degrado e di tramonto che non è stato ancora bloccato”; e da chi deve essere bloccato? E’ “visione distorta sui costi artistici” il continuo, diffuso ricorrere alle tristemente famose “agenzie” (un tempo proibite in Italia ed ora perfettamente legali…questa sì, decisione “politica”) che, lucrando succulente percentuali sui contratti artistici (cantanti, direttori, registi ecc., quasi mai scenografi…c’è poco da lucrare), applicano compensi raddoppiati rispetto all’estero? Perchè non comincia lui stesso a dare quel “raggio di fiducia e di poesia” indispensabile alle nuove generazioni?
E’ vero che molte di queste agenzie hanno sede all’estero e quindi gli emolumenti erogati dalle Fondazioni finiscono in una sorta di “buco nero” anche fiscale?
E’ vero che sono stati chiusi quasi tutti i laboratori di scenografia delle Fondazioni (con la scusante, fasulla, degli eccessivi costi del personale) affidando l’esecuzione degli allestimenti esclusivamente a ditte private con finte gare d’appalto già pilotate? E’ vero che così facendo si è prima trascurata e poi persa (anche le ditte private stanno man mano chiudendo) una vera e propria “sapienza della tradizione scenografica” che era quasi esclusiva degli ex Enti Lirici e dei Teatri di Tradizione, vero e proprio “baluardo” di quei “valori culturali” dei quali si lamenta il tramonto e la perdita? Perchè si ricorre sempre più spesso a frettolosi, spesso inutili quanto costosi corsi di formazione ed aggiornamento del personale (attingendo a fondi europei…) perchè sindacalmente si è puntato sulla quantità anzichè sulla qualità e la formazione? Non è forse “mancanza di politiche pubbliche rivolte al mondo delle arti” il fatto (grave e soltanto italiano) che Conservatori e Accademie non siano ancora facoltà universitaria ma soltanto una indecifrabile quanto equivoca “alta formazione” non bene identificata? Non è forse vero che ancora oggi ci si affida più volentieri (e spesso) ad architetti senza nessuna competenza teatrale e preparazione specifica, proprio perchè provvisti di una laurea, anzichè a scenografi giovani e preparati per allestimenti e progettazione teatrale, ma anche museale ed espositiva? Perchè, come tutti i lavori pubblici (o quasi) non si mette “a concorso” un’opera ed il suo allestimento (con la possibilità di scelta sia del progetto che del suo rapporto costo-qualità)? Perchè si investe in co-produzioni che fanno lo stesso spettacolo (sovente molto mediocre) a distanza di poche decine di chilometri e non si punta, invece, a “vendere” un buon prodotto (e competitivo) anche all’estero? E, a proposito di “estero”, premettendo che non ho niente contro gli stranieri, anzi, credo che una delle poche ancore di salvezza culturale sia proprio il nostro rapporto con l’Europa: ma perchè, sull’onda spesso di malintese novità artistiche, per l’opera si chiamano registi e scenografi stranieri (spesso strapagati) che nulla hanno a che fare con la tradizione operistica italiana (che non conoscono e sovente neppure amano…), la più parte delle volte producendo dei “fiaschi” di pubblico, di consenso ed economici? (apro un qualsiasi numero di una rivista specializzata e leggo il resoconto di uno spettacolo visto in uno dei più prestigiosi teatri italiani di tradizione, testualmente:«…Lo spettacolo, che si coproduce con…(teatro straniero), è davvero modesto. E’ modesto per le soluzioni figurative prive di suggestione. Con quei cubi, che fungono da accessi alla scena e assomigliano a tunnel di un metro in corso d’opera, le scene di…(inglese) non accendono la fantasia. E’ modesto per una stilizzazione che, invece di aggiungere, toglie fascino all’allestimento e lo rende anodino, che è ancor peggio di anonimo. Ci potresti ospitare tutte le opere di argomento marinaro o lambite dal mare, dall’Idomeneo al Billy Budd. La regia di…(anch’egli inglese) ha lasciato che i fatti seguissero il loro corso…ha lasciato i personaggi a loro stessi…A mandare fuori rotta questa singolare eroina (la protagonista, n.d.r.), hanno contribuito anche i costumi del già citato…(scenografo, n.d.r.): in talune scene … ha optato per un abito la cui foggia è più adatta ad una diva invitata ad un ricevimento che alla vereconda sposa di…. E’ un errore grave, da matita blu.» A questo teatro è stato assegnato un “contributo speciale” di sei milioni (6.000.000!) di euro..Qualcuno verifica che siano spesi bene, oppure questi “manager” sono sempre ed ancora impudentemente al loro posto?)
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E poi chiedo (a me stesso ed al mio ruolo istituzionale) perchè l’insegnamento della scenografia, nel suo insieme, viene sottovalutato e trascurato dagli ordinamenti e persino dalla cultura ufficiale? Perchè i corsi superiori d’arte, in generale, e nel nostro caso di scenografia non sono corsi di laurea veri e propri? Non può essere anche un po’ (o tanto) per colpa nostra? (di noi docenti dico…). E’ vero che siamo aggiornati, curiosi, scrupolosi, attenti, rigorosi? O forse spesso viaggiamo sulle ali di una certo, sicuro tradizionalismo, sia didattico che progettuale e sperimentale, soffocando conseguentemente in schematismi alquanto rigidi e sorpassati ogni possibile novità e ricerca? E soprattutto perchè non scriviamo? Perchè non esistono testi di scenografia (tranne pochissime, sparute ed introvabili pubblicazioni ormai anche obsolete)? Perchè in qualsiasi campo della conoscenza, della scienza e del sapere una rivista specialistica rappresenterebbe un indispensabile strumento, un sicuro punto di riferimento, aggiornamento, confronto, mentre in Italia (contrariamente all’estero) si vendono pochissime copie dell’unica rivista, ad esempio, di scenografia? Perchè siamo (quasi) sempre assenti da confronti e simposi internazionali, da concorsi ed esposizioni continentali, da collaborazioni con organizzazioni culturali straniere? Siamo proprio sicuri che quando un nostro studente va a vedere (se ci va…) uno spettacolo contemporaneo, riconosca esattamente i principi, gli strumenti, le tipologie tecniche, quelle drammaturgiche ed espressive che sono elementi fondanti della nostra didattica? Oppure ammettiamo che possa avere un senso di disorientamento quando di giorno, a scuola, apprende concetti e nozioni che di sera, andando a teatro, vede trasfigurati ed alterati, se non abbandonati perchè desueti, a tal punto da non riconoscerli o non vederli più? E, ancora in campo internazionale, perché all’ultima quadriennale di Praga, forse una delle più mportanti rassegne di scenografia mondiale, l’Italia era uno dei pochissimi paesi che non ha presentato i suoi scenografi adducendo, come scusa, la mancanza di fondi (una decina di migliaia di euri)?
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Poi mi chiedo perchè le facoltà di medicina abbiano cliniche universitarie, quelle di scienze motorie abbiano palestre, quelle di ingegneria abbiano laboratori attrezzati ecc. e gli studi accademici sul teatro e sulla musica non abbiano dei teatri? Fabrizio Cruciani (Lo spazio del teatro, Editori Laterza, Roma-Bari, 1992) scriveva: «…in questa cultura lo spazio del teatro non può accettare di essere sala più o meno efficiente, più o meno umana, ma solo sala per spettacoli, per teatro-merce sempre più costoso. La committenza chiede però sale per spettacoli e gli architetti che le costruiscono fanno spazi per il teatro-merce o cattedrali nel deserto. E gli uomini di teatro fuggono dai teatri. Lo spazio del teatro, per essere vivo, deve avere proporzioni e memoria (sic! n.d.r). Se non è più il palazzo degli spettatori o il museo della cultura, può essere la “casa” degli attori (e di tutti coloro che il teatro lo “fanno”, n.d.r.). Un luogo abitato anche prima e dopo lo spettacolo, un luogo di lavoro in cui si ha interesse ad essere ospiti. Si può certo abitare in case costruite per altri o per altro (è quel che di solito viene fatto); si può anche costruire una casa in cui abitare come artisti e in cui ricevere ospiti. Qui lo spettatore che viene allo spettacolo “sente” lo spazio vissuto e “vede” quello spazio come elemento vivo e funzionale dello spettacolo stesso; qui lo spazio dello spettacolo crea la condizione del suo essere guardato, crea lo spettatore…». Gli fa eco Jean-Guy Lecat, Scenografo, per molti anni nella compagnia di Peter Brook: «…Ci sono tre pelli in un teatro. La prima è l’esterno, l’edificio nel contesto della città. La seconda pelle è il luogo di incontro, da una parte il pubblico e dall’altra degli attori, e comprende anche tutti i servizi, bar, ristoranti, toilettes. Per queste due parti gli architetti possono lavorare autonomamente. Ma la terza è lo spazio teatrale vero e proprio. Questo, la parte interna del teatro, non deve avere un legame artistico con le altre due, ma deve essere completato dalla gente di teatro in prima persona». Perchè allora ci si ostina a trovare fondi per il restauro o la costruzione di teatri per poi averne pochi o addirittura non averne per una seria programmazione e, invece, non si affidano queste strutture completamente a “persone di teatro” che fanno il “mestiere teatrale” o che lo stanno studiando?
Sicuramente cerco risposte: ma credo non ci siano risposte; credo che le domande galleggino in aria e restino come sospese…in attesa che qualcosa o qualcuno cambi. Certo è che non si deve più fingere che non esistano o che non si pongano affatto. Ce lo pongono e ci dicono che esistono tutte le generazioni di illusi che abbiamo costruito e formato e che non riescono a trovare, ed ormai disperano di trovare, quel “raggio di fiducia e di poesia, per loro indispensabile”, che abbiamo loro sottratto o quanto meno spento.