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2 Febbraio 2021

SCENOGRAFIA… quale? E soprattutto: perchè?

Filed under: Scenografia — admin @ 12:10

2008

Mi corre obbligo avvertire colui che avrà la pazienza di leggere: non sarò ossequioso; avrò dubbi e domande, soprattutto su me stesso, ma anche su altri…

Ho frequentato la scenografia (con la esse minuscola, come minuscola ormai appare la sua importanza), ho conosciuto grandi maestri e grandi mistificatori, ho frequentato i laboratori di pittura e realizzazione (detta con una certa sufficienza “scenotecnica”), ho frequentato grandi palcoscenici (e grandi “artisti” che vi lavoravano), ho frequentato piccoli palcoscenici (e “piccoli grandi artisti” che vi prestavano la loro opera), ho praticato la scuola (accademica) prima come studente e poi come docente, ho visto teatri di tutte le misure e specie, ho visto progettarli, restaurarli, trasformarli. Ho visto un po’ di tutto e un po’ di niente (costa molto in termini di tempo e di soldi, purtroppo, il vedere uno spettacolo o visitare un lontano teatro). Mi chiedo spesso a cosa sia servito tutto ciò, tranne la piccola trasmissione della mia esperienza agli studenti…

Cominciamo dalla inevitabile irritazione che ho dentro quando apro un giornale o una rivista (anche specializzata che parli di teatro…): non riesco più a capire cosa mi succeda (può essere decisamente l’età, ma a parte questa concreta possibilità…) e perché mi assalgano una serie di domande e di dubbi.

Ho imparato, studiando, lavorando e insegnando, ad apprezzare e diffondere concetti quali la bellezza, la coerenza, la storia, la cultura, la funzione e lo scopo delle cose, la semplicità, la chiarezza, la curiosità e l’onestà intellettuale, il coraggio innovativo, ma poi…?

  • Poi vedo articoli, scritti da giornalisti, critici, letterati in cui si parla di tutto, si favoleggia di spettacoli meravigliosi, si teorizzano e se ne estrapolano interpretazioni straordinarie, ci si pavoneggia citando elementi storici sconosciuti ai più, si fanno riferimenti coltissimi, ma poi…?

Quando si tratta di parlare di scenografia…il nulla o quasi.

Descrivere la parte visiva dello spettacolo è diventata ormai un inutile accessorio (spesso non si cita neppure lo scenografo o il costumista dello spettacolo!). Primo dubbio: non sarà forse perchè tutte le persone che scrivono, in questo ambito, hanno una preparazione straordinaria dal punto di vista storico, critico, metodologico, ma assolutamente nessuna dal punto di vista visivo, scenografico, compositivo (non uso volutamente l’aggettivo “artistico”)?

Sembra ci si dedichi principalmente e sempre più spesso ad omaggiare i cosiddetti “nomi sicuri”… Il vecchio scenografo, con evidenti ed indubitabili grandi capacità ed esperienza (divenuto anche regista e costumista naturalmente: prendi uno e paghi 3), garanzia di uno spettacolo elegante al limite del lezioso, pulito ma sempre più o meno ripetitivo, strapagato, potente ed onnivoro (10/15 spettacoli l’anno fra riprese e nuove, faraoniche produzioni); oppure il “vulcanico interprete della visualità operistica” (come è stato definito un esotico (ex) giovane che naturalmente firma regia scene e costumi…) soprannominato Attila: quando c’è lui in cartellone, dopo i suoi allestimenti non c’è più un soldo per i titoli restanti della stagione; oppure il regista oriundo, alla moda (regia, scene[quali?] e costumi…com’è logico e sempre per lo stesso motivo…) “uno dei più innovativi interpreti del teatro musicale di oggi” e guardo i suoi “bozzetti” sul quotidiano (una rarissima occasione): tre “segni” che avrebbero la pretesa di essere “artistici” ma che in realtà scimmiottano i vecchi schizzi di Le Corbusier; e poi la realizzazione: il contrapporsi di forme assolutamente incoerenti, inutili, gratuite (gabbie di ferro a più piani contrapposte ad estrusioni curvilinee da orrendo monumento anonimo degli anni ’60), inutilmente roboanti e gigantesche, fintamente essenziali (la vera essenzialità è altra cosa: ma è poi necessaria quando si ripropone un’opera ottocentesca?) degne del primo studentello incolto e confuso al primo anno d’Accademia. Tutto ciò viene descritto con le seguenti parole:«…appartiene a una generazione di uomini di teatro che ha elaborato in chiave poetica la sperimentazione, e quindi ha rinunciato alla provocazione fine a se stessa: non alla lettura analitica, sorgiva ma anticonvenzionale, del mondo espressivo che regge la scrittura operistica ottocentesca…». Capisco che manca il coraggio di “rischiare” un nuovo nome, di puntare su qualcuno che sta crescendo, in una parola, sul “futuro”…

  • Poi mi chiedo perchè se vedo, al primo anno d’Accademia, un lavoro simile, invito lo studente che lo propone a cambiare corso di studi… Ma se a questo (giustificatamente) ingenuo essere, capita di vedere cose simili a quelle da lui prodotte, su un quotidiano nazionale, con le lusinghiere didascalie che lo descrivono, cosa penserà del suo severo ed ipercritico Docente? Che è un aguzzino ed un incapace? Credo di sì…ed avrebbe ragione. E la coerenza formale, l’analisi storica, i criteri compositivi e funzionali, l’attenzione al rapporto costo-risultato ed altre amenità del genere? Perchè studiando e sperimentando progettazione si richiede tutto ciò? E che fine fanno poi questi criteri, che si ritengono basilari?

  • Poi mi chiedo quanto costi quell’allestimento, quante persone ci abbiano lavorato, chi abbia approvato quel progetto e sulla base di quali considerazioni estetiche, pratiche ed economiche, e mi chiedo anche (domande che dovrebbero obbligatoriamente farsi certi amministratori teatrali, sovrintendenti sorretti solo da forze…politiche e direttori artistici) se fosse possibile far di meglio e con minore spesa…E scorrono davanti ai miei occhi una infinita serie di progetti e disegni, esecutivi, modelli, fatti da molti bravissimi studenti di scenografia (sempre con la esse minuscola) che ora hanno finito i loro studi e stanno servendo birre in un bar o stanno, se sono fortunati, lavorando saltuariamente in qualche studio di grafica o di web-design…

  • Poi mi chiedo a che titolo un famoso dirigente teatrale, sempre dalle colonne dello stesso quotidiano asserisca:«…l’attuale ordinamento delle fondazioni lirico-sinfoniche (ed il cosiddetto spettacolo dal vivo n.d.r.) si sta rivelando incapace di salvare sia l’immagine sia lo sviluppo dell’offerta del prodotto culturale da parte dei nostri storici Teatri d’opera. In un clima di indebolimento dei consensi, aggravato da disposizioni legislative e regolamentari che hanno trasferito all’esterno una visione distorta sui costi artistici (legati al mercato internazionale) e sui costi del lavoro, lo stato di degrado e di tramonto non è stato ancora bloccato…I nostri Teatri d’opera non sono realtà astratte: sono costituiti da professionisti della musica, del canto, e della danza cui si accompagnano specialisti adibiti alle attività diverse di palcoscenico, dei laboratori e dei servizi che perseguono comuni finalità di particolare valore sociale e culturale…penso invece che sia compito della politica, verificare (?n.d.r.) lo sbocco professionale degli autori, interpreti ed esecutori (soltanto? n.d.r.) e dei diplomati dei Conservatori (e delle Accademie? n.d.r.), anche alla luce dell’evidente mancanza di politiche pubbliche rivolte al mondo delle arti (finalmente! n.d.r.) e dello spettacolo…Si appalesa che non stiamo dando a chi si getta nelle braccia dell’arte quel “raggio di fiducia e di poesia” che è per loro indispensabile…».

Se non erro questa persona è dirigente teatrale ai massimi livelli da circa (posso sbagliare, ma di poco) trentacinque anni: dov’è stato fin’ora e che tipo di politica teatrale ha avallato, se ha assistito, impassibile (o forse impotente o soltanto opportunisticamente silente?) allo “stato di degrado e di tramonto che non è stato ancora bloccato”; e da chi deve essere bloccato? E’ “visione distorta sui costi artistici” il continuo, diffuso ricorrere alle tristemente famose “agenzie” (un tempo proibite in Italia ed ora perfettamente legali…questa sì, decisione “politica”) che, lucrando succulente percentuali sui contratti artistici (cantanti, direttori, registi ecc., quasi mai scenografi…c’è poco da lucrare), applicano compensi raddoppiati rispetto all’estero? Perchè non comincia lui stesso a dare quel “raggio di fiducia e di poesia” indispensabile alle nuove generazioni?

E’ vero che molte di queste agenzie hanno sede all’estero e quindi gli emolumenti erogati dalle Fondazioni finiscono in una sorta di “buco nero” anche fiscale?

E’ vero che sono stati chiusi quasi tutti i laboratori di scenografia delle Fondazioni (con la scusante, fasulla, degli eccessivi costi del personale) affidando l’esecuzione degli allestimenti esclusivamente a ditte private con finte gare d’appalto già pilotate? E’ vero che così facendo si è prima trascurata e poi persa (anche le ditte private stanno man mano chiudendo) una vera e propria “sapienza della tradizione scenografica” che era quasi esclusiva degli ex Enti Lirici e dei Teatri di Tradizione, vero e proprio “baluardo” di quei “valori culturali” dei quali si lamenta il tramonto e la perdita? Perchè si ricorre sempre più spesso a frettolosi, spesso inutili quanto costosi corsi di formazione ed aggiornamento del personale (attingendo a fondi europei…) perchè sindacalmente si è puntato sulla quantità anzichè sulla qualità e la formazione? Non è forse “mancanza di politiche pubbliche rivolte al mondo delle arti” il fatto (grave e soltanto italiano) che Conservatori e Accademie non siano ancora facoltà universitaria ma soltanto una indecifrabile quanto equivoca “alta formazione” non bene identificata? Non è forse vero che ancora oggi ci si affida più volentieri (e spesso) ad architetti senza nessuna competenza teatrale e preparazione specifica, proprio perchè provvisti di una laurea, anzichè a scenografi giovani e preparati per allestimenti e progettazione teatrale, ma anche museale ed espositiva? Perchè, come tutti i lavori pubblici (o quasi) non si mette “a concorso” un’opera ed il suo allestimento (con la possibilità di scelta sia del progetto che del suo rapporto costo-qualità)? Perchè si investe in co-produzioni che fanno lo stesso spettacolo (sovente molto mediocre) a distanza di poche decine di chilometri e non si punta, invece, a “vendere” un buon prodotto (e competitivo) anche all’estero? E, a proposito di “estero”, premettendo che non ho niente contro gli stranieri, anzi, credo che una delle poche ancore di salvezza culturale sia proprio il nostro rapporto con l’Europa: ma perchè, sull’onda spesso di malintese novità artistiche, per l’opera si chiamano registi e scenografi stranieri (spesso strapagati) che nulla hanno a che fare con la tradizione operistica italiana (che non conoscono e sovente neppure amano…), la più parte delle volte producendo dei “fiaschi” di pubblico, di consenso ed economici? (apro un qualsiasi numero di una rivista specializzata e leggo il resoconto di uno spettacolo visto in uno dei più prestigiosi teatri italiani di tradizione, testualmente:«…Lo spettacolo, che si coproduce con…(teatro straniero), è davvero modesto. E’ modesto per le soluzioni figurative prive di suggestione. Con quei cubi, che fungono da accessi alla scena e assomigliano a tunnel di un metro in corso d’opera, le scene di…(inglese) non accendono la fantasia. E’ modesto per una stilizzazione che, invece di aggiungere, toglie fascino all’allestimento e lo rende anodino, che è ancor peggio di anonimo. Ci potresti ospitare tutte le opere di argomento marinaro o lambite dal mare, dall’Idomeneo al Billy Budd. La regia di…(anch’egli inglese) ha lasciato che i fatti seguissero il loro corso…ha lasciato i personaggi a loro stessi…A mandare fuori rotta questa singolare eroina (la protagonista, n.d.r.), hanno contribuito anche i costumi del già citato…(scenografo, n.d.r.): in talune scene … ha optato per un abito la cui foggia è più adatta ad una diva invitata ad un ricevimento che alla vereconda sposa di…. E’ un errore grave, da matita blu.» A questo teatro è stato assegnato un “contributo speciale” di sei milioni (6.000.000!) di euro..Qualcuno verifica che siano spesi bene, oppure questi “manager” sono sempre ed ancora impudentemente al loro posto?)

  • E poi chiedo (a me stesso ed al mio ruolo istituzionale) perchè l’insegnamento della scenografia, nel suo insieme, viene sottovalutato e trascurato dagli ordinamenti e persino dalla cultura ufficiale? Perchè i corsi superiori d’arte, in generale, e nel nostro caso di scenografia non sono corsi di laurea veri e propri? Non può essere anche un po’ (o tanto) per colpa nostra? (di noi docenti dico…). E’ vero che siamo aggiornati, curiosi, scrupolosi, attenti, rigorosi? O forse spesso viaggiamo sulle ali di una certo, sicuro tradizionalismo, sia didattico che progettuale e sperimentale, soffocando conseguentemente in schematismi alquanto rigidi e sorpassati ogni possibile novità e ricerca? E soprattutto perchè non scriviamo? Perchè non esistono testi di scenografia (tranne pochissime, sparute ed introvabili pubblicazioni ormai anche obsolete)? Perchè in qualsiasi campo della conoscenza, della scienza e del sapere una rivista specialistica rappresenterebbe un indispensabile strumento, un sicuro punto di riferimento, aggiornamento, confronto, mentre in Italia (contrariamente all’estero) si vendono pochissime copie dell’unica rivista, ad esempio, di scenografia? Perchè siamo (quasi) sempre assenti da confronti e simposi internazionali, da concorsi ed esposizioni continentali, da collaborazioni con organizzazioni culturali straniere? Siamo proprio sicuri che quando un nostro studente va a vedere (se ci va…) uno spettacolo contemporaneo, riconosca esattamente i principi, gli strumenti, le tipologie tecniche, quelle drammaturgiche ed espressive che sono elementi fondanti della nostra didattica? Oppure ammettiamo che possa avere un senso di disorientamento quando di giorno, a scuola, apprende concetti e nozioni che di sera, andando a teatro, vede trasfigurati ed alterati, se non abbandonati perchè desueti, a tal punto da non riconoscerli o non vederli più? E, ancora in campo internazionale, perché all’ultima quadriennale di Praga, forse una delle più mportanti rassegne di scenografia mondiale, l’Italia era uno dei pochissimi paesi che non ha presentato i suoi scenografi adducendo, come scusa, la mancanza di fondi (una decina di migliaia di euri)?

  • Poi mi chiedo perchè le facoltà di medicina abbiano cliniche universitarie, quelle di scienze motorie abbiano palestre, quelle di ingegneria abbiano laboratori attrezzati ecc. e gli studi accademici sul teatro e sulla musica non abbiano dei teatri? Fabrizio Cruciani (Lo spazio del teatro, Editori Laterza, Roma-Bari, 1992) scriveva: «…in questa cultura lo spazio del teatro non può accettare di essere sala più o meno efficiente, più o meno umana, ma solo sala per spettacoli, per teatro-merce sempre più costoso. La committenza chiede però sale per spettacoli e gli architetti che le costruiscono fanno spazi per il teatro-merce o cattedrali nel deserto. E gli uomini di teatro fuggono dai teatri. Lo spazio del teatro, per essere vivo, deve avere proporzioni e memoria (sic! n.d.r). Se non è più il palazzo degli spettatori o il museo della cultura, può essere la “casa” degli attori (e di tutti coloro che il teatro lo “fanno”, n.d.r.). Un luogo abitato anche prima e dopo lo spettacolo, un luogo di lavoro in cui si ha interesse ad essere ospiti. Si può certo abitare in case costruite per altri o per altro (è quel che di solito viene fatto); si può anche costruire una casa in cui abitare come artisti e in cui ricevere ospiti. Qui lo spettatore che viene allo spettacolo “sente” lo spazio vissuto e “vede” quello spazio come elemento vivo e funzionale dello spettacolo stesso; qui lo spazio dello spettacolo crea la condizione del suo essere guardato, crea lo spettatore…». Gli fa eco Jean-Guy Lecat, Scenografo, per molti anni nella compagnia di Peter Brook: «…Ci sono tre pelli in un teatro. La prima è l’esterno, l’edificio nel contesto della città. La seconda pelle è il luogo di incontro, da una parte il pubblico e dall’altra degli attori, e comprende anche tutti i servizi, bar, ristoranti, toilettes. Per queste due parti gli architetti possono lavorare autonomamente. Ma la terza è lo spazio teatrale vero e proprio. Questo, la parte interna del teatro, non deve avere un legame artistico con le altre due, ma deve essere completato dalla gente di teatro in prima persona». Perchè allora ci si ostina a trovare fondi per il restauro o la costruzione di teatri per poi averne pochi o addirittura non averne per una seria programmazione e, invece, non si affidano queste strutture completamente a “persone di teatro” che fanno il “mestiere teatrale” o che lo stanno studiando?

Sicuramente cerco risposte: ma credo non ci siano risposte; credo che le domande galleggino in aria e restino come sospese…in attesa che qualcosa o qualcuno cambi. Certo è che non si deve più fingere che non esistano o che non si pongano affatto. Ce lo pongono e ci dicono che esistono tutte le generazioni di illusi che abbiamo costruito e formato e che non riescono a trovare, ed ormai disperano di trovare, quel “raggio di fiducia e di poesia, per loro indispensabile”, che abbiamo loro sottratto o quanto meno spento.

29 Gennaio 2021

A 25 anni dal rogo

Filed under: Teatro — admin @ 16:32

Appunti sul Teatro La Fenice

Come nel melodramma, l’ultimo atto di questo teatro è stata la sua distruzione, il suo incendio; questo finale, come nell’opera, ha suscitato profonda commozione ed una sentita partecipazione al dolore della città innanzitutto, ma del mondo intero, come si ha ampia testimonianza. L’angoscia ed il senso d’impotenza di fronte al tremendo spettacolo delle fiamme, hanno emotivamente portato all’imperativo che, alimentato dai media, è diventato la parola d’ordine per tutti e per tutte le occasioni: dov’era e com’era.

Com’era

L’immaginazione e la memoria soprattutto, nel ricordare com’era, si fanno sempre più confuse, con l’andare del tempo. Il foyer e l’ingresso sono lucidi, illuminati, rosati; ma entrando in platea, si ha la sensazione di entrare in un ambiente sordo, compresso, dorato, ma di un oro cupo, opaco; anche il lieve e sfumato azzurrino della volta della sala sembra come annerito; il rosa antico dei velluti contrasta con il verde scurissimo del sipario sul quale spiccano gli ori, questa volta luminosi, delle passamanerie e dei fiori, in parte ricamati ed in parte di cuoio stampato. Solo il golfo mistico emana una strana luce quasi abbagliante. Questo il probabile ricordo dello spettatore.

Ma dietro gli ori, i velluti, i legni lucidati e gli stucchi, i ricordi rimandano alla paglia e al gesso, alla cartapesta, al legno sfibrato ed ingrigito, alla polvere. Il “dietro le quinte” è un vero, autentico dietro le quinte: tralicci, staffe, sostegni, passaggi angusti, bui, spazi difficili, complessi, articolati, asimmetrici, scale ripide e consunte, scricchiolii…

La sala era essa stessa una scenografia (anche perché, in origine, a progettarne le decorazioni era stato uno scenografo, com’era in uso in quel periodo, Francesco Fontanesi, che realizzerà le scene per I giuochi d’Agrigento, prima opera rappresentata nel nuovo teatro). Scenografia nella sala, scenografia in palcoscenico: un tutt’uno. Ma che cosa è il vero, la realtà, il reale e che cosa è il falso, la simulazione, il finto, l’evocato? L’ambiguità è parte determinante nel gioco teatrale e soprattutto scenografico: in palcoscenico esiste un mondo fatto di realtà ed illusione, decorazioni ed intelaiature, sculture e meccanismi idraulici, architetture effimere ed argani elettrici, evanescenti velari e potentissimi proiettori.

E quale valore quindi possiamo attribuire a tutta una serie di considerazioni su un’eventuale Fenice il più possibile “vera” contro una “falsa, finta” alla luce del fatto che queste prerogative sono alla base della scenografia e del teatro più in generale? Questi e molti altri temi avrebbero potuto essere materia di confronto e di prolifica discussione, ma questa è mancata, è stata sepolta dalla fretta con le macerie, soffocata quasi dallo slogan dov’era e com’era.

La sala, assieme al foyer, probabilmente rappresenta, nell’immaginario collettivo, la parte del teatro che più si vorrebbe fedele nella ricostruzione. Subito dopo l’incendio, su quest’argomento, si sentiva pontificare che la parte riguardante il palcoscenico si sarebbe potuta cambiare anche radicalmente, innovare tecnicamente per farne un teatro “moderno”, ma per quanto riguardava la sala si diventava inflessibili, intransigenti: esattamente com’era! Ma a tale proposito si dovrebbero fare alcune riflessioni, parte dovute ad un cambiamento sociale e di costume – anche se la più parte degli spettatori di teatro d’opera sono legati sicuramente ad una giusta dose di tradizione, compresa quella più o meno dichiaratamente “mondana” – e parte dovute a motivazioni squisitamente tecniche e funzionali. C’è da chiedersi innanzitutto se abbiano ancora una qualche validità strutture quali i palchetti separati ad alveare ad una parte dei quali si era già rinunciato a metà ‘800 (con la trasformazione del penultimo ordine in galleria e cioè senza divisioni data la gran popolarità che aveva assunto il melodramma in quel periodo); ma soprattutto a cosa potrebbe servire il palco reale, visto che della dominazione francese ed austriaca, che l’avevano imposto, oggi non c’è più traccia? L’uso di questi angusti, piccoli vani di legno era, in passato, legato alla proprietà o all’affitto da parte di nuclei omogenei, spesso familiari, di spettatori che aspiravano ad una certa privacy da una parte, e dal diffuso gusto, dall’altra, di esibire un’immagine il più possibile ufficiale ed adeguata al censo d’appartenenza del gruppo. Dato che spesso, all’epoca, dell’opera vera e propria non ci si curava più di tanto se non nei brani più noti e particolarmente interessanti e comunque dentro queste piccole celle l’acustica non poteva che essere approssimativa soprattutto nella parte di fondo, sarebbe probabilmente il caso di approfittare della ricostruzione per studiarne forse una sistemazione migliore soprattutto sotto i profili visivo ed acustico. La prerogativa più interessante del teatro scomparso era rappresentata dalla relativamente scarsa profondità della sala. L’impatto visivo con il quadro scenico era, quindi, diretto, immediato, con giusti rapporti di vicinanza e quindi di partecipazione dato che un’eccessiva distanza da esso ci porta sensibilmente in una dimensione meno teatrale e più cinematografica se non addirittura televisiva e quindi più distaccata. L’occhio scorreva come dentro un avvenimento e lo sguardo scandagliava ed indagava senza abbracciare la totalità della rappresentazione. Il punto del principe ovvero il punto della platea dal quale partono i raggi visuali, quei raggi che servono alla progettazione ed alla restituzione di una scena e a creare quindi quei metri prospettici che stanno alla base di una corretta realizzazione delle scenografie, era situato nella seconda metà della platea, più verso il fondo e, essendo solitamente calcolato ad una distanza di circa una volta e mezza l’ampiezza del boccascena, assicurava un angolazione visuale del boccascena di circa 40°, perfetta anche dal punto di vista prospettico fin quasi a fondo sala. L’unico problema, dal punto di vista visivo, era costituito da un’eccessiva vicinanza dei primi posti, soprattutto quelli relativi alle barcacce o palchetti di proscenio (si affacciavano sul golfo mistico), che costringevano spesso i tecnici a complicate manovre di “copertura” e di traguardo per evitare i cosiddetti “sforamenti” ossia parti di strutture di palcoscenico che non è conveniente vedere. La leggera inclinazione (5%) della platea, pari a quella del palcoscenico, ma di opposto orientamento, permetteva una buona visibilità, ma l’odierno indirizzo della maggior parte dei teatri europei contemporanei (a partire da quello wagneriano di Bayreuth) è quello di lasciare il palcoscenico in piano, inclinando maggiormente, con gradoni, la linea dei posti di platea. Vi erano poi, sicuramente, altre cose che infastidivano nella sala come, ad esempio, la mancanza di una saletta di regia che costringeva al sacrificio di uno o due palchetti, in posizione centrale, per i tecnici ed il maestro addetto agli effetti di luce, i quali spesso disturbavano l’ascolto e l’attenzione degli spettatori prossimi alla postazione. Anche l’uso di apparecchiature illuminanti e tecniche dalla sala obbligavano a sovrapporre ai “preziosi” stucchi ed alle eleganti decorazioni delle orribili staffe di aggancio dei proiettori che rimanevano, così, poco elegantemente a vista, quasi da perenne teatro brechtiano. Altro antiestetico problema era rappresentato spesso dalle sottotitolazioni per la traduzione simultanea di opere in lingua straniera che vedevano l’abbinamento di storici e sinuosi panneggi a ridicoli schermi sostenuti da altrettanto ridicoli cordini a vista. Nell’ultima parte della sala, prima del fronte del palcoscenico era situata la fossa d’orchestra o golfo mistico, come la definì Wagner. Dal punto di vista funzionale, aveva una buona rispondenza acustica ed un buon rapporto con la sala, considerato anche il poco spazio a disposizione. Spesso, però, era insufficiente per organici particolari essendo fissa dal punto di vista dimensionale, quindi non ampliabile, ma, essendo stata concepita unicamente con prerogative funzionali unicamente per il teatro d’opera, diventava di difficile gestione quando qualche grande concerto prevedeva orchestra e coro in palcoscenico, oppure qualche scelta registica o iniziative particolari quali presentazioni, premi o convegni, costringevano ad operazioni di parziale o totale sua copertura e praticabilità. Queste operazioni, che richiedevano il trasporto ed il montaggio di una complessa struttura portante di riempimento per la costruzione di un piano di calpestio che si prolungasse oltre il proscenio, richiedevano una notevole disponibilità di personale e di tempo, condizioni che spesso non sussistevano. Un’adeguata modularità di quote e di dimensioni di un sistema di pedane mobili che consentissero di raggiungere il livello del palcoscenico, oltre ad evitare costi e tempi sicuramente sconvenienti, avrebbero migliorato anche la sistemazione in altezza degli strumenti in seno all’orchestra stessa, creando dislivelli funzionali dal punto di vista musicale, ma soprattutto avrebbero favorito enormemente tutta la movimentazione, il trasporto, il sollevamento e la sistemazione degli strumenti e dei loro relativi, ingombranti imballaggi per il trasporto, il cui volume è decisamente notevole, facilitando così la programmazione di qualche concerto anche all’ultimo momento, come molto spesso avviene. Sulla frattura fra pubblico e palcoscenico, la cui cerniera dovrebbe essere rappresentata dalla fossa d’orchestra, si è dibattuto per più di un secolo. Il desiderio di molti registi ma anche di molti autori, drammaturghi e quindi anche molti scenografi, si orienta sempre più spesso verso l’abolizione di questa frattura, in favore di uno spazio scenico sempre meno convenzionale e sempre più di diretto contatto fra spettacolo e spettatori. Di questo si deve sicuramente tenere conto e quindi ogni soluzione che permetta la fusione o favorisca l’avvicinamento fra queste due entità deve essere valutata approfonditamente. Un teatro che sia congeniale ad un solo tipo di spettacolo o addirittura obbedisca unicamente ad una concezione spaziale rigidamente “storica” o solamente tradizionale, e non favorisca lo sviluppo di nuove forme drammaturgiche, scenografiche o registiche, non è un buon teatro. Basti pensare al teatro progettato da Semper e Brükwald per Wagner: è stata soprattutto la sua particolarissima concezione di teatro, la guida alla progettazione di quello che diventerà uno dei modelli più aggiornati di teatro musicale e di edificio teatrale in senso stretto ed al quale ancora oggi guardiamo come punto di riferimento. Il palcoscenico Il palcoscenico della Fenice, come la gran parte dei teatri all’italiana, non aveva dimensioni notevoli. Era proporzionato alla sala, ma non aveva una grande profondità: soli 18 metri dalla linea del sipario; si prolungava, poi, nel proscenio di altri 3 metri circa nella parte più sporgente della curva sopra l’orchestra dov’era inserita la fossa del maestro suggeritore. Appena all’interno dell’arco scenico in muratura, erano alloggiati il sipario metallico (o tagliafuoco), il sipario storico, il sipario principale di velluto, ed un tiro per siparietti o velatini di boccascena. Il vecchio sipario metallico, al momento dell’incendio, era da poco tempo stato sostituito con una struttura nuova, con caratteristiche di tenuta al fuoco decisamente superiore a quello precedente ormai arrugginito e cigolante. Anche il sipario storico, opera di Ermolao Paoletti risalente al 1878 e raffigurante l’arrivo a Venezia di Olderico Giustiniani recante l’annuncio della vittoria di Lepanto, era stato restaurato da poco tempo come pure il sipario principale di velluto ed il vecchio sistema di movimentazione con tiro a botte che era stato sostituito da un più aggiornato sistema elettromeccanico di apertura e chiusura all’italiana. Subito dopo la linea dei sipari si trovava il boccascena mobile, anch’esso di recente costruzione. La vecchia struttura era costituita da due torri mobili, a sistema reticolare metallico, che, con un movimento verso il centro, permettevano di diminuire o aumentare la larghezza del boccascena, ideale piano di proiezione degli elementi costituenti la scena ed ideale collocazione, quindi, di ogni bozzetto o progetto scenografico. Tale sistema era completato da una passerella fissa, anch’essa metallica e praticabile, che consentiva l’agganciamento ad essa di proiettori e riflettori, principale risorsa illuminotecnica di palcoscenico. Il tutto era rivestito, nella parte verso il pubblico, di velluto nero e costituiva una vera e propria cornice nera che lasciava un’apertura di metri 12.80 per un’altezza di 8, quasi un perfetto multiplo di un fotogramma (36X24) e quindi di buona proporzione 3:2. Il nuovo sistema invece, prevedeva due torri analoghe alle prime, ma fisse, mentre la passerella scorreva verso il basso fino a raggiungere il palcoscenico, operazione che facilitava enormemente le operazioni di carico e scarico del pesante materiale illuminotecnico usato. Sul lato destro, guardando la scena ed oltre la torre, trovava posto la cabina del direttore di scena, vero coordinatore dello spettacolo dietro le quinte, alla quale faceva anche capo il sistema di comunicazione con tutti i camerini di artisti, coro, comparse e tecnici per le chiamate in scena. Su quello sinistro, un’analoga cabina, sollevata da terra di circa tre metri, ospitava invece i tecnici ed il sistema computerizzato di controllo delle luci. Poche decine di centimetri dopo la linea delle torri di boccascena, erano situate le tre zone affiancate di metri 5X1 nelle quali si potevano ricavare delle botole, ovvero dei passaggi dal sottopalco, in realtà un corridoio di comunicazione fra uffici ed ingresso, ma unica zona che consentiva apparizioni ed ingressi dal basso, dato che, un metro dopo, verso il fondo, aveva inizio il complicato sistema di ponti mobili meccanici, che non consentiva tale operazione. Questo sistema, risalente ai lavori di ristrutturazione del 1936, era analogo a quello del Teatro alla Scala di Milano ed era costituito da quattro ponti paralleli al boccascena di metri 14X2 intervallati da altri quattro di metri 14X0.50 detti portarive; il tutto occupava quindi, in palcoscenico, un’area di metri 14X10 di profondità. I ponti più grandi erano divisi, a loro volta, in 14 pedane di metri 1X2 le cui quote erano variabili manualmente. Tutto il sistema di ponti, dal piano di palcoscenico, poteva essere abbassato di metri 1.50 per quote multiple di cm. 15 ed innalzato, con gli stessi incrementi, di metri 2.40 per mezzo di enormi pistoni idraulici situati in palcoscenico che negli anni avevano perso pressione e potenza non rendendo più accessibili le quote originarie. Tali ponti, modernissimi nel 1936 ma ormai sorpassati dalle contemporanee tecnologie, presentavano il grave difetto, oltre all’esasperante lentezza di movimento, costituito dall’operazione di bloccaggio del ponte alla quota prevista, operazione sottolineata da un sorpasso della quota prevista ed un secondo spostamento, poi, di breve discesa per assestamento dopo il fermo, rendendo ballonzolante ed antiestetico tutto il movimento. Le strutture di ferro che costituivano la parte portante dei ponti stessi ingombravano completamente tutta l’area a loro disposizione e quindi, considerando il fatto che non sprofondavano per più di m. 1.50, risultava chiara l’assoluta inservibilità del sottopalco per tutte quelle operazioni teatrali che comportavano accesso e praticabilità di questo spazio come discese, apparizioni, sprofondi, trabocchetti ed altro. Oltre l’ultimo ponte ancora quattro metri e poi il muro di fondo… La scarsa profondità di questo palcoscenico costringeva spesso a rinunciare ad una risorsa tecnica importantissima dal punto di vista scenografico: le retroproiezioni. Si è tentato di usare questa prezioso mezzo tecnico ricorrendo a complicate manovre, ma ottenendo risultati mediocri e comunque con notevoli aberrazioni; per un teatro più funzionale ed attuale risulterebbe necessario avere una buona profondità ottenibile anche con l’uso promiscuo di spazi di servizio o stivaggio per i cambi di scena, ma la particolarissima conformazione urbanistica di Venezia ha sempre vietato qualsiasi operazione di sconfinamento dell’area del palcoscenico. Tutto ciò era aggravato enormemente anche dall’esiguità degli spazi laterali del palcoscenico. Lo spazio a sinistra, per chi guarda il palcoscenico, si estendeva per soli quattro metri oltre l’area dei ponti e le poche decine di decimetri prima del muro perimetrale erano state occupate dai grandi pistoni per la movimentazione dei ponti. Sulla destra, poco più di sei metri distanziavano le pedane mobili dalle tre arcate ad ogiva che reggevano la parete laterale. Era impossibile, quindi, qualsiasi tipo d’importante movimento scenografico simmetrico, esigenza fra le più frequenti nel teatro d’opera. La stessa ampiezza delle luci delle tre arcate – m. 3.50, 3.20, 2 – era notevolmente insufficiente per lo stivaggio temporaneo di grosse costruzioni scenografiche costringendo a sezionare tali elementi in maniera esagerata. Oltre le tre arcate, si trovavano gli unici due spazi utilizzabili per il magazzinaggio temporaneo delle scene e delle attrezzature, che in un’opera sono molto ingombranti. Questi due spazi, attigui, uno di forma triangolare e l’altro quadrata, occupavano un’area di circa 200 mq., assolutamente minima se si pensa che in uno spettacolo medio ci sono costruzioni per 5/600 mq. Succedeva molto spesso che, verso la fine delle repliche di un’opera che naturalmente ingombrava enormemente tutti gli spazi utilizzabili, le scene della successiva cominciassero ad arrivare, creando così notevoli disagi. La soffitta La risorsa principale, dal punto di vista scenografico, risultava quindi essere la soffitta, che comprendeva tutta l’area del palcoscenico. Era interamente in legno ed era stata ristrutturata anch’essa nei lavori del ’36, quando era stata sdoppiata ed innalzata di ben otto metri rispetto alla precedente, raggiungendo un’altezza media, rispetto al piano di palcoscenico, di 24 metri, misura quasi ideale per un boccascena alto 8, con un rapporto ottimale di 1:3. In essa trovavano posto 37 tiri fissi, manovrati dal 1° dei tre ballatoi, con possibilità di contrappeso oltre all’ultimo che era elettrico ed era relativo alla centina che sosteneva il panorama, l’ultimo fondale che spesso rappresenta il cielo nelle scene di esterno. Ogni tiro, costituito da una struttura reticolare in tubolare di ferro alta 30/40 cm. circa e lunga 18 metri chiamata stangone sorretta da 5 o 7 cordini di acciaio, poteva sopportare un peso di 600 kg. circa. Nella soffitta trovavano poi posto quattro argani a catena da 1500 kg. l’uno, con gabbia spostabile in qualsiasi punto della graticciata ed un argano centrale di 5000 kg, scorrevole su una rotaia fissa d’acciaio che evitava così di gravare sulla struttura lignea. La scarsità degli spazi, alla Fenice, costringeva molto spesso ad un uso intensivo della soffitta, oberata com’era anche da una presenza, peraltro indispensabile, di apparecchi illuminotecnici spesso pesanti ed ingombranti, ma in qualche caso, soprattutto quando il teatro ospitava spettacoli che venivano da altri teatri contemporanei, in maggioranza tedeschi e inglesi, che presupponevano grossi carichi per la soffitta, era indispensabile qualche verifica di carico. Si deve sottolineare il fatto, a proposito di quest’esempio, che la tecnica costruttiva scenografica, negli altri paesi europei, non abbia assimilato tutte quelle prerogative di “leggerezza” tipiche della scenotecnica tradizionale italiana, per cui, a parità di ingombri, una scena costruita in un laboratorio italiano pesa comunque almeno la metà delle analoghe europee. Sulla parete di fondo, ma fuori del palcoscenico sulla destra oltre le arcate, si apriva direttamente sul Rio menuo o de la Verona, la porta d’accesso per i materiali e le scene che dovevano essere issati in palcoscenico – la porta era a 4 metri circa dall’acqua – per mezzo di un argano scorrevole dall’interno all’esterno. Essendo il rio molto stretto in quel punto – non più di 3 metri – ed essendo molti elementi scenografici lunghi spesso 7/8 metri, le operazioni di carico e scarico risultavano spesso complicate anche se la porta aveva un’apertura di 2 metri per un’altezza di tre ed il muro della casa prospiciente portava evidenti segni e “ricordi” di costruzioni che passavano a fatica. La porta carraia si apriva su uno dei due spazi accessori e più precisamente quello a forma triangolare, sul quale si affacciavano anche le scale d’accesso agli spogliatoi del personale tecnico e le scale di tutti i camerini e cameroni di solisti, coro, comparse, ballerini: gli ingressi, soprattutto per quanto riguardava coro e comparse, erano quindi quasi sempre da destra, limitando enormemente soprattutto regia e scene. Se la scenografia non si sviluppava molto in profondità e non c’erano grossi ingombri ricoverati sul fondo, si poteva recuperare qualche passaggio nascosto per entrare dalla sinistra, ma nelle scene che si prolungavano verso la parte finale del palcoscenico e che addirittura prevedevano un panorama trasparente di cielo retroilluminato, gli ingressi da sinistra erano quasi impossibili. La Fenice era anche uno dei pochi ultimi teatri che ospitavano al loro interno e quindi nell’edificio teatrale vero e proprio un atelier scenografico operante, ricavato nel sottotetto relativo alla zona intermedia fra le sale apollinee e la sala, nel quale si effettuava, data l’esiguità degli accessi, la sola pittura su tela, che poteva così essere piegata e trasportata facilmente. Questo spazio, di notevoli dimensioni (metri 21X17), aveva rappresentato, in epoche in cui la pittura di scena era la principale risorsa scenografica, il punto nodale della produzione teatrale per più di un secolo e mezzo ed aveva visto alternarsi generazioni di scenografi di scuole ed epoche diverse. Sul salone, impreziosito da un bellissimo sistema di copertura a travi reticolari, si affacciavano sei grandi aperture semicircolari che assicuravano così un’ottima illuminazione. Col declino progressivo dell’uso della pittura di scena, l’organico dei pittori era stato drasticamente ridimensionato e questo incantevole spazio era così diventato oggetto di notevole attenzione da parte di altri settori produttivi del teatro. L’incendio ha favorito ed accelerato tale processo ed è quindi probabile che, con la ricostruzione, la destinazione di questo storico ambiente sarà, dopo 160 anni, tutt’altra… Aspetti della produzione teatrale …l’opera è un sogno in musica a occhi aperti, un sogno che si vuole rappresentare nel modo più concreto e più persuasivo possibile…per questo, nell’opera, la scenografia non svolge un ruolo accessorio, bensì indispensabile…Per svolgere appieno la sua funzione, la scenografia deve: essere onirica; interagire con la materia del sogno, e dunque essere mobile; persuadere per quanto possibile lo spettatore che quello che sta vedendo sulla scena è reale. Gérard Fontaine in “Sogno e delirio”, catalogo e titolo della mostra tenutasi a Roma all’Accademia di Francia sulle scenografie d’opera della Bibliothéque nationale de France nel 1998. Il magico spettacolo che noi, spettatori, assaporiamo, al di là d’ogni facile retorica, nasconde in realtà una ferrea organizzazione del lavoro, un’ottimizzazione ed un coordinamento degli interventi di carattere specialistico, tecnico ed artistico rigorosi, il coinvolgimento di strutture, attrezzature e tecnologie il più economiche, adeguate ed aggiornate possibili in rapporto al risultato previsto per lo spettacolo. L’importanza di una buona programmazione preventiva pluriennale, cosa peraltro difficile da realizzare a causa della endemica instabilità della durata di cariche quali Sovrintendente e Direttore Artistico, stabilita da strutture politico – artistico – amministrative, è presupposto indispensabile per la nascita di stagioni teatrali, concertistiche e di danza di buon livello, come anche per una più efficace politica di contenimento dei costi, due necessità di grande attualità soprattutto in questo periodo. Varie tipologie di spettacolo possono succedersi in una stagione teatrale ben programmata: opere, balletti, concerti con grandi o piccoli organici, conferenze, presentazioni, mostre, recitals, ed altre, nuove, potrebbero essere ospitate qualora il teatro fosse concepito in maniera meno convenzionale (rigida divisione fra palcoscenico e platea), per ognuna delle quali si richiedono esigenze di rappresentazione diverse. Ma l’attività che richiede lo sforzo organizzativo ed artistico più elevato è sicuramente lo spettacolo lirico. Ad esso concorrono i più numerosi e diversificati campi di competenza e di produzione. L’ideazione di uno spettacolo, la progettazione della sua scenografia e della sua regia, l’interpretazione visiva e musicale, il cast artistico e gli organici tecnico – musicali, da uno stadio di pura, poetica teoria, debbono man mano concretizzarsi fino a diventare materia di programmazione economica prima, e vero e proprio spettacolo poi. Il montaggio di uno spettacolo presuppone la preparazione, in sedi separate per mesi, di tutte le sue componenti che confluiranno in palcoscenico per le ultime prove d’assieme e per gli spettacoli; la parte musicale riguarderà l’orchestra, il suo direttore, gli archivisti musicali per le partiture, gli addetti alla logistica ed al trasporto strumenti, i maestri sostituti e suggeritori di palcoscenico, il coro, il corpo di ballo (qualora ci fosse), i cantanti solisti, le seconde parti. Ogni gruppo ed ogni singolo preparerà l’opera separatamente in tempi diversi; la parte visiva vedrà al lavoro il regista, i suoi assistenti, lo scenografo bozzettista, i realizzatori, i falegnami, i pittori, i fabbri, gli attrezzisti, il costumista, le sarte, i laboratori, il calzolaio, i parrucchieri e truccatori, il datore luci o light designer, gli elettricisti, i fonici, i trasportatori. Tutto questo sarà coordinato da altre figure e da altri settori quali gli uffici amministrativi e del personale per la parte amministrativa, dal direttore artistico per quella di coordinamento artistico, dalla direzione degli allestimenti scenici e tecnici, dalla direzione di produzione per gli orari e le normative sindacali, dalla direzione di palcoscenico, dall’ufficio regia per la parte comparse e figuranti ecc.

Come si può ben constatare solamente dalla pura elencazione delle maggiori, ma già numerose, componenti lo spettacolo, con le loro particolari competenze e le loro esigenze di natura spesso completamente diversa, dovranno convergere in un unico ”mondo artistico” e nella sua essenza interpretativa: il “sapere teatrale” di ogni specialità, con poche prove ed in tempi brevissimi, diventerà un unico, fluido spettacolo ed il suo valore artistico ed il suo successo saranno determinati proprio dalla collettività dei saperi e delle capacità nella produzione artistica.

Spesso tutto questo risulta di difficile, o comunque faticosa, attuazione. Due componenti essenziali spesso entrano in conflitto: da una parte esigenze e valutazioni di carattere artistico – estetico, tradizioni teatrali, il contenuto poetico dello spettacolo; dall’altra tutti gli aspetti legati a normative, problematiche e regolamentazioni generali, tipiche del mondo produttivo contemporaneo che tendono a “standardizzare” ed a generalizzare il più possibile, ma che mal si adattano ad esigenze ed imprevisti di natura continuamente diversa come assai spesso succede in teatro. Orari di lavoro, rivendicazioni di categoria, conflitti di competenze, lavoro straordinario, costi eccessivi, organizzazione del lavoro, delle risorse e soprattutto degli spazi, dovrebbero permettere ad ognuna delle categorie sopraelencate di preparare uno spettacolo con la serenità, i mezzi, la sicurezza, i tempi e la concentrazione necessari, cosa di difficilissima attuazione, soprattutto in situazioni logistiche particolari com’era nel caso della Fenice. Ogni carenza di carattere principalmente spaziale, ma anche di carattere tecnico – funzionale, data l’età del teatro e delle sue strutture, spesso esasperava orari e prestazioni soprattutto sotto l’aspetto qualitativo, cosa che in un teatro contemporaneo potrebbe essere evitata o quantomeno ridotta al minimo.

Tradizione e nuove tecnologie

Parigi 27 Aprile 1968. Peter Brook, direttore della Royal Shakespeare Company dichiara: “C’è una cosa che mi ha sempre stupito: nulla al mondo evolve con tanta lentezza quanto il teatro”. ”Il problema meno risolto a teatro è quello del luogo, vale a dire il contatto tra attore e pubblico. Ma mancano a tutt’oggi gli edifici teatrali che a questo problema offrano una soluzione concreta e immediatamente attuabile e concedano al regista la massima libertà di mezzi per la creazione dello spazio necessario ad ogni suo spettacolo, che può anche essere il quadro scenico tradizionale ma deve poter essere tante altre cose”.

Nella progettazione di un teatro, purtroppo la letteratura non è di grande aiuto, dato che, soprattutto per quanto riguarda il palcoscenico, non è stato scritto molto in epoca contemporanea; gli “addetti ai lavori” e cioè gli scenografi, soprattutto italiani, hanno sempre pensato esclusivamente al contenuto e poco al contenitore, adattandosi sempre, più o meno di buon grado, a strutture esistenti anche se carenti o addirittura fatiscenti, e, senza un effettivo coinvolgimento in nuovi progetti, non hanno mai fornito il loro prezioso contributo analitico e critico ad un effettivo rinnovamento dell’intera macchina teatrale o quantomeno al suo adeguamento alla realtà contemporanea.

E’ altrettanto vero che lo studio della scenografia e della scenotecnica in Italia è di pertinenza quasi esclusiva delle Accademie di Belle Arti, un ambiente quindi rivolto principalmente alle arti figurative, ma il cui ordinamento risulta ormai obsoleto ed anacronistico ed il cui rapporto con l’architettura in generale risulta spesso troppo marginale, mentre, per contro, le facoltà di architettura sovente relegano tali studi ad un ruolo subalterno e poco significativo. Il risultato è che delle discipline teatrali relative alla prassi di palcoscenico, quindi non d’indirizzo storico, non resta traccia alcuna ed alcuna documentazione.

La figura che ha rappresentato una delle poche, autorevoli eccezioni è Luciano Damiani, uno fra i più riconosciuti scenografi italiani del dopoguerra, il quale, stimolato dal ruolo affidatogli di consulente tecnico – artistico per la progettazione e ristrutturazione di vari teatri, ha, in diverse occasioni, formulato una serie di pensieri ed osservazioni nati dalla sua particolare e vastissima esperienza scenografica, ma che rappresentano lo spettro più ampio delle esigenze e delle necessità per una libera e corretta messa in scena contemporanea.

Damiani sostiene che: costruire un Teatro d’opera oggi significa utilizzare ancora il vec­chio schema del Teatro tradizionale, sia perché è il più diffuso in Europa, sia perché ad esso è connaturata gran parte del repertorio classico e contemporaneo. Gli spettacoli e le messinscene che esigono il riquadro del prospetto scenico giustificano ampiamente l’utilizza­zione di questo schema. Tuttavia non si possono ignorare le espe­rienze maturate in seno al Teatro d’opera negli ultimi anni. Espe­rienze che hanno certo confermato la validità del vecchio schema: ma si devono considerare anche i problemi e le difficoltà che si sono venuti a creare col tramonto di certe mode e con l’affermarsi dell’in­novazione. Le nuove richieste registiche e scenografiche tengono conto delle esperienze del Teatro tradizionale e di quanto si è ritenuto valido nelle moderne innovazioni tecniche del recente passato, ma consi­derano lo spazio scenico tradizionale non solo come un luogo da arredare, ma come un volume da organizzare. Perciò occorre che lo strumento Teatro diventi flessibile, che la meccanizzazione tenga conto delle esigenze attuali e lasci al regista e allo scenografo maggior libertà nello svolgimento e nella realizzazione delle loro intenzioni artistiche.

La “macchina” e lo spazio teatrale debbono essere, dunque, il più possibile “flessibili”. Deve consentire ai musicisti, ai maestri tutti, al direttore, ai cantanti una buona sistemazione, un’ottima visibilità ed una gradevole diffusione acustica; deve consentire ai protagonisti di potersi concentrare sull’interpretazione scenica e musicale senza problemi di sicurezza e di libero movimento; a tutto il personale di palcoscenico di operare in condizioni ottimali, con l’ausilio di soluzioni che evitino inutili fatiche, per cambi di scena che risparmino al pubblico tempi d’attesa insostenibili, ma che nello stesso tempo permettano allo spettacolo di non avere sussulti, intoppi, rumori, strane pause o rallentamenti di sorta e cioè che il racconto dello spettacolo risulti fluido, scorrevole.

In un tipo di teatro in cui la musica diventa elemento principale, la fossa d’orchestra e tutti i problemi e le componenti che la riguardano assumono un’importanza sicuramente fondamentale, sia dal punto di vista acustico, sia dal punto di vista funzionale in rapporto al suo possibile collegamento con il confinante palcoscenico e più precisamente con la parte sporgente verso la platea detta avanscena o proscenio.

La storia di questo “confine” è costellata di lotte sommerse, di battaglie, di incursioni per una fittizia supremazia che in realtà non dovrebbe sussistere bilanciando ed armonizzando i due spazi relativi.

Spesso il palcoscenico, per mano di registi e scenografi desiderosi di portare lo spettacolo sempre più verso il pubblico, è stato fatto avanzare sopra o addirittura dentro la fossa d’orchestra, creando disagi sia di natura musicale che spaziale. Altre volte grandi organici orchestrali hanno finito per invadere spazi riservati al palcoscenico o alla sala, aumentando le difficoltà relative all’uso necessario del sipario di ferro antincendio.

Ecco quindi ritornare l’esigenza di quella auspicata flessibilità che, nel rispetto della natura e delle libere interpretazioni dei singoli spettacoli e dei diversi generi, attraverso un’adeguata modularità e meccanizzazione del golfo mistico che possa consentire: di “ampliare”, otticamente e fisicamente lo spazio scenico anche fuori della linea di sipario (per grandi concerti o spettacoli che lo prevedano o consentano: il teatro e la drammaturgia del nostro secolo, come abbiamo ricordato, si sono adoperati per portare la rappresentazione sempre più in seno al pubblico); di collegare, attraverso una struttura “disponibile” e “flessibile”, la platea e quindi il pubblico al palcoscenico e quindi allo spettacolo, modulando le quote a seconda delle esigenze (sfilate, presentazioni, convegni e conferenze, concerti ad organici variabili, recitals, saggi ed esibizioni, rivista, operetta ed altro ancora); di gestire anche la movimentazione di ingombri o pesi (pianoforte per prove per es.) dal sottopalco o dalla platea al piano di palcoscenico, operazioni comunque eseguibili dal minor numero possibile di addetti od operatori; la possibilità di una certa variabilità di quote in seno all’orchestra stessa (nel caso di spettacoli operistici o sinfonici) per esigenze di natura estetica, musicale o anche acustica oltre che funzionale; un possibile allungamento temporaneo in avanti della platea (con una quota, in orchestra, pari a quella della sala).

Dopo quello musicale, il secondo aspetto, in ordine di importanza, è quello della visibilità dalla sala ed ancora più importante è la visibilità reciproca dei cantanti e del coro con il direttore d’orchestra.

Molto spesso questo aspetto viene sottovalutato e certamente una buona visibilità in generale è, contrariamente a quanto sembrerebbe, abbastanza difficile da ottenere, soprattutto in un teatro all’italiana, per quanto il suo piano di palcoscenico inclinato, contrariamente a quello tedesco perfettamente orizzontale, consenta una seppur minima visibilità in più. I moderni mezzi tecnici, con l’uso di ponti mobili, sezionabili, con il piano ad inclinazioni regolabili, che consentano di realizzare quote e pendenze diverse, per gran parte del piano di palcoscenico, aiuterebbero sicuramente a risolvere questo problema che coinvolge principalmente il coro, una grande quantità di cantanti che si ostacolano visivamente l’un l’altro e che hanno bisogno di vedere spesso ben due direttori, quello dell’orchestra e quello del coro.

La mediazione visiva tra palcoscenico e sala è rappresentata dal piano idealmente posto al boccascena ed a questo fanno riferimento tutti i raggi visuali, prospettici, proiettivi, proporzionali, restitutivi e di “traguardo”, l’ausilio dei quali risulta indispensabile per una corretta progettazione scenografica e quindi per un corretto approccio dello spettatore con lo spettacolo.

E’ questo il piano, quindi, su cui viene idealmente posto il cosiddetto “bozzetto” o comunque la visione prospettica scenica, ed il punto di vista, generalmente, viene posto centralmente ad una distanza pari ad una volta e mezza circa l’ampiezza del boccascena. Ma al di là delle regole classiche della scenotecnica tradizionale, valide soprattutto per scene prospettiche, anche nella prassi quotidiana regista e scenografo trovano un punto ideale, in platea, da cui guardare lo spettacolo e quindi controllarlo e comporlo, un punto che molto spesso coincide con quello teorico, e quindi centrale, ma non si preoccupano di quello che vede uno spettatore posto sul fondo della sala o lungo le pareti laterali, sia in platea, sia nei palchi, sia nelle gallerie. Molto spesso questi spettatori vedono, soprattutto quelli posti lateralmente o nelle gallerie, un altro spettacolo, completamente diverso da quello progettato.

Il classico quadro scenico ha un difetto fondamentale e cioè consente una corretta visibilità solo frontalmente e fino ad un’altezza massima di poco superiore a quella del boccascena e quindi non esiste alcun mezzo per migliorare la visibilità, se non quello di concentrare tutto lo spettacolo nella minore profondità possibile e nei pressi dell’avanscena: uno spettacolo “piatto”, quindi, quasi bidimensionale. Si calcola che nel teatro tradizionale all’italiana, dotato quindi di palchi, la visibilità sia notevolmente ridotta per un buon terzo e soprattutto nei posti laterali e nei loggioni.

Lo spettatore contemporaneo di teatro, principalmente attraverso altri mezzi quali il cinema e la televisione, ha affinato un suo senso di visibilità molto prossimo a quello ottimale che lo coinvolge maggiormente nel processo dello spettacolo, che dunque conserva ed alimenta la sua specificità per mezzo di questa diversa partecipazione ad un evento esclusivo, ad una “diretta”, usando un linguaggio tipicamente televisivo.

Con ogni probabilità è per questo che negli ultimi anni, il teatro italiano si è progressivamente orientato ad eliminare la frattura fra sala e palcoscenico. La scenografia ha cercato di rompere la barriera del boccascena, o facendo diventare quest’ultimo parte integrante della scenografia, di forzare le nette distinzioni architettoniche arrivando a includere in questa anche la stessa sala portando in seno al pubblico l’azione drammatica ed ottenendone in tal modo una maggiore partecipazione attiva.

Risulta ovvio che tutto questo processo venga enormemente ostacolato dalla scena sopraelevata, il palcoscenico rialzato. Anche quando si tenta di superare questa difficoltà con vari espedienti o con l’uso di elementi scenici praticabili, l’impostazione architettonica non permette nessuna significativa modifica di questo assetto.

Anche il teatro dell’opera, seppure in maniera meno accentuata, è stato coinvolto in questo processo. La stessa Fenice, nell’ultimo decennio, ha prodotto qualche spettacolo con queste caratteristiche, fra cui ricordiamo Passione secondo Giovanni di Bach allestito da P. L. Pizzi nel 1984 e Il flauto magico di Mozart messo in scena da J. P. Ponnelle nel 1988.

Nel primo caso si trattò di un’operazione quasi obbligata dalla natura stessa della composizione che non era un’opera bensì un oratorio e che venne messo in scena progettando uno spazio non convenzionale. Si svuotò la platea ed un lungo piano inclinato, sul quale vennero posti pochi elementi scenici, unì questa al palcoscenico assumendo così quasi l’aspetto di una navata di chiesa barocca nella quale si svolgevano parallelamente la liturgia del Venerdì Santo e le “stazioni” della passione di Cristo secondo la narrazione dell’evangelista Giovanni (fig. 22). Nel secondo, Ponnelle prolungò il piano di calpestio con una passerella praticabile che abbracciava e conteneva l’orchestra, che occupava quindi anche parte del palcoscenico, assumendo quasi le connotazioni tipiche del teatro di rivista e nel quale uno spiritoso Papageno poteva arrivare a toccare il pubblico delle prime file ed una Regina della Notte poteva cantare la sua difficilissima e notissima aria dall’alto di un palchetto di proscenio.

Solo tentativi probabilmente, ma sicuramente si è avvertita la necessità più generale, non tanto di riesumare la vecchia polemica del nostro secolo (che comunque sta per terminare) su un rapporto pubblico – azione sotto l’aspetto di una non meglio definita totalità, ma di una operazione che, partendo da un tipo di teatro estremamente tradizionale quale è quello dell’opera, permetta un breve ripensamento, una ri-valutazione del rapporto pubblico – palcoscenico e attore – spettatore, lasciando agli interpreti ed autori dello spettacolo la possibilità di una libera scelta poetica ed espressiva nella messa in scena.

Si avverte la necessità di considerare lo spazio scenico come luogo di incontro e non di contrapposizione, attraverso una riprogettazione anche delle sue dimensioni, dell’equilibrio di queste in rapporto a quelle umane, dell’aspetto compositivo delle strumentazioni tecniche, degli aspetti cromatici anche dell’interno del palcoscenico, delle sue strutture e dei suoi materiali, in modo tale che, anche in assenza di una vera e propria scenografia, come talvolta è capitato, il suo aspetto possa armonizzarsi con l’azione drammatica, senza interferire con essa.

Lo stesso sipario di sicurezza, elemento imposto dalla normativa quasi corpo estraneo e minaccioso nel suo aspetto e nella sua funzione, deve entrare in sintonia con il luogo della rappresentazione, se non addirittura con lo spettacolo, abbandonando la sua unica funzione ed ampliando lo spettro delle sue possibilità, anche di natura estetica: tutto sommato è pur sempre un sipario, anche se di metallo.

Lo sviluppo delle strutture tecniche, nel duplice tentativo di alleggerire il lavoro manuale e di agevolare veloci cambiamenti di scena per diverse realizzazioni artistiche, hanno aumentato gli ingombri e reso ancora più rigido lo schema del teatro tradizionale. Eccessive meccanizzazioni, come ad esempio una pedana girevole fissa che molti teatri soprattutto tedeschi hanno adottato, si sono rivelate un grave limite per tutti gli spettacoli che non la prevedano, dato che la sua struttura occupa stabilmente la nevralgica zona centrale della scena e non permette quindi né di usare il sottopalco, né di avere delle botole, né alcun sistema di ponti mobili; l’uso smodato di attrezzature illuminotecniche fisse come bilance di panorama, bilance normali, passerelle volanti hanno ridotto notevolmente lo spazio destinato alla soffitta ed ai tiri, ma anche alla fantasia ed alla libertà creativa; i tiri meccanizzati, contrappesati e a stangone fisso hanno ridotto l’altezza usabile della soffitta e comunque non permettono l’utilizzazione di tiri anche in diagonale o perpendicolari alla linea del boccascena o lo permettono solo molto lateralmente, oltre il loro ingombro.

La soffitta deve avere tiri a mano liberi, oltre a quelli meccanici con regolazioni per la velocità, in tre versioni, alternando tiri semplici a mano e tiri contrappesati a mano, inframmezzati ogni due metri da un tiro a motore elettrico ed inoltre bisognerebbe avere la possibilità di regolare la lunghezza degli stangoni; qualche tiro o la possibilità di allestirlo velocemente ci dovrebbe essere anche in corrispondenza del proscenio e della sala, oltre che nel retropalco (qualora esista),sia per esigenze scenografiche, sia per esigenze tecniche (illuminotecniche, di amplificazione ecc.): l’innovazione wagneriana di lasciare la sala al buio è ormai diventata prassi nella “liturgia” teatrale, ma non è detto che se la scenografia di uno spettacolo di natura particolare riesce a raggiungere anche lo spettatore, questi non possa essere immerso anche nella sua atmosfera luminosa…

I sistemi di movimentazione dei ponti, dotazione tecnica indubbiamente fondamentale per un teatro, sono innumerevoli, per tipo e per sezionatura, per la gran parte molto affidabili e funzionali, ma l’esperienza e la prassi di palcoscenico hanno progressivamente teso all’abbandono di costruzioni tradizionali a gabbia dei ponti mobili del palcoscenico, in favore di strutture silenziose e contrappesate che consentano l’utilizzazione dello spazio, tra i due piani, per l’azione scenica e l’allestimento scenotecnico; è indispensabile una disposizione simmetrica di tutti gli elementi che sostengono il piano di palcoscenico tenendo presente la necessità dello spazio il più possibile libero nella parte centrale (esempio: una botola difficilmente sarà posta lateralmente alla linea mediana del palcoscenico, ma al centralmente, spazio solitamente occupato dai montanti di sostegno dei ponti).

Ogni scenografo ed ogni regista ha la propria, particolare concezione dello spazio scenico e del suo utilizzo. Risulta quindi indispensabile, nella progettazione di una struttura teatrale, procedere con molta cautela ed equilibrio nelle scelte, cercando di rendere il più ampio possibile il ventaglio delle potenzialità della struttura, racchiudendola il meno possibile entro una gabbia di strumenti troppo particolari e rigide tecnologie, che ne rendono meno creativo l’utilizzo, ma soprattutto limitano sia la libertà espressiva degli autori dello spettacolo, sia l’operatività del personale di palcoscenico, sia la piena partecipazione e coinvolgimento dello spettatore.

L’analisi dei numerosi aspetti teorici, funzionali, tecnici, storici ed anche poetici che intervengono nella progettazione di un palcoscenico è stata spesso sottovalutata, sia sotto l’aspetto quantitativo, sia sotto l’aspetto qualitativo, soprattutto negli ultimi decenni. Oppure, al contrario, una sorta di “esasperazione tecnologica” ha spesso fatto perdere di vista elementi indispensabili di quella tradizione teatrale, basata sul pragmatismo, che ha raggiunto livelli di sintesi funzionale difficilmente superabili.

In materia teatrale, l’equilibrio e l’armonia di scelte progettuali fra tradizione e contemporaneità, probabilmente non porteranno a soluzioni innovative particolarmente sensazionali, ma permetteranno al teatro, ed alle sue molteplici forme espressive, semplicemente di sopravvivere o magari, ancora una volta, di evolversi.

Daniele Paolin

26 Aprile 2018

Un ricordo che ha quasi vent’anni

Filed under: Scenografia — admin @ 11:04

Ho ritrovato un vecchio fax che l’amico Paolo Paolucci, purtroppo scomparso, mi inviò il 29 Luglio 1998, due anni dopo il rogo della Fenice. Paolo allora era un consigliere regionale in quota “Democratici di Sinistra” e presentò, assieme ai colleghi Lorenzo Vigna e Giampaolo Sprocati, una “Interrogazione a risposta orale” su

“SALVAGUARDARE LA TRADIZIONE SCENOGRAFICA DELLA FENICE SOSTENENDO L’ATTIVITA’ DELL’ATELIER-LABORATORIO DI REALIZZAZIONE E PITTURA SCENOGRAFICA”

L’atelier-laboratorio negli anni ’60

 

Il fax ritrovato

Il testo diceva:

“premesso che

a) il Teatro la Fenice, al momento del suo incendio, era uno dei pochi Enti Lirici italiani che ancora aveva, nel suo organico, un atelier-laboratorio di realizzazione e pittura scenografica;

b) questo atelier, posto nello splendido sottotetto del teatro, aveva una tradizione scenografica di oltre un secolo e mezzo ed un organico di 4/7 unità ad alta specializzazione;

c) la tradizione scenografica della Fenice ha rappresentato da sempre un punto di riferimento fondamentale e prestigioso per la storia del teatro e della scenografia italiana ed europea, come testimoniano le recenti pubblicazioni nonografiche dell’arch. Maria Ida Biggi, “Giuseppe Borsato” e “Francesco Bagnara”, curate dagli Amici della Fenice ed edite da Marsilio;

d) l’attività artistica di questo laboratorio consentiva al Teatro un risparmio, sulla produzione delle scene, di almeno 2/300 milioni annui

 

I sottoscritti consiglieri interrogano la Giunta per sapere se

  1. le forze istituzionali politiche ed intellettuali intendono verificare i presupposti tecnici ed economici che permettano a questo atelier-laboratorio di continuare a produrre;
  2. le suddette forze si adoperino affinché il frettoloso imperativo “dov’era e com’era” consenta almeno che il progetto della futura Fenice preveda un analogo spazio destinato alla pittura scenografica, possibilmente ma non necessariamente, all’interno del teatro;
  3.  si intensifichino e, possibilmente, si istituzionalizzino i rapporti di studio e collaborazione fra questa struttura e gli studenti dei corsi specifici di scenografia della locale e prestigiosa Accademia di Belle Arti unitamente a quelli dell’Istituto Universitario di Architettura alcuni dei quali, nell’ultimo anno accademico, hanno affrontato un tema progettuale sulla nuova Fenice.

La firma

 

L’atelier-laboratorio non vedrà mai la luce, né in teatro né altrove, e La Fenice verrà inaugurata il 14 Dicembre 2003 senza alcun riferimento o ricordo di quel secolo e mezzo di storia e di scenografia.

13 Febbraio 2017

Un ricordo di Lele

Filed under: Scenografia — admin @ 13:17

 

Aprendo il solito quotidiano, in treno il 27 Gennaio scorso, mi si affaccia una dolorosa notizia:”Addio allo scenografo Lele Luzzati”. La giornata non poteva cominciare peggio.
Conoscevo Lele fin dai primi anni ’80, quando lui era prossimo alla sessantina ed io ne avevo appena superato la metà. A quel tempo ero uno degli scenografi realizzatori de “La Bottega Veneziana”, atelier che spesso realizzava allestimenti per il Teatro Regio di Torino. L’opera da realizzare era “Dibbuk” di Ludovico Rocca (da una storia ebraica) e Lele ne era lo scenografo. I miei ricordi si fanno tenui (sono passati più di 25 anni), ma il ricordo di quella splendida figura è ancora assai vivo.
Lele era una persona semplice, gentile in tutte le cose che faceva, ma soprattutto nell’aspetto e nei modi. Mi ricordo che mi colpì molto, quando lo conobbi, il suo abbigliamento: portava vecchi occhiali rotondi che gli cerchiavano i piccoli occhi, a fessura, su una faccia aperta e “antica”, in un atteggiamento di continuo sorriso, che peraltro era continuamente ricorrente nel suo modo di fare; la sua giacca di velluto, con le toppe di pelle, era segnata dal tempo e copriva un semplice maglione che lasciava spuntare il colletto di una umile camicia a quadri scozzesi (di quelle che vediamo portare, in generale, a semplici operai o montanari…); ma soprattutto le scarpe ricordo: un vecchio e robusto modello, fané, ma dignitoso e tenuto talmente lucido ed ingrassato da nascondere perfettamente la molta strada percorsa.
Era l’esatto contrario dello scenografo istrione, un po’ capriccioso, difficile ed ostinato: era accomodante, mentalmente elastico, comprensivo e ad ogni imprevisto o difficoltà aveva sempre una buona parola ed un consiglio adatto.
Ho avuto modo di entrare nel suo mondo grafico e nella sua opera in maniera analitica, dovendo io dipingere su enormi fondali ogni suo segno, ogni sua campitura, ogni suo pezzo di collage che diventava materia, composizione, elemento indispensabile al racconto: già, perché lui amava raccontare (amava dire:«Perché la memoria è una cosa fredda, il racconto invece è caldo: è tutta la vita che racconto, io che sono così avaro di parole»). Dagli anni ’80 in poi, ho avuto modo di fare assieme a lui, altri, numerosi lavori, ogni volta felice, io, di rincontrare uno splendido personaggio com’era Lele. L’ultima volta che l’ho visto è stato in occasione di uno spettacolo (L’enfant et le sortilége di Ravel) che si sarebbe dovuto mettere in scena alla Fenice di Venezia nel Marzo 1996, alla riapertura del teatro dopo i restauri…Non avrei più rivisto nè La Fenice (rogo del Gennaio 1996), nè lui. Addio carissimo Lele, hai lasciato in tutti noi un bellissimo ricordo…
dp

13 Luglio 2015

OS 12: instabili frammenti

Filed under: Nuove Tecnologie dell'Arte — admin @ 10:49

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Immagini evento

PROGETTO SPECIALE – PROCESSI E TECNICHE PER LO SPETTACOLO MULTIMEDIALE

Prof. Daniele Paolin

ACCADEMIA DI BRERA – SCUOLA DI NUOVE TECNOLOGIE DELL’ARTE

12 installazioni performative multimediali liberamente tratte da “Oscar e la dama rosa” di Eric Emmanuel Schmitt in collaborazione con MACAO

Oscar Story

Éric-Emmanuel Schmitt – Ciclo dell’invisibile – Oscar e la Dama Rosa, testo teatrale.

Da qui si parte per un viaggio fra le lettere che Oscar, leucemico di dieci anni, scrive a Dio, nel quale inizialmente non crede. La Dama Rosa, un’assistente volontaria a lui più vicina, lo convince del contrario. Il mondo descritto da queste lettere viene messo a confronto con la dura realtà degli ultimi dodici giorni della sua vita. Ma questi dodici giorni diventeranno 120 anni, proprio grazie a Rosa (“una leggenda, dice che, negli ultimi dodici giorni dell’anno, si può indovinare che tempo farà nei dodici mesi dell’anno che viene. La leggenda dei dodici giorni divinatori, tu immagina di vivere ogni giorno come se vivessi dieci anni”).

Poi Oscar scrive: “…credo che sto cominciando a morire”…

Dodici giorni, una vita intera.

Messo nelle mani di giovani studenti del Biennio di Specializzazione di Nuove tecnologie dell’Arte, e quindi nell’analisi artistica contemporanea (e forse futura), il testo introduce ad interrogativi profondi, individuali e sociali, estetici e scientifici al tempo stesso. La nascita, il tempo e la sua percezione, la sua accelerazione ed il suo uso, il corpo, la malattia, la scienza, la condizione comunicativa del malato, la memoria, il mondo esterno, l’esistente e l’inesistente, la labilità temporale degli attimi, il buio, il silenzio, il vuoto.

La volontà di tradurre tutto in un grande affresco, o forse un mosaico di frammenti, emerge immediatamente. Essenziale non appare più la storia, ma il significante dei suoi frammenti, sparsi, anche non in maniera lineare.

12 giorni, 120 anni, 120 minuti, 12 anni, 12 minuti: vivere la quantità che ci è concessa. Ma la qualità risulta decisamente importante.

Per gli antichi greci c’erano almeno tre modi di indicare il tempo: aion, kronos e kairos. Aion rappresenta l’eternità, l’intera durata della vita, l’evo; è il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile; kronos indica il tempo nelle sue dimensioni di passato presente e futuro, lo scorrere delle ore; kairos indica il tempo opportuno, la buona occasione, il momento propizio, con una certa approssimazione, quello che noi oggi definiremmo il tempo debito.

Lo spreco diventa un abominio, lo spreco del tempo, sia esso inteso come aion, kronos o kairos, diventa un pensiero che nei malati terminali ha un portata straordinaria. Anche il corpo, la sua cultura, la degenerazione di ogni sua parte, pur minima, diventano importanti: cervelli che vivono anche senza un corpo o corpi che vivono anche senza un cervello, paradosso della società contemporanea. Il rapporto con la malattia, con l’indagine diagnostica, con la variazione dei dati chimici ed elettrici, con la loro valutazione ed interpretazione. Il progresso scientifico, la longevità da un lato e i fulminei decessi dovuti a metastasi inarrestabili dall’altro. Morte come “memoria del proprio limite” e, direi, limite della propria memoria. É un processo che, con le parole di una pubblicazione di Marina Sozzi, porta a “ripensare la morte per cambiare la vita”. La morte, concetto sempre più lontano o tenuto lontano dal progresso scientifico, oggi sembra essere stata sterilizzata: gli ammalati finiscono negli ospedali e i vecchi negli ospizi. Spinoza d’altronde sostiene che l’uomo libero non pensa alla morte, ma alla vita. Un processo tipico dei nostri giorni: non si accetta che la medicina possa fallire, quindi si denunciano i medici che si ritengono colpevoli di incapacità e si passa al guru o direttamente alle mani di Dio, per chi crede. Una serie di frasi di Oscar testimoniano invece questa realtà vista con gli occhi disincantati di un bambino (“Dusseldorf [il dottore che lo cura – n.d.r.] ha la faccia dispiaciuta di un Babbo Natale che non ha più regali nel sacco…Se dici “morire” in un ospedale, nessuno sente. Puoi star certo che ci sarà un vuoto d’aria e che si parlerà di qualcos’altro…qui fanno come se uno venisse all’ospedale solo per guarire. Mentre uno ci viene anche per morire…). Al decadimento fisico, o per vecchiaia o per malattia, spesso si accompagna la perdita di relazioni umane e quindi il problema diventa come garantire una buona vita finché è davvero tale, senza prolungarla artificialmente quando si è esaurita.

Nuove tecnologie per la scienza, nuove tecnologie per l’arte.

Questa la base: “…avevo l’impressione che mi prendessi per mano e mi portassi nel cuore del mistero a contemplare il mistero…”.

I 12 giorni, una vita, hanno la possibilità di diventare 12 istallazioni in una esibizione, più che una mostra. 12 tappe, 12 pensieri, 12 frammenti, una storia, un’esistenza.

0 – (+1 -1)

Tempo e vita: la rete e le scienze matematiche simulative ci aiutano ad avere una precisa percezione della grande vibrazione del mondo in cui in ogni istante si vive e si muore in una sorta di contabilità spietata ed infinita…

1 – (emergere)

Anche l’esposizione ha una propria vita e quindi una sua storia: l’entrata diventa una nascita, un ingresso in un mondo dodecafonico o dodecaedrico, proprio perché “nascere è cadere nel tempo” come qualcuno ha scritto; ci si introduce in una serie di brevi pensieri, di intuizioni e sensazioni: non oggetti visivi, ma stati mentali, come Kandinskij amava dire. Questa esistenza esibita ha una sua sonorità, esattamente come il perpetuo suono del mondo, un suo impenetrabile echeggiare (in realtà una libera elaborazione di un brano che Oscar ama e ascolta spesso: la danza dei fiocchi di neve dello Schiaccianoci di Tchaikovsky). Ed ogni pensiero elettronico ha, a sua volta, una sua vitalità che può essere resa difficoltosa da virus, malattie, malfunzionamenti, errori, o… bugs, come vengono chiamati. Decisamente convinti che nessuno (e nessuna istallazione) sia perfetto…

2 – (tempo sequenziale)

Kronos. Aperto questo diaframma biologico, che superiamo magicamente osservandoci nell’atto di uscire da una placenta digitale, lo spazio si apre in alto su un’immagine simbolica dei processi del tempo: un’accelerazione rallentata, ossimoro quanto mai calzante sullo scorrere del tempo e sulla “semiotica biologica” che ne sottolinea la metamorfosi in un volto. L’impercettibile scorrere dei frames rende il tempo percepito quasi non percepibile: una meraviglia che può soltanto essere digitale. (da un video di Anthony Cerniello)

3 – (cenestesi)

Condizione instabile…Malattia e diagnostica: le immagini digitali aiutano, asettiche e chiare, ad entrare nei meandri del nostro corpo, meandri mai visti, in un viaggio altrimenti impossibile, affascinante. Sono immagini che, se non implicassero qualche tipo di ansia data dai possibili responsi, potrebbero iniziarci a paesaggi inattesi, quasi fossero altri mondi. Micro e macro assumono le stesse valenze in un inedito gioco di sproporzioni chiaroscurali. La macchina è nuda, quasi scarnificata dal suo incerto involucro, unica entità che ad occhio nudo possiamo vedere e che forse ci consola.

4 – (FBO – faceboscar)

Uno stato di separazione dal mondo, l’isolamento, la solitudine che si accompagna alla patologia, presuppone la ricerca di comunicazione con “l’altrove” che forse continuiamo a ricercare anche quando le condizioni non sono così estreme. Le lettere di Oscar hanno un interlocutore universale, quasi fossero dei messaggi lanciati nell’etere in bottiglie numeriche destinate a spiagge informatiche che si immaginano o si sperano affollate, esattamente come succede nel social network. Il post, però, può non raggiungere una meta, ma vagare, inascoltato, in una rete affollatamente vuota.

5 – (deframmentazione mnemonica)

“Diventerai una discarica di vecchi pensieri che puzzano, se non parli…” è la frase che Rosa, la dama, dice ad un Oscar silenzioso. Anche i ricordi, le memorie, si ammalano, si ammonticchiano, si sovrappongono e possono spegnersi nella nebbia indotta del tempo (e dello spazio). Ricordi affidati ad incerti archivi di silicio che sempre meno software, che ora crediamo onnipotenti, sapranno leggere in futuro o che saranno destinate a deteriorarsi nella loro biologica labilità.

6 – (swing o pendolaltalena)

Kairos. Altalena come pendolo o pendolo-altalena, come metronomo di un tempo qualitativamente rubato. L’età più preziosa, quella dell’infanzia, fucina di sperimentazione e di ricerca, viene sempre più invasa e fagocitata da modelli assurdamente sudici, lordi come sono di una indecenza adulta, esageratamente volgare e sfrontata: viene tolta a forza, quella della persuasione occulta e meschina, ogni aspirazione ad un’infanzia assaporata continuativamente, complice il mondo mediocre dell’ostentazione al consumo, non escluso quello del tempo.

7 – (pausa)

Oscar: “…e mi sembrava un film al rallentatore, l’aria diventava più densa, il silenzio più silenzioso, io camminavo come stessi nell’acqua e tutto cambiava man mano che mi avvicinavo al suo letto illuminato da una luce che non veniva da nessuna parte…”.Il buio ristoratore ed il silenzio consolatore allontanano per un momento il vorace desiderio di guardare e ascoltare. Una pausa nel vuoto. Anche la musica più sublime non vive soltanto di note, veloci o lente che siano, ma anche di pause che hanno gli stessi valori ritmici, la stessa coloritura melodica. Ma il vuoto, il silenzio, il buio percepiti, possono essere persino densi di splendidi scotomi e di interessanti acufeni: è sufficiente essere capaci di ascoltarli, lontani dall’ansia…

8 – (5 instabilità)

Aion: stabilità. Da ogni sfera si invoca. Ma sappiamo ormai da centinaia di anni che nulla è stabile, nemmeno la terra. Quella terra madre che nutre, alimenta e riscalda; accoglie anche i nostri resti e li trasforma in vita, ma che sa anche rivoltarsi alle continue offese di cui è vittima: il moto stesso è segno di vita. Coltivare, bonificare, dissodare sono verbi che colgono il movimento della terra, lo esaltano ed il timore allora si dissolve, diventa fascino persino l’instabilità, l’incertezza su cui poggiamo i piedi e le nostre deboli sicurezze.

9 – (O.R.A. – Oscar Realtà Aumentata)

La lettura di codici diagnostici, l’interpretazione di dati numerici, la decodificazione di segnali visivi aprono le porte ad una realtà “altra”, una dimensione estranea in cui concretezza e sogno si mescolano in un “aumento” di particolari che si ancorano a segnali specifici. É il mondo incantato che vedono gli occhi di un bambino alle prese con strumenti di cui ignora il funzionamento ma che gli propongono un realismo diverso, onirico e presente al tempo stesso in una sorta di videogame. “…guarda ogni giorno il mondo come fosse la prima volta…” è una frase di Oscar.

10 – (…i figli divorano crono…)

Il tempo (crono, saturno) divora i suoi figli, nei meandri della mitologia. Ma nella nostra civiltà contagiata dalla rapidità, con ogni probabilità siamo noi i figli che divorano il tempo. Questa voracità non permette di “assaporare”, di centellinare i momenti di esistenza comunque preziosi, in una continua rumorosa ruminazione che porta ancora una volta al consumo, rito al tempo stesso collettivo e privato, a qualsiasi età. Tempo che nel malato, nel figlio più debole, diventa pregiato. (Oscar: “… ci siamo raccontati le nostre vite…”)

11 – (sequenza esistenziale)

Dal testo: “E’ una pianta del deserto del Sahara che vive tutta la sua vita in un giorno solo. Appena il seme riceve dell’acqua lei germoglia, gli spuntano le foglie, fa un fiore, fabbrica dei semi, li sparge, poi appassisce, diventa piccolo, piccolo, e hop, la sera è finito. La vita in un giorno, non dodici, neppure dodici anni e nemmeno 120. Terra, acqua e…un giorno: per vivere e per morire.

12 – (in vitro)

“…Si è spento stamattina. L’ha fatto senza di noi, come se volesse risparmiarci…” Questa la fine di un racconto che non c’è, esattamente come la famosa isola. Ma la tecnologia contemporanea ha modo di tenerlo in vita, quasi “in vitro”, ancora una volta in un gioco che si può rivelare esistenziale ed effimero al tempo stesso.

 

Poesia e spazio

Filed under: Scenografia — admin @ 10:04

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L’architettura è l’arte di riempire (strutturare, modificare) lo spazio. É un atto di misurazione. Si attua mediante forme, volumi, materie, colori. Questa è la sua essenza. Perciò abitare è poetico. E la poesia si fonda sempre sul metro. I versi dei poeti misurano il tempo, le pareti e i muri, lo spazio. Misurare rassicura: è una forma di conoscenza e dominio. Anche la felicità è una misura: la misura tra novità e abitudine.

13 Luglio 2014

Dal pennello al pixel…

Filed under: Scenografia — admin @ 13:09

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“Nulla evolve più lentamente del teatro”.
Questa lapidaria e relativamente recente frase di Peter Brook con ogni probabilità era riferita al “luogo” teatrale inteso in senso fisico (di edificio teatrale), ma forse anche in senso drammaturgico. Non forse in senso tecnico. La storia recente della scenografia e della scenotecnica ha, al contrario, marcato un repentino processo di trasformazione visiva (diciamo negli ultimi vent’anni), mai avute fino ad oggi ed il colpo senza dubbio più duro lo ha ricevuto un “sapere” dalle radici profonde, che si sta, tutt’altro che lentamente, perdendo: mi riferisco a quello della pittura scenografica. Non se ne vuole qui celebrare il rito funebre o nostalgicamente ricordare i bei tempi del “teatro dipinto”, né, per contro, fare un inno modernista alle nuove tecnologie proiettive e digitali: cercheremo di analizzare serenamente queste tecniche e questi linguaggi, quelli nuovi e quelli che stanno per cedere il passo, senza pregiudizi di sorta, alla luce di un nuovo millennio di scenografia teatrale.
Risulta quindi inevitabile partire dalla pittura visto che un percorso dentro la scenotecnica, come vuole essere questa nuova rubrica, non può che cominciare dalla storia di quei “meravigliosi ingegni”, abili manufatti impreziositi da sapiente pittura, che fin dalla sua nascita ha caratterizzato il teatro e la sua parte visiva.

Il dato di fatto certo è che le nuove tecnologie proiettive e digitali, sempre più raffinate e sofisticate, stanno soppiantando quasi completamente il fondale dipinto e la sempre più scarsa richiesta di pittura ha finito per assottigliare le fila di quella già sparuta schiera di abilissimi pittori-scenografi che l’Italia si può dire abbia esportato in tutto il mondo.
Non è il caso di dilungarsi sulla completa evoluzione storica, fuori delle nostre competenze, ma fin dal teatro greco si hanno notizie delle due componenti principali della tecnica scenografica e cioè la macchina e la pittura. Di questa non abbiamo certamente tracce del passato, neanche recente: il “dipinto scenografico” è di per sé effimero, dura poco più di una stagione. E’ una tecnica fatta di poco anche perché si debbono preparare grandi superfici in poco tempo, poco costose e di grande effetto: naturale quindi che durino, anche, poco. Raggiungono il massimo della loro bellezza quando sono lì, su un palcoscenico, bagnate da qualche debole luce. La luce del palcoscenico: negli ultimi anni dell’800 la luce elettrica aveva già inferto un duro colpo alla pittura di scena; ne aveva mostrato crudelmente i limiti, le finte ombre, il colore esagerato, la larga pennellata, come testimoniano quei “bozzetti” di primo ottocento dai colori e dai contrasti così violenti…Ma la tecnica si era ulteriormente raffinata, dissolta, divenendo ancora più precisamente evocativa: la luce pittorica si immergeva in quella elettrica ed un nuovo senso assumeva quel “décor”, di un “realismo sognato”.
Gli ateliers di pittura scenografica stanno chiudendo i loro battenti: fa parte di un processo, a mio avviso, inevitabile. Le nuove tecniche hanno un enorme fascino, una grande resa ed offrono possibilità espressive straordinarie, ma la domanda a cui non sappiamo rispondere è: quanto è giusto che questa antichissima professione, questa affascinante abilità e sapienza si perda?
Sembra non esserci risposta: la pittura scenografica innanzitutto non si può insegnare, neppure nelle Accademie, se non dipingendo per il teatro in grandi spazi (cosa che le Accademie non hanno); si tramanda, dopo un lunghissimo apprendistato, da “maestro” ad allievo “sul campo” in maniera del tutto simile alla “bottega” rinascimentale. Perché un lunghissimo apprendistato? Semplicemente perché si usano strumenti giganti (pennelli, matite, tavolozze, stecche e squadre), dai manici lunghissimi (si dipinge in piedi, camminando sulla tela), che pesano molto e soltanto dal punto di vista fisico ci vuole un lungo allenamento unicamente per cominciare ad usarli bene, in maniera disinvolta. E poi si deve imparare la tecnica a poco a poco: si comincia dalla preparazione della tela, alla sua “apprettatura”, al disegno, alle grandi prime campiture, fino ad arrivare ad un sempre maggior dettaglio, alla raffinatissima finitura, quasi sempre conclusa con una leggera spruzzata di colore trasparente data con una arcaica pompa a zaino, di rame e ottone, con la quale i contadini davano il verderame alle viti…Questo, che a parole sembra un semplice processo, presuppone un apprendimento di molti anni anche perché ci sono generi diversi di pittura: i fondali spesso propongono delle architetture in prospettiva (altre conoscenze…), oppure dei paesaggi desertici o rocciosi, oppure strane decorazioni orientali, oppure cieli burrascosi o azzurri, foreste e giardini, interni pietrosi di castelli di ogni epoca; i soggetti sono talmente numerosi che spesso, come succedeva soprattutto in Francia, gli scenografi si specializzavano nei “generi”: c’era chi era maestro di paesaggio, chi di bosco, chi di architettura, chi di interni ed arredamenti ed altrettanto spesso, per un’unica opera, atto per atto si sceglievano realizzatori diversi a seconda dell’ambientazione della scena…Pochissimi sono coloro che sanno dipingere ad altissimi livelli tutti i generi.
Questa professione trae le sue discendenze da quella figura di artista-architetto, mago eclettico rinascimentale che vantava conoscenze estremamente diversificate di architettura, di prospettiva, di pittura, di botanica, di storia, degli stili, di archeologia, di astronomia, di paesaggio, arrivando fino ad avere nozioni di statica, di scultura, di anatomia, di chimica…in pratica le componenti di un intero mondo, perché questo era chiamati a rievocare, a reinventare, ad imitare, o solo a suggerire.
Tutto ciò sta progressivamente sparendo: gli scenografi pittori realizzatori ormai, in Italia si possono contare sulle dita delle sole due mani…Le ditte private hanno tempi e necessità che non permettono di tramandare e conservare questo altissimo artigianato: probabilmente il compito potrebbe essere affidato agli Enti Autonomi quali le Fondazioni Liriche, alcune delle quali conservano questo aspetto produttivo (La Scala, l’Arena di Verona, L’Opera di Roma), ma tutto fa pensare ad un progressivo smantellamento anche di queste ultime attività laboratoriali come ha già fatto parzialmente il San Carlo di Napoli o totalmente come La Fenice di Venezia. In questo ultimo, significativo caso, poi, non solo il magnifico atelier ricavato dal sottotetto del loggione ha cambiato fisionomia e destinazione, ma nessun elemento e nessuna scritta in qualche modo nemmeno ricorda che in quel luogo si era sviluppata una storica scuola scenografica fra le più importanti in Italia e che ha annoverato fra le sue fila scenografi quali Bertoja, Borsato, Bagnara e molti altri per ben 170 anni, e questo a dispetto del “dov’era e com’era”…
Uno degli ultimi laboratori rimasti in centro storico ed uno dei più affascinanti è senza dubbio quello del Teatro dell’Opera di Roma. Sembra quasi uno scherzo, un gioco: il laboratorio in cui si “confeziona” l’inganno, l’illusione il “falso” è situato esattamente a fianco della famosa “Bocca della verità”…
Vi si accede attraverso una breve salita e questo immenso immobile tenebroso e oscuro al pianterreno e ai piani intermedi adibiti a magazzino, dopo un’ascesa di quattro piani, diventa magicamente luminoso nel “salone” dove si dipingono le scene, con enormi finestroni che da una parte si rivolgono verso un panorama stupendo della meravigliosa città eterna e, nel verso opposto dopo una grandissima terrazza, si affacciano sul Circo Massimo…Che dire? Gli scenografi romani sono fortunati!
Si sottolineava l’aspetto della luce: E’ senza dubbio importante dipingere con una buona luce, proprio per non avere alterazioni cromatiche dovute a dominanti che possono essere generate da luci inadatte o, semplicemente, da angolazioni particolari dei raggi luminosi. La pittura è un argomento molto delicato e di difficile approccio. Allo scenografo pittore spesso viene richiesta non solo una perizia straordinaria, ma sovente gli si richiede di diventare un’altra persona, un altro artista. E’ il caso, ad esempio, di quando viene riproposto, in grande, un quadro famoso: il pittore deve dimenticarsi della sua tecnica, del suo mondo pittorico, della sua particolare sensibilità, per appropriarsi di quello di un famoso artista; da Tiepolo, a David, a Mantenga, a Sironi, a Boccioni, a Corot… (vado a memoria di esempi che personalmente ho visto o affrontato). La capacità e l’esperienza di un pittore scenografo sta proprio qui: sia che affronti un’opera famosa, sia che affronti un qualsiasi bozzetto o immagine (anche fotocopie in bianco e nero di qualche bozzettista frettoloso o poco capace…), deve “entrare” in un altro mondo, capirne il senso e carpirne l’essenza, e farlo suo, almeno fino alla fine dello spettacolo e alla sua messa in scena; non è affatto facile e, se da una parte è un’esperienza inebriante e di prezioso arricchimento, dall’altra è altrettanto vero che non sempre ci si riesce o non ci si riesce fino in fondo. Si ha allora un senso di frustrazione e sgomento, ma non si può e non si deve chiedere aiuto a nessuno: si è soli con la propria, pesante responsabilità. Sono al tempo stesso i “chiari” e gli “scuri” di questa antica professione, la cui tecnica sembra abbia dato origine ai grandi “teleri” rinascimentali (Tintoretto), con una difficoltà ulteriore: quando si dipinge una superficie così grande (10/20 metri e più), mentre si lavora su una parte, è difficile avere “sott’occhio” il tutto, dominare tutta l’immagine ed i rapporti che la compongono.
Il laboratorio del Teatro dell’Opera di Roma ha la fortuna di avere una passerella ad un’altezza di circa cinque metri, da cui si può osservare la superficie dipinta ed avere quindi un’idea più precisa del risultato, perché altrimenti (e tanti sono i laboratori che ne sono privi) il risultato si vede soltanto in palcoscenico, al montaggio delle scene, quando spesso è troppo tardi per rimediare a qualche (possibile) errore…
L’ambiente di Roma è straordinario, sia sotto il profilo logistico, sia sotto quello umano, sia sotto quello strettamente professionale. Dagli operai specialisti (detti “macinatori” in ossequio al periodo in cui si “macinavano” le “terre” che da blocco diventavano polvere e quindi pigmento, colore), alle sarte che cuciono e confezionano le enormi tele che andranno appese, agli aiuti che imparano impostando il lavoro con il disegno e le prime grandi stesure di colore, ai collaboratori che coordinano le attività dei gruppi di lavoro, fino ai realizzatori che si dedicano alla finitura ed organizzazione totale della quale hanno tutta la responsabilità; ognuno fa la sua parte e contribuisce con la propria esperienza al risultato finale nei tempi stabiliti.
Già, perché un altro punto fondamentale sono i tempi.
Il normale pittore, come si sa, ha i “suoi” tempi: c’è chi dipinge un quadro in un giorno, chi in un mese, chi anche in un anno…C’è un’estrema labilità. Ma i tempi di uno scenografo pittore li decide il…cartellone e la stagione. Spesso si è chiamati a dipingere un intero spettacolo (1500/2000 metri quadrati di pittura) in meno di due mesi: una cinquantina di giorni lavorativi; non meno di 30 metri quadrati (finiti!) al giorno: ritmi da imbianchino, più che da pittore..
E’ una lotta costante contro il tempo: e tutta la tecnica pittorica scenografica si basa sulla velocità di esecuzione, un risultato eccellente ed un basso costo, naturalmente. C’è da aggiungere che i ritmi di lavoro dei realizzatori (quei pochi…) che ancora prestano la loro opera nelle fondazioni e negli enti, sono un po’ più “umani” rispetto ai loro colleghi delle ditte private, che spesso hanno ritmi forsennati… e non è un’esagerazione. Ed è anche per questo motivo che il compito di “tramandare” quest’arte e questa professione dovrebbe essere demandato proprio alle fondazioni ed agli enti, come già sottolineato: primo perché rientra proprio nel loro statuto la conservazione, lo sviluppo e la diffusione dell’arte teatrale e secondo perché gli stessi tempi sono in grado di permetterlo; è impensabile infatti che nei ritmi impossibili delle aziende private si trovi tempo e modo per “insegnare” alcunché (spero, però, in cuor mio, di essere smentito…). Quello dell’Opera di Roma è uno dei pochi laboratori rimasti in cui si può fare…

Daniele Paolin per la rivista The Scenographer

5 Dicembre 2012

2003: azione simultanea

Filed under: Nuove Tecnologie dell'Arte — admin @ 17:44

di Daniele Paolin, scenografo dell’evento.

Evento intermediale, il sottotitolo. Quello che è andato in scena Sabato 20 Dicembre 2003, ospitato nell’interessante spazio del Teatro Cavallerizza e voluto dal Direttore Artistico de “I Teatri” di Reggio Emilia, Daniele Abbado, può essere definito soltanto così.

Questo lavoro, ideato e diretto da Ezio Cuoghi, non nuovo ad indagini e ricerche sui rapporti fra arte e scienza, viene puntualmente definito dalle sue stesse parole nella presentazione dello spettacolo: «Il focus di questo Evento Intermediale è il Tempo. Il Tempo fisico, biologico, fenomenico, immaterico, concettuale. Ciò che la parola Tempo evoca nelle menti di noi tutti è l’oggetto diretto e indiretto di questo lavoro, attraverso le visioni della danza, della parola, e della tecnologia… E’ difficile immaginare se il Tempo sia la domanda o la risposta che precede o segue la nostra quasi impercettibile perplessità quando ci avventuriamo nel distinguere ciò che viene prima da ciò che viene poi».
Il tentativo di definire l’ambito e le motivazioni che muovono questo evento probabilmente è focalizzato altrettanto lucidamente dal pensiero di Giorgio Celli, che ha così definito il progetto generale (NOOSPHERA PROJECT) della ricerca intrapresa: «… La complicità della parte sinistra del nostro cervello non è sufficiente, bisogna chiamare in causa anche la parte destra, mettendo la ragione in sintonia con l’emozione, la percezione visiva con l’esercizio della logica, il vedere con il pensare, il pathos con il cogito. Come ottenere questo risultato se non attraverso un’opera multimediale, interdisciplinare, ad interfaccia tra scienza e arte, se non con un collage tecnologico, con un evento totale, con la simulazione di una grande profezia cosmologica?».
Una serata performativa tra arte e scienza attorno al tema del tempo, un fluire conciso e scarno di una serie di quadri che gettano luce e si interrogano sui suoi aspetti problematici (reversibilità-irreversibilità), paradossali (Achille e la tartaruga), poetici (i racconti di Calvino), non potevano che portare all’utilizzo dello spazio, già strutturalmente adatto all’evento, della Cavallerizza, semplicemente così com’è, nella sua essenza strutturale.
I testi dello stesso Cuoghi e di Giorgio Celli, guidano dunque un percorso visivo non lineare, quasi un non racconto. Quattro telecamere diventano altrettanti occhi nascosti che nutrono una retina lontana, elettronica, digitale ed un «cervello» elabora, compone, intercetta ed infine proietta, in tempo reale, su una grande ala trasparente sospesa fra le catene delle capriate in ferro di questo interessantissimo spazio, semplice nella sua conformazione perfettamente rettangolare. Ricavato dall’ex Cavallerizza della Caserma Zucchi, è stato intelligentemente dotato di due gradinate, estendibili e retrattili a seconda delle necessità, poste una di fronte all’altra: si ha la possibilità quindi di avere uno spazio pulsante nella sua doppia possibilità simmetrica ed asimmetrica di spettacolo frontale o centrale, uno spazio teatrale polivalente, destinato in particolare alla prosa di ricerca e alla danza contemporanea, a stages e workshops.
La scena, quindi, è uno spazio volutamente libero, aperto, privo di qualsiasi riferimento che possa anche lontanamente rappresentare l’elemento di un possibile décor. Non viene «nascosto» nulla.
Più che da una vera e propria scena progettata si è partiti da precise necessità drammaturgiche e comunicative, cercando di «aiutare», in maniera il meno possibile invasiva, l’ambiente, già conforme per sua natura, a trasformarsi in luogo funzionale all’evento. Nella mente di Cuoghi era già tutto chiaro e definito, ma non tanto nella mia, che ha sempre gravitato in ambiti di teatro tradizionale, molto tradizionale, qual’è il melodramma: una scatola ottica per artifici più o meno magici o più o meno decorativi. Una grande importanza ha rivestito il sopralluogo compiuto qualche tempo prima alla Cavallerizza.
La particolare vicinanza del pubblico, quasi all’interno della performance, data la mancanza di un boccascena, invitava ad una percezione a tratti concentrata e a tratti frammentaria, in un rapporto visivo così vasto. Tutto è all’insegna, se può essere concesso un termine forse impropriamente generico, di un neo antinaturalismo. Due postazioni laterali, inserite esattamente nella ritmica delle paraste che reggono l’architettura, ma cromaticamente molto diversificate, ospitano, uno di fronte all’altro, i due attori, Gigi Dall’Aglio e Roberto Abbati, voci recitanti, che appaiono e scompaiono, ripresi in primo piano da due telecamere, nei loro puntuali interventi. Dietro, sul fondo, posto diagonalmente, un grande schermo scende dalle capriate in ferro e, prima di toccare terra, risale all’indietro come una vela a riposo, curvando la linea della proiezione fino a farla sfumare verso il basso, sospendendola nella sua valenza più propriamente ponderale. La disposizione del grande schermo da retroproiezione, necessariamente centro d’attenzione assieme all’azione coreografica, risultava quasi obbligata da una serie di direttrici di ripresa e di proiezione, ma quello che si voleva accuratamente evitare era la configurazione sempre molto statica e scontata di normale «schermo» canonicamente appoggiato, teso e posto frontalmente. In contrapposizione a questo elemento, era necessario, per contrasto, collocare un «oggetto» che accogliesse le immagini fisse delle riprese: i tre monitor e le due immagini degli attori – voci recitanti, collocati molto lateralmente e quindi scarsamente visibili dalle prime poltroncine opposte alle due relative postazioni. Proprio durante il sopralluogo, cercando di identificare quella che sarebbe stata la soluzione migliore per questo totem visivo, ci siamo imbattuti quasi casualmente, durante lo smontaggio di un precedente allestimento, in un cosiddetto trabattello, una struttura vuota, leggera, di alluminio: una colonna protesa verso l’altezza delle capriate; avevamo trovato la machina funzionale al nostro deus visivo.
Al centro, uno spazio, delimitato idealmente e luminosamente nella sua perfetta circolarità, accoglie tutte le azioni coreografiche di Mauro Bigonzetti, Macha Daudel e Teresa Alves Da Silva dell’Aterballetto. Tre telecamere poste lateralmente ed una posta perpendicolarmente, riprendono ogni loro gesto e movimento. Uno speciale software (EYESWEB) messo a punto dal Prof. Antonio Camurri del DIST dell’Università di Genova e diretto, nelle sue varianti ed applicazioni, dall’Ing. Daniele Suffritti, crea una particolare miscela delle immagini proponendo, proiettata sulla grande vela, una visione insolita dei danzatori, visti contemporaneamente da tre punti, probabilmente l’avverarsi di un sogno cubista, ma sorprendentemente cinetico. Si creano personaggi «altri». Ogni danzatore ha la possibilità di avere un «se stesso» che balla assieme a lui, ed un altro ancora. L’assolo diventa duetto e contemporaneamente terzetto, quartetto, tre ballerini un corpo di ballo, in un gioco nuovo, continuamente stimolante con la propria e le altrui immagini e con la propria e altrui «azione simultanea».
L’aspetto sorprendente, quasi imprevisto di questo lavoro è stato proprio questo: l’entusiasmo creativo che ha inoculato, in tutte le componenti dello spettacolo, l’uso di questi nuovi linguaggi tecnologici e visivi, ma soprattutto nei danzatori che hanno avuto modo, forse per la prima volta, di manipolare direttamente le immagini prodotte da ogni loro gesto, creando, non senza qualche leggera difficoltà iniziale per una «naturale» appropriazione del mezzo, nuove figurazioni e nuove composizioni, interagendo con un altro tipo di realtà.
Il progetto, la cui direzione istallativa è stata curata da Carlo Ansaloni, è stato impreziosito anche da precisi spunti didattici, avendo rappresentato una prima tappa per l’avvio del Corso di Laurea Specialistica in “Progetto e cultura delle Nuove Tecnologie” dell’Accademia di Belle Arti di Brera, di cui Cuoghi, Suffritti, Paolin e lo stesso Ansaloni sono docenti.

Biografia di Franco Mancini

Filed under: Teatro — admin @ 16:31

Cercando in rete la biografia di uno dei più prestigiosi studiosi di scenografia italiani, scenografo, docente, storico e critico, Franco Mancini, ho notato con grande dispiacere che mancava qualsiasi notizia. Rimedio a questa carenza per tutti coloro che sanno chi era ed anche per coloro che lo hanno soltanto sentito nominare.

FRANCO MANCINI
Estratto aggiornato della voce pubblicata nell’Enciclopedia dello Spettacolo

«Architetto, scenografo e studioso italiano di teatro, nato a Massa Lubrense (Napoli) il 20 Gennaio 1930. Laureatosi in architettura all’università di Napoli, dopo aver prestato servizio come assistente presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli (1955-1962), dal 1963 al 1966 è titolare alla cattedra di Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Nel ’67 torna all’Accademia di Napoli dove, dal ’70 all’84, ricopre anche la carica di direttore.
La sua attività di scenografo, iniziata nel 1955, si è svolta prevalentemente, con una riconoscibile coerenza di stile, a Napoli, per Eduardo De Filippo e il Teatro San Ferdinando (compagnie Scarpettina e De Filippo). Per lo stesso E. De Filippo ha allestito una serie di atti unici trasmessi dagli studi milanesi della RAI TV.
Mancini ha lavorato anche per il cinema, creando le scenografie di La sfida di Francesco Rosi (Leone d’argento al Festival di Venezia del 1958), L’isola di Arturo di Damiano Damiani (Gran premio al Festival di San Sebastiano del 1963), Lo sgarro di Silvio Siano (id.), I due della legione di Lucio Fulci (1962). Ha inoltre partecipato alla preparazione dei film La donna scimmia di Marco Ferreri e La rimpatriata di Damiano Damiani.
Le sue idee sulla scenografia, che egli rivendica (contro le esperienze occasionali di artisti figurativi) quale competenza esclusiva di una solida preparazione sia tecnica sia storico-culturale, sono esposte in alcuni articoli, tra i quali ricordiamo Scenografia: un rapporto da precisare in Critica d’arte, 1964, N. 62; Un’esperienza cinematografica: L’isola di Arturo, ivi, 1965, N. 69.
Ottimo studioso di storia della scenografia, si è occupato soprattutto di argomenti relativi al teatro locale, pubblicando in Napoli nobilissima una serie di articoli poi raccolti nel volume Scenografia napoletana dell’età barocca (Napoli, 1964)». É anche autore di un fondamentale saggio sulla scenografia del ‘900 dal titolo L’evoluzione dello spazio scenico dal naturalismo al teatro epico, Ed. Dedalo, Bari, 1975.

«Questo saggio di Franco Mancini penetra nel vivo di una esperienza che non può non considerarsi oggi come dotata di una sua specifica validità entro il sistema tradizionale delle arti, e che anzi contribuisce a mettere in crisi le sue partizioni consuete. L’esplorazione che così risulta – attraverso nomi prestigiosi, da Diaghilev a Piscator, da Stanislavski a Meyerhold, da Appia a Craig, a Bragaglia –, non ripercorre perciò sentieri tracciati, ma apre una nuova via, o una nuova ottica, su gran parte dello spazio artistico moderno e contemporaneo: entro e al di fuori del teatro».

 

 

SCENOGRAFIE TEATRALI (tutte a Napoli salvo diversa indicazione):

1955 – O’ scarfalietto di E. Scarpetta (T. S. Ferdinando, regia M. Mangini)
1956 – Nina Bonè di E. Scarpetta (Ivi, regia Id.); La venere coi baffi di M. Amendola e R. Maccari (T. Politeama, regia degli autori)
1957 – ‘Na mugliera zetella di E.Scarpetta (T. S. Ferdinando, regia R. Minervini); Era zetella, ma… di V.Scarpetta (Ivi, regia Id.); Tre cazune furtunate di E. Scarpetta (Ivi, regia A.Brissoni)
1958 – ’Nu turco napulitane di E. Scarpetta (Ivi, regia E. De Filippo); Cane e gatte di E. Scarpetta (Ivi, regia Id.); ‘A casa vecchia di E. Scarpetta (Ivi, regia Id.); La fortuna con la effe maiuscola di E. De Filippo e A.Curcio (Ivi, regia Id.); Duie marite ‘mbruglìune di E. Scarpetta (Ivi, Regia M. Mangini); Le bugie con le gambe lunghe di E. De Filippo (Roma, T. Valle, regia E. De Filippo); Anema e core di Vinti e Nelli, musiche di Tito Manlio (T. Mediterraneo, regia M. Landi)
1959 – Il processo Fiaschella di E. Scarpetta (T. S. Ferdinando, regia M. Mangini); Tanta guaie pe’ durmì di V. Scarpetta (Ivi, regia Id.); Nu figlio a pusticcio di E. Scarpetta (Ivi, regia Id.); Miseria e nobiltà di E. Scarpetta (Ivi, regia Id.); I due Sciosciammocca di E. Scarpetta (Ivi, regia Id.); Zetiello vedovo e ‘nzurato di E. Scarpetta (Ivi, regia Id.); Il medico dei pazzi di E. Scarpetta (Ivi, regia E. De Filippo)
1960 – Le nuvole di Aristofane (T. alla Floridiana, regia M.Galdieri); L’osteria di Marechiaro di F. Cerlone (T. SME, regia E. De Mura)
1961 – Vado per vedove di G. Marotta e B. Randone (T. Politeama, regia L. De Felice); Pensaci Giacomino! di L. Pirandello (Ivi, regia R. Minervini)
1962 – L’età dell ‘oro, coreografie di V. Lombardi (T. Mediterraneo)
1964 – Dolore sotto chiave e Uomo e galantuomo di E. De Filippo (T. S. Ferdinando, regia E. De Filippo)
1965 – La malizia de li femmene di F. Cerlone (T. Bracco, regia V.Viviani); L’albergo del silenzio di E. Scarpetta (Ivi, regia Id.)
1985 – Ernani di G. Verdi (Modena, T. Comunale, regia G. De Bosio)
1987 – Elisabetta regina d’Inghilterra di G. Rossini (Torino, T. Regio, regia G. De Bosio)

SCENOGRAFIE CINEMATOGRAFICHE

1957 – La sfida di Francesco Rosi (Leone d’argento al Festival di Venezia del 1958)
1962 – L’isola di Arturo di Damiano Damiani (Gran premio al Festival di San Sebastiano del 1963)
Lo sgarro di Silvio Siano
I due della legione di Lucio Fulci.
Ha inoltre collaborato alla preparazione dei film La donna scimmia di Marco Ferreri (1963) e La rimpatriata di Damiano Damiani (1963)

SCENOGRAFIE TELEVISIVE

1956 – tre atti unici di E. De Filippo: Il chiavìno, I morti non fanno paura, Il dono di Natale (regia televisiva V. Bigazzi)
1958 – La cantata dei pastori di A. Perrucci (regia V. Viviani)
1959 – Il medico dei pazzi di E. Scarpetta (regia E. De Filippo); La fortuna con la effe maiuscola di E. De Filippo e A. Curcio (regia E. De Filippo)

APPARATI FESTIVI

1960 – Per la festa di Piedigrotta, nel centenario dell’Unità d’ltalia, il carro Partenope capitale delle Due Sicilie
1969 – Per la festa di Piedigrotta, impianto scenografico dello spettacolo acquatico La leggenda di Niccolò Pesce, rappresentato, con la regia di G.Magliulo, nello specchio di mare tra Castel dell’Ovo e Mergellina
1970 – Per Natale a Napoli, coordinamento degli addobbi per sei piazze cittadine affidati ad un gruppo di artisti: Carlo Alfano (piazza Vanvitelli), Renato Barisani (piazza Carità), Gerardo Di Fiore (piazza Nicola Amore), Carmine Di Ruggiero (piazza Trieste e Trento), Mario Persico (piazza Amedeo), Gianni Pisani (piazza dei Martiri).

ALLESTIMENTI Dl MOSTRE

1975 – Illusione e pratica teatrale. Venezia, Fondazione Giorgio Cini
1978 – La Regione Campania e le celebrazioni del centenario dell’Università di Stoccolma. Stoccolma, Palazzo della Cultura, 4 -10 dicembre
1980 – Il trucco urbano, sezione della mostra Civiltà del Settecento a Napoli. Napoli, Villa Pignatelli
Vita popolare in Campania. Documenti e testimonianze. Napoli, Castel dell’Ovo
Napoli arte 80. Napoli, Casina dei fiori, luglio-settembre
Ceramiche popolari. Capri, Certosa San Giacomo
Le statue della Grotta Azzurra. Capri Certosa di San Giacomo, estate (1980 0 1981)
La Madonna dell’Idria. Napoli, Castel dell’Ovo
Natale a Villa Pignatelli. Manoscritti e miniature, sculture dipinti e disegni, scenografie e figurine presepiali. Napoli, Villa Pignatelli
1981 – Napoli nelle raccolte Alinari. Napoli, Convento di Santa Chiara, 30 aprile
Giorgio Sommer fotografo a Napoli. Napoli, Casina del Fusaro, 12 settembre
Il Vesuvio. Mito, religiosità, arte, scienza, proposte d’uso. Somma Vesuviana, Convento di Santa Maria del Pozzo, dicembre-gennaio
Natale a San Gregorio Armeno. dicembre
1982 – La scrittura e il gesto. Itinerari del teatro napoletano dal Cinquecento ad oggi, Napoli, Palazzo Reale, Galleria Principe Umberto, Castel dell’Ovo
1987 – Leopardi. Napoli, Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele
1990 – Leopardi. La vita, i luoghi, le opere. Mostra itinerante (Madrid, Chicago, New York, Berlino, Teggiano)
2000 – Johann Sebastian Bach Thomaskantor. Napoli, Conservatorio San Pietro a Majella, luglio

SOGGETTI E SCENEGGIATURE PER LA TV

1980 – Il trucco urbano
1981 – Piedigrotta. Una festa che muore
198 ?? – Il presepe napoletano

PUBBLICAZIONI

1963 – Le maschere e i carri di Carnevale nel periodo barocco, in ’Nferta napoletana. Napoli, Fiorentino
1964 – Scenografia napoletana dell’età barocca. Napoli, ESI
1966 – Scenografia italiana dal Rinascimento all’età Romantica. Milano, Fratelli Fabbri
Il Piermarini e la costruzione del teatro alla Scala, in La Scala. Milano, Nuove Edizioni
Il presepe napoletano nella collezione Eugenio Catello. Firenze, Sansoni
1968 – Feste ed apparati civili e religiosi in Napoli. Dal Viceregno alla Capitale., Napoli, ESI
1969 – Prefazione al volume di Elio Catello Francesco Celebrano e l’arte nel presepe napoletano del ‘700. Napoli, Berisio
1972 – L’allestimento scenico nell’opera dei trattatisti, in Scritti in onore di Roberto Pane. Napoli, Istituto di Storia dell’architettura dell’Università di Napoli
1975 – L’evoluzione dello spazio scenico dal Naturalismo al teatro epico. Bari, Dedalo
1980 – L’illusione alternativa. Lo spazio scenico dal dopoguerra ad oggi. Torino, Einaudi
Scenografia napoletana dell ‘Ottocento. Antonio Niccolini ed il Neoclassico. Napoli, ESI
Lindström e l’illustrazione di costume a Napoli. Napoli, SOGRAME
Il repertorio magico in Napoli e la Campania, in Guida dell ‘Espresso. Venezia, Neri Pozza
1981 – Con l’Abbé de Saint·Non alla riscoperta del popolare, in Sul Voyage Pittoresque dell Abate di Saint-Non. Napoli, SEN
1982 – Il presepe napoletano. Napoli, SEN
1983 – Il presepe napoletano. Scritti e testimonianze dal secolo XVIII al 1955. Napoli, SEN
1984 – I teatri del Veneto. Verona e Vicenza, vol. II (in collaborazione con Maria Teresa Muraro ed Elena Povoledo). Venezia, Corbo e Fiore
1985 – Gli apparati, in La scena della festa. Bozzetti ed apparati scenografici per la festa dei Quattro Altari di R. De Majo. Napoli, Guida
Pietro Fabris. Raccolta di varii vestimenti ed arti nel Regno di Napoli. Napoli, Guida
1986 – Lady Hamilton. Una donna d’altri tempi. Massa Lubrense, Il sorriso di Erasmo
1987 – Il teatro di San Carlo (1737-1987), La storia, la struttura. Napoli, Electa Napoli
Il teatro di San Carlo (1737-1987), Le scene, i costumi. Napoli, Electa Napoli
1988 – I teatri del Veneto. Padova e Rovigo, vol. III (in collaborazione con Maria Teresa Muraro ed Elena Povoledo). Venezia, Corbo e Fiore
Le feste al San Carlo, in Il Teatro di San Carlo. Milano, Franco Maria Ricci
I due Bellini, in Il teatro Bellini. Napoli, Araba Fenice
Philzpp Hackert. Un pittore cesareo alla corte di Ferdinando IV. Napoli, Grimaldi
1990 – La scena illusiva. Dallo spazio prospettico all’atmosfera drammatica, in Romolo Liverani scenografo. Faenza, F.lli Lega
1990 – Introduzione alla ristampa della raccolta: Carl Jacob Lindstrom, Panorama delle Scene Popolari di Napoli, 1832 con note di Roberto Pane. Napoli, Fiorentino
1991 – I luoghi, le feste, in Nel segno della tradizione: Piedigrotta. I luoghi, le feste, le canzoni. Napoli, Guida
Le metamorfosi di Clerici, in Fabrizio Clerici al teatro alla Scala. Milano, Edizione Amici della Scala
1993 – La Nunziatella nel vedutismo, in La Nunziatella. Napoli, Fiorentino
Schede di aggiornamento per la ristampa del volume di Raffaele D’Ambra, Napoli antica. Napoli, Franco Di Mauro
I pastori napoletani del Settecento nelle raccolte sorrentine. Napoli, Franco Di Mauro
1994 – I teatri del Veneto. Treviso e la marca trevigiana, vo1.IV (in collaborazione con Maria Teresa Muraro ed Elena Povoledo). Venezia, Corbo e Fiore
Introduzione alla ristampa del volume di Antonio Perrone, Il Presepe a Napoli. Cenni storici. Lecce, Argo
I travestimenti del Monarca, introduzione alla ristampa della raccolta Costumi della festa data da S. Maestà il di 20 Febbraio 1854 Nella Reggia di Napoli. Opera dedicata a S.A.R. L’Infante D. Sebastiano Gabriele da Luigi Marta. Napoli, Franco Di Mauro Editore
1994 – Due regni per un teatro, introduzione al volume Il Teatro Verdi. Salemo, Edizioni 10/17
1995 – I teatri del Veneto. Venezia. Teatri effimeri e nobili imprenditori, vol. I tomo 1 (in collaborazione con Maria Teresa Muraro ed Elena Povoledo). Venezia, Corbo e Fiore
1996 – I teatri del Veneto. Venezia e il suo territorio. Imprese private e teatri sociali, vol. I tomo I1 (in collaborazione con Maria Teresa Muraro ed Elena Povoledo). Venezia, Corbo e Fiore (I° premio Salotto Veneto 1997)
1997 – L’arredo urbano ovvero perennità dell’effimero, in Cosimo Fanzago, Protagonisti nella storia di Napoli n. 7. Napoli, Elio De Rosa Editore
I teatri di Natale, in Presepe napoletano. Napoli, Franco Di Mauro Editore
ristampa del volume Feste ed apparati civili e religiosi in Napoli dal Viceregno alla Capitale. Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane
1998 – Il presepe napoletano nel mondo. La raccolta Bordoni. Napoli, Franco di Mauro Editore
1999 – Il presepe napoletano nel mondo. La raccolta Scarlato. Napoli, Franco Di Mauro Editore
Il presepe napoletano nel mondo. La raccolta Roberto Catello. Napoli, Franco Di Mauro Editore
Nuove finalità e vecchie consuetudini negli spettacoli della Repubblica Napoletana, in Napoli I799 (in collaborazione con Maria Rascaglia). Napoli, Franco Di Mauro Editore
2001 – Il presepe napoletano nel mondo. La raccolta Soricelli. Napoli, Franco Di Mauro Editore.
Ferdinando II. Da Re Bomba a Re alle armi, introduzione alla ristampa del Torneo di Caserta. Napoli, Franco Di Mauro Editore.
2006 – Il presepe napoletano nel mondo. La raccolta Giuseppe Lembo. Napoli, Franco Di Mauro Editore.

COLLABORAZIONI A CATALOGHI

1966 – Un pretesto e qualche idea, in Il presepe Cuciniello. Mostra di pastori restaurati.Napoli, Museo di San Martino
1970 – La produzione del periodo borbonico, in Figure presepiali napoletane dal sec. XIV al sec. XVIII, Napoli
1972 – Naples & its region. Boston City Hall
1975 – Illusione e pratica teatrale (a cura di Franco Mancini, Maria Teresa Muraro, Elena Povoledo). Venezia, Neri Pozza
1980 – Il trucco urbano, in Civiltà del Settecento a Napoli. Firenze, Centro Di
1982 – La commedia dell’arte e il teatro erudito e Il concreto evanescente per la mostra La scrittura e il gesto. Itinerari del teatro napoletano dal Cinquecento ad oggi, Napoli, Guida
1984 – L’immaginario di regime. Apparati e scenografie alla corte del vicerè, in Civiltà del Seicento a Napoli. Napoli, Electa Napoli
1985 – L’illustrazione di costume, in Gouaches napoletane del Settecento e dell ’Ottocento. Napoli, Electa Napoli `
1986 – Gli scritti di Pietro Gonzaga (in collaborazione con Maria Teresa Muraro), in Omaggio a Pietro Gonzaga. Centro culturale Longarone
I sentieri neodorici dell’effimero, in La fortuna di Paestum e la memoria moderna del Dorico (1750-1830). Firenze, Centro Di
1989 – La scena è bella: oggettività e trasfigurazione negli allestimenti dannunziani, in Arte italiana. Presenze 1900-1945. Milano, Fabbri-Bompiani
1997 – Figurinisti e sartori dal rococò al romantico, in Costumi di Odette Nicoletti per Le convenienze e le inconvenienze teatrali di Gaetano Donizetti. Napoli, Gaetano Macchiaroli Editore
La scenografia sancarliana all ‘epoca di Donizetti; I teatri dei Borbone. Due storie in centoimmagini; Cronologia degli spettacoli (1822-1860), in Donizetti e i teatri napoletani nelI ‘Ottocento, (mostra a cura di Franco Mancini e Sergio Ragni). Napoli, Electa Napoli
Perennità dell’effimero, introduzione al catalogo della mostra Capolavori in festa. Effimero barocco a Largo di Palazzo (1683-1 759). Napoli, Electa Napoli
Giacomo Pregliasco in Raccolte teatrali tra classico e parodia. Napoli, Electa Napoli
Gli scenografi di Piccinni nei teatri napoletani, in Piccinni, Bari 2000

COLLABORAZIONI A CONVEGNI, RIVISTE, ENCICLOPEDIE

1955-1965 – voci: Vincenzo Re, Antonio Niccolini, Attilio Colonnello, Ezio Frigerio, Lorenzo Ghiglia, Eugenio Guglielminetti, Maurizio Monteverde, Gian Franco Padovani in Enciclopedia dello spettacolo. Firenze -Roma
1961-1962 – Opere e Scenografi a Napoli nel secolo XVIII in Il San Carlo, anno III, fasc.]; anno IV, fasc. II e IV
1961 – Introduzione alla storia della scenografia napoletana, in Napoli nobilissima, anno I, fasc. II
1961 – Due teatri napoletani del XVII secolo: il Nuovo ed il San Carlo, in Napoli nobilissima, anno I, fasc. III
1962 – Appunti per una storia della scenografia napoletana del Settecento. L’epoca d’oro: Pietro Righini e Vincenzo Re, in Napoli nobilissima, anno I1, fasc. Il
Appunti per una storia della scenografia napoletana del Settecento. Il periodo della decadenza: 1762-1806, in Napoli nobilissima, anno II, fasc. IV
1963 – Appunti per una storia della scenografia napoletana del ’700: i teatri Minori e le case private, in Napoli nobilissima, armo III, fasc. I
1964 – Un’ autobiografia inedita di Antonio Niccolini, in Napoli nobilissima, anno III, fasc. V
Scenografia: un rapporto da precisare, in Critica d’arte, anno XI n.s., fasc.62
1965 – Un’esperienza scenografica: L’isola di Arturo, in Critica d’arte, anno XII, n.s., fasc.69
1967 – L’attribuzionismo presepiale e Giuseppe De Luca, in Napoli nobilissima, anno VI, fasc. I-II
1968-1969 – Scenografia romantica, in Critica d’arte, anno XV n.s., fasc.96 e 98; anno XVI n.s., fasc.104
La scenografia del presepe nella storia della teatralità napoletana. Betlemme del Vesuvio, in Il Mattino illustrato, 22 dicembre 1979, anno III, nn.5l-52 ·
1978 – Alcune note sul rapporto sala-scena nel teatro all’italiana, in Venezia e il melodramma nel Settecento, Firenze Olschki
197(?) – voce Scenografia, in Enciclopedia Treccani, volume di aggiornamento
1980 – Il Teatro più bello, in Campania stagioni, fasc.1
Uno svedese a Napoli: Lindstrom e i costumi popolari, in Campania stagioni, fasc, 2
1980 – Varie voci in Enciclopedia del teatro del 900, Milano Feltrinelli
1981 – Apparati e scenografie nel ’700 napoletano, in Campania stagioni, fasc. 3
Luigi Correra, Il presepe a Napoli, con una nota di F. M., in Campania stagioni, fasc.4
L’arte di fare presepi è perduta per sempre, in Qui Touring, dicembre 1981, armo XI, fasc. 37-38
1982 – Genesi e sviluppo dell’iconografia di Pulcinella, in Campania stagioni, fasc. 5
1984 – Piazze, feste ed apparati, in Campo, anno V, fasc.18-19
1986 – Il San Carlo negli scritti dei viaggiatori stranieri, in Campo, anno VII fasc. 25-26
1989 – Il rovinismo nella scenografia del Settecento (con la collaborazione di Pino Simonelli), in Il teatro a Roma nel Settecento. Roma, Enciclopedia Treccani
1993 – Il presepe a Sorrento, in La terra delle Sirene n.8
1995 – I teatri di Natale, in Il Mattino ??? dicembre
1996 – L’arredo urbano, ovvero perennità dell’effimero, in Cosimo Fanzago, fascicolo N.7 della serie I protagonisti della storia di Napoli. Napoli, Elio De Rosa Editore
1998 – Per una ricostruzione virtuale del teatro Novissimo, in Giacomo Torelli (1604-1678). Fano, Centro Teatro (Atti del convegno tenuto a Fano nel 1996)

COLLABORAZIONI VARIE

Storia di Napoli. Napoli ESI; Il Mattino; Quaderni di teatro; Scena

CONSULENZE

1985 – Incarico del Comune Massa Lubrense per il restauro del Castello aragonese con il progetto di un teatro all’aperto (arch. Salvatore Zarrella).
1987 – Incarico del Teatro Comunale di Modena perla sostituzione del Sipario
1990 – Incarico della Soprintendenza di Coordinamento per il restauro della Cavallerizza del Palazzo Reale di Napoli da adibire a museo teatrale (arch. Antonio Quistelli e Alfredo Bisogni)
2000-2002 – Progetto del costituendo museo del San Carlo, su incarico conferito dalla Soprintendenza del teatro
2002 – Consulenza per l’allestimento del Presepe di corte nel Palazzo Reale di Madrid, su invito del Patrimonio Nacional
2008 – Consulente del Commissario straordinario per l’allestimento ed il coordinamento del costituendo Museo storico del San Carlo

ne hanno scritto:
Dora Amato, Alberto Bertolini, Vincenzo Buonassisi, Michele Buonomo, Elio Cadelo, Giovanni Calendoli, Francesco Vanessa, Mario Cattafesta, Raffaello Causa, Angelo Cavallo, Stella Cervasio, André Chastel, Rita Cirio, Almerico De Angelis, Ghigo De Chiara, Paola Del Vecchio, Angelo Di Giacomo, Ugo Di Pace, Fabio Doplicher, Maurizio Fagiolo dell’Arco, Anna Maria Fierro, Enrico Fiore, Gianfranco Folena, Mario Forgione, Carlo Franco, Federico Frascani, Arturo Fratta, Donatella Gallone, Pietro Gargano, Giacomo Ghirardi, Guglielmo Gigli, Enzo Golino, Gino Grassi, Luigi Greci, Franco Carmelo Greco, Clemente Hellenger, Angelo Jaccarino, Ruggero Jacobbi, Riccardo Lattuada, Sergio Lori, Gennaro Magliulo, Filiberto Menna, Roberto Minervini, Atanasio Mozzillo, Augusto Muojo, Gino Nogara, Sandra Orienti, Roberto Pane, Rosanna Pecchio, Domenico Petrocelli, Mario Pomilio, Elenora Puntillo, Ermanno Rea, Pierre Restany, Paolo Ricci, Pino Simonelli, Michele Sovente, Mario Stefanile, Max Vajro, Lea Vergine, Mercedes Viale Ferrero, Clara Zambonini

28 Settembre 2012

Intervento del Prof. Daniele Paolin per gli incontri “Luciano Damiani: la rivoluzione della scena” – Casa dei Teatri – Villa Pamphilj – Roma – Gennaio/Marzo 2011

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archetipi e nuova scenotecnica

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