Appunti sul Teatro La Fenice
Come nel melodramma, l’ultimo atto di questo teatro è stata la sua distruzione, il suo incendio; questo finale, come nell’opera, ha suscitato profonda commozione ed una sentita partecipazione al dolore della città innanzitutto, ma del mondo intero, come si ha ampia testimonianza. L’angoscia ed il senso d’impotenza di fronte al tremendo spettacolo delle fiamme, hanno emotivamente portato all’imperativo che, alimentato dai media, è diventato la parola d’ordine per tutti e per tutte le occasioni: dov’era e com’era.
Com’era
L’immaginazione e la memoria soprattutto, nel ricordare com’era, si fanno sempre più confuse, con l’andare del tempo. Il foyer e l’ingresso sono lucidi, illuminati, rosati; ma entrando in platea, si ha la sensazione di entrare in un ambiente sordo, compresso, dorato, ma di un oro cupo, opaco; anche il lieve e sfumato azzurrino della volta della sala sembra come annerito; il rosa antico dei velluti contrasta con il verde scurissimo del sipario sul quale spiccano gli ori, questa volta luminosi, delle passamanerie e dei fiori, in parte ricamati ed in parte di cuoio stampato. Solo il golfo mistico emana una strana luce quasi abbagliante. Questo il probabile ricordo dello spettatore.
Ma dietro gli ori, i velluti, i legni lucidati e gli stucchi, i ricordi rimandano alla paglia e al gesso, alla cartapesta, al legno sfibrato ed ingrigito, alla polvere. Il “dietro le quinte” è un vero, autentico dietro le quinte: tralicci, staffe, sostegni, passaggi angusti, bui, spazi difficili, complessi, articolati, asimmetrici, scale ripide e consunte, scricchiolii…
La sala era essa stessa una scenografia (anche perché, in origine, a progettarne le decorazioni era stato uno scenografo, com’era in uso in quel periodo, Francesco Fontanesi, che realizzerà le scene per I giuochi d’Agrigento, prima opera rappresentata nel nuovo teatro). Scenografia nella sala, scenografia in palcoscenico: un tutt’uno. Ma che cosa è il vero, la realtà, il reale e che cosa è il falso, la simulazione, il finto, l’evocato? L’ambiguità è parte determinante nel gioco teatrale e soprattutto scenografico: in palcoscenico esiste un mondo fatto di realtà ed illusione, decorazioni ed intelaiature, sculture e meccanismi idraulici, architetture effimere ed argani elettrici, evanescenti velari e potentissimi proiettori.
E quale valore quindi possiamo attribuire a tutta una serie di considerazioni su un’eventuale Fenice il più possibile “vera” contro una “falsa, finta” alla luce del fatto che queste prerogative sono alla base della scenografia e del teatro più in generale? Questi e molti altri temi avrebbero potuto essere materia di confronto e di prolifica discussione, ma questa è mancata, è stata sepolta dalla fretta con le macerie, soffocata quasi dallo slogan dov’era e com’era.
La sala, assieme al foyer, probabilmente rappresenta, nell’immaginario collettivo, la parte del teatro che più si vorrebbe fedele nella ricostruzione. Subito dopo l’incendio, su quest’argomento, si sentiva pontificare che la parte riguardante il palcoscenico si sarebbe potuta cambiare anche radicalmente, innovare tecnicamente per farne un teatro “moderno”, ma per quanto riguardava la sala si diventava inflessibili, intransigenti: esattamente com’era! Ma a tale proposito si dovrebbero fare alcune riflessioni, parte dovute ad un cambiamento sociale e di costume – anche se la più parte degli spettatori di teatro d’opera sono legati sicuramente ad una giusta dose di tradizione, compresa quella più o meno dichiaratamente “mondana” – e parte dovute a motivazioni squisitamente tecniche e funzionali. C’è da chiedersi innanzitutto se abbiano ancora una qualche validità strutture quali i palchetti separati ad alveare ad una parte dei quali si era già rinunciato a metà ‘800 (con la trasformazione del penultimo ordine in galleria e cioè senza divisioni data la gran popolarità che aveva assunto il melodramma in quel periodo); ma soprattutto a cosa potrebbe servire il palco reale, visto che della dominazione francese ed austriaca, che l’avevano imposto, oggi non c’è più traccia? L’uso di questi angusti, piccoli vani di legno era, in passato, legato alla proprietà o all’affitto da parte di nuclei omogenei, spesso familiari, di spettatori che aspiravano ad una certa privacy da una parte, e dal diffuso gusto, dall’altra, di esibire un’immagine il più possibile ufficiale ed adeguata al censo d’appartenenza del gruppo. Dato che spesso, all’epoca, dell’opera vera e propria non ci si curava più di tanto se non nei brani più noti e particolarmente interessanti e comunque dentro queste piccole celle l’acustica non poteva che essere approssimativa soprattutto nella parte di fondo, sarebbe probabilmente il caso di approfittare della ricostruzione per studiarne forse una sistemazione migliore soprattutto sotto i profili visivo ed acustico. La prerogativa più interessante del teatro scomparso era rappresentata dalla relativamente scarsa profondità della sala. L’impatto visivo con il quadro scenico era, quindi, diretto, immediato, con giusti rapporti di vicinanza e quindi di partecipazione dato che un’eccessiva distanza da esso ci porta sensibilmente in una dimensione meno teatrale e più cinematografica se non addirittura televisiva e quindi più distaccata. L’occhio scorreva come dentro un avvenimento e lo sguardo scandagliava ed indagava senza abbracciare la totalità della rappresentazione. Il punto del principe ovvero il punto della platea dal quale partono i raggi visuali, quei raggi che servono alla progettazione ed alla restituzione di una scena e a creare quindi quei metri prospettici che stanno alla base di una corretta realizzazione delle scenografie, era situato nella seconda metà della platea, più verso il fondo e, essendo solitamente calcolato ad una distanza di circa una volta e mezza l’ampiezza del boccascena, assicurava un angolazione visuale del boccascena di circa 40°, perfetta anche dal punto di vista prospettico fin quasi a fondo sala. L’unico problema, dal punto di vista visivo, era costituito da un’eccessiva vicinanza dei primi posti, soprattutto quelli relativi alle barcacce o palchetti di proscenio (si affacciavano sul golfo mistico), che costringevano spesso i tecnici a complicate manovre di “copertura” e di traguardo per evitare i cosiddetti “sforamenti” ossia parti di strutture di palcoscenico che non è conveniente vedere. La leggera inclinazione (5%) della platea, pari a quella del palcoscenico, ma di opposto orientamento, permetteva una buona visibilità, ma l’odierno indirizzo della maggior parte dei teatri europei contemporanei (a partire da quello wagneriano di Bayreuth) è quello di lasciare il palcoscenico in piano, inclinando maggiormente, con gradoni, la linea dei posti di platea. Vi erano poi, sicuramente, altre cose che infastidivano nella sala come, ad esempio, la mancanza di una saletta di regia che costringeva al sacrificio di uno o due palchetti, in posizione centrale, per i tecnici ed il maestro addetto agli effetti di luce, i quali spesso disturbavano l’ascolto e l’attenzione degli spettatori prossimi alla postazione. Anche l’uso di apparecchiature illuminanti e tecniche dalla sala obbligavano a sovrapporre ai “preziosi” stucchi ed alle eleganti decorazioni delle orribili staffe di aggancio dei proiettori che rimanevano, così, poco elegantemente a vista, quasi da perenne teatro brechtiano. Altro antiestetico problema era rappresentato spesso dalle sottotitolazioni per la traduzione simultanea di opere in lingua straniera che vedevano l’abbinamento di storici e sinuosi panneggi a ridicoli schermi sostenuti da altrettanto ridicoli cordini a vista. Nell’ultima parte della sala, prima del fronte del palcoscenico era situata la fossa d’orchestra o golfo mistico, come la definì Wagner. Dal punto di vista funzionale, aveva una buona rispondenza acustica ed un buon rapporto con la sala, considerato anche il poco spazio a disposizione. Spesso, però, era insufficiente per organici particolari essendo fissa dal punto di vista dimensionale, quindi non ampliabile, ma, essendo stata concepita unicamente con prerogative funzionali unicamente per il teatro d’opera, diventava di difficile gestione quando qualche grande concerto prevedeva orchestra e coro in palcoscenico, oppure qualche scelta registica o iniziative particolari quali presentazioni, premi o convegni, costringevano ad operazioni di parziale o totale sua copertura e praticabilità. Queste operazioni, che richiedevano il trasporto ed il montaggio di una complessa struttura portante di riempimento per la costruzione di un piano di calpestio che si prolungasse oltre il proscenio, richiedevano una notevole disponibilità di personale e di tempo, condizioni che spesso non sussistevano. Un’adeguata modularità di quote e di dimensioni di un sistema di pedane mobili che consentissero di raggiungere il livello del palcoscenico, oltre ad evitare costi e tempi sicuramente sconvenienti, avrebbero migliorato anche la sistemazione in altezza degli strumenti in seno all’orchestra stessa, creando dislivelli funzionali dal punto di vista musicale, ma soprattutto avrebbero favorito enormemente tutta la movimentazione, il trasporto, il sollevamento e la sistemazione degli strumenti e dei loro relativi, ingombranti imballaggi per il trasporto, il cui volume è decisamente notevole, facilitando così la programmazione di qualche concerto anche all’ultimo momento, come molto spesso avviene. Sulla frattura fra pubblico e palcoscenico, la cui cerniera dovrebbe essere rappresentata dalla fossa d’orchestra, si è dibattuto per più di un secolo. Il desiderio di molti registi ma anche di molti autori, drammaturghi e quindi anche molti scenografi, si orienta sempre più spesso verso l’abolizione di questa frattura, in favore di uno spazio scenico sempre meno convenzionale e sempre più di diretto contatto fra spettacolo e spettatori. Di questo si deve sicuramente tenere conto e quindi ogni soluzione che permetta la fusione o favorisca l’avvicinamento fra queste due entità deve essere valutata approfonditamente. Un teatro che sia congeniale ad un solo tipo di spettacolo o addirittura obbedisca unicamente ad una concezione spaziale rigidamente “storica” o solamente tradizionale, e non favorisca lo sviluppo di nuove forme drammaturgiche, scenografiche o registiche, non è un buon teatro. Basti pensare al teatro progettato da Semper e Brükwald per Wagner: è stata soprattutto la sua particolarissima concezione di teatro, la guida alla progettazione di quello che diventerà uno dei modelli più aggiornati di teatro musicale e di edificio teatrale in senso stretto ed al quale ancora oggi guardiamo come punto di riferimento. Il palcoscenico Il palcoscenico della Fenice, come la gran parte dei teatri all’italiana, non aveva dimensioni notevoli. Era proporzionato alla sala, ma non aveva una grande profondità: soli 18 metri dalla linea del sipario; si prolungava, poi, nel proscenio di altri 3 metri circa nella parte più sporgente della curva sopra l’orchestra dov’era inserita la fossa del maestro suggeritore. Appena all’interno dell’arco scenico in muratura, erano alloggiati il sipario metallico (o tagliafuoco), il sipario storico, il sipario principale di velluto, ed un tiro per siparietti o velatini di boccascena. Il vecchio sipario metallico, al momento dell’incendio, era da poco tempo stato sostituito con una struttura nuova, con caratteristiche di tenuta al fuoco decisamente superiore a quello precedente ormai arrugginito e cigolante. Anche il sipario storico, opera di Ermolao Paoletti risalente al 1878 e raffigurante l’arrivo a Venezia di Olderico Giustiniani recante l’annuncio della vittoria di Lepanto, era stato restaurato da poco tempo come pure il sipario principale di velluto ed il vecchio sistema di movimentazione con tiro a botte che era stato sostituito da un più aggiornato sistema elettromeccanico di apertura e chiusura all’italiana. Subito dopo la linea dei sipari si trovava il boccascena mobile, anch’esso di recente costruzione. La vecchia struttura era costituita da due torri mobili, a sistema reticolare metallico, che, con un movimento verso il centro, permettevano di diminuire o aumentare la larghezza del boccascena, ideale piano di proiezione degli elementi costituenti la scena ed ideale collocazione, quindi, di ogni bozzetto o progetto scenografico. Tale sistema era completato da una passerella fissa, anch’essa metallica e praticabile, che consentiva l’agganciamento ad essa di proiettori e riflettori, principale risorsa illuminotecnica di palcoscenico. Il tutto era rivestito, nella parte verso il pubblico, di velluto nero e costituiva una vera e propria cornice nera che lasciava un’apertura di metri 12.80 per un’altezza di 8, quasi un perfetto multiplo di un fotogramma (36X24) e quindi di buona proporzione 3:2. Il nuovo sistema invece, prevedeva due torri analoghe alle prime, ma fisse, mentre la passerella scorreva verso il basso fino a raggiungere il palcoscenico, operazione che facilitava enormemente le operazioni di carico e scarico del pesante materiale illuminotecnico usato. Sul lato destro, guardando la scena ed oltre la torre, trovava posto la cabina del direttore di scena, vero coordinatore dello spettacolo dietro le quinte, alla quale faceva anche capo il sistema di comunicazione con tutti i camerini di artisti, coro, comparse e tecnici per le chiamate in scena. Su quello sinistro, un’analoga cabina, sollevata da terra di circa tre metri, ospitava invece i tecnici ed il sistema computerizzato di controllo delle luci. Poche decine di centimetri dopo la linea delle torri di boccascena, erano situate le tre zone affiancate di metri 5X1 nelle quali si potevano ricavare delle botole, ovvero dei passaggi dal sottopalco, in realtà un corridoio di comunicazione fra uffici ed ingresso, ma unica zona che consentiva apparizioni ed ingressi dal basso, dato che, un metro dopo, verso il fondo, aveva inizio il complicato sistema di ponti mobili meccanici, che non consentiva tale operazione. Questo sistema, risalente ai lavori di ristrutturazione del 1936, era analogo a quello del Teatro alla Scala di Milano ed era costituito da quattro ponti paralleli al boccascena di metri 14X2 intervallati da altri quattro di metri 14X0.50 detti portarive; il tutto occupava quindi, in palcoscenico, un’area di metri 14X10 di profondità. I ponti più grandi erano divisi, a loro volta, in 14 pedane di metri 1X2 le cui quote erano variabili manualmente. Tutto il sistema di ponti, dal piano di palcoscenico, poteva essere abbassato di metri 1.50 per quote multiple di cm. 15 ed innalzato, con gli stessi incrementi, di metri 2.40 per mezzo di enormi pistoni idraulici situati in palcoscenico che negli anni avevano perso pressione e potenza non rendendo più accessibili le quote originarie. Tali ponti, modernissimi nel 1936 ma ormai sorpassati dalle contemporanee tecnologie, presentavano il grave difetto, oltre all’esasperante lentezza di movimento, costituito dall’operazione di bloccaggio del ponte alla quota prevista, operazione sottolineata da un sorpasso della quota prevista ed un secondo spostamento, poi, di breve discesa per assestamento dopo il fermo, rendendo ballonzolante ed antiestetico tutto il movimento. Le strutture di ferro che costituivano la parte portante dei ponti stessi ingombravano completamente tutta l’area a loro disposizione e quindi, considerando il fatto che non sprofondavano per più di m. 1.50, risultava chiara l’assoluta inservibilità del sottopalco per tutte quelle operazioni teatrali che comportavano accesso e praticabilità di questo spazio come discese, apparizioni, sprofondi, trabocchetti ed altro. Oltre l’ultimo ponte ancora quattro metri e poi il muro di fondo… La scarsa profondità di questo palcoscenico costringeva spesso a rinunciare ad una risorsa tecnica importantissima dal punto di vista scenografico: le retroproiezioni. Si è tentato di usare questa prezioso mezzo tecnico ricorrendo a complicate manovre, ma ottenendo risultati mediocri e comunque con notevoli aberrazioni; per un teatro più funzionale ed attuale risulterebbe necessario avere una buona profondità ottenibile anche con l’uso promiscuo di spazi di servizio o stivaggio per i cambi di scena, ma la particolarissima conformazione urbanistica di Venezia ha sempre vietato qualsiasi operazione di sconfinamento dell’area del palcoscenico. Tutto ciò era aggravato enormemente anche dall’esiguità degli spazi laterali del palcoscenico. Lo spazio a sinistra, per chi guarda il palcoscenico, si estendeva per soli quattro metri oltre l’area dei ponti e le poche decine di decimetri prima del muro perimetrale erano state occupate dai grandi pistoni per la movimentazione dei ponti. Sulla destra, poco più di sei metri distanziavano le pedane mobili dalle tre arcate ad ogiva che reggevano la parete laterale. Era impossibile, quindi, qualsiasi tipo d’importante movimento scenografico simmetrico, esigenza fra le più frequenti nel teatro d’opera. La stessa ampiezza delle luci delle tre arcate – m. 3.50, 3.20, 2 – era notevolmente insufficiente per lo stivaggio temporaneo di grosse costruzioni scenografiche costringendo a sezionare tali elementi in maniera esagerata. Oltre le tre arcate, si trovavano gli unici due spazi utilizzabili per il magazzinaggio temporaneo delle scene e delle attrezzature, che in un’opera sono molto ingombranti. Questi due spazi, attigui, uno di forma triangolare e l’altro quadrata, occupavano un’area di circa 200 mq., assolutamente minima se si pensa che in uno spettacolo medio ci sono costruzioni per 5/600 mq. Succedeva molto spesso che, verso la fine delle repliche di un’opera che naturalmente ingombrava enormemente tutti gli spazi utilizzabili, le scene della successiva cominciassero ad arrivare, creando così notevoli disagi. La soffitta La risorsa principale, dal punto di vista scenografico, risultava quindi essere la soffitta, che comprendeva tutta l’area del palcoscenico. Era interamente in legno ed era stata ristrutturata anch’essa nei lavori del ’36, quando era stata sdoppiata ed innalzata di ben otto metri rispetto alla precedente, raggiungendo un’altezza media, rispetto al piano di palcoscenico, di 24 metri, misura quasi ideale per un boccascena alto 8, con un rapporto ottimale di 1:3. In essa trovavano posto 37 tiri fissi, manovrati dal 1° dei tre ballatoi, con possibilità di contrappeso oltre all’ultimo che era elettrico ed era relativo alla centina che sosteneva il panorama, l’ultimo fondale che spesso rappresenta il cielo nelle scene di esterno. Ogni tiro, costituito da una struttura reticolare in tubolare di ferro alta 30/40 cm. circa e lunga 18 metri chiamata stangone sorretta da 5 o 7 cordini di acciaio, poteva sopportare un peso di 600 kg. circa. Nella soffitta trovavano poi posto quattro argani a catena da 1500 kg. l’uno, con gabbia spostabile in qualsiasi punto della graticciata ed un argano centrale di 5000 kg, scorrevole su una rotaia fissa d’acciaio che evitava così di gravare sulla struttura lignea. La scarsità degli spazi, alla Fenice, costringeva molto spesso ad un uso intensivo della soffitta, oberata com’era anche da una presenza, peraltro indispensabile, di apparecchi illuminotecnici spesso pesanti ed ingombranti, ma in qualche caso, soprattutto quando il teatro ospitava spettacoli che venivano da altri teatri contemporanei, in maggioranza tedeschi e inglesi, che presupponevano grossi carichi per la soffitta, era indispensabile qualche verifica di carico. Si deve sottolineare il fatto, a proposito di quest’esempio, che la tecnica costruttiva scenografica, negli altri paesi europei, non abbia assimilato tutte quelle prerogative di “leggerezza” tipiche della scenotecnica tradizionale italiana, per cui, a parità di ingombri, una scena costruita in un laboratorio italiano pesa comunque almeno la metà delle analoghe europee. Sulla parete di fondo, ma fuori del palcoscenico sulla destra oltre le arcate, si apriva direttamente sul Rio menuo o de la Verona, la porta d’accesso per i materiali e le scene che dovevano essere issati in palcoscenico – la porta era a 4 metri circa dall’acqua – per mezzo di un argano scorrevole dall’interno all’esterno. Essendo il rio molto stretto in quel punto – non più di 3 metri – ed essendo molti elementi scenografici lunghi spesso 7/8 metri, le operazioni di carico e scarico risultavano spesso complicate anche se la porta aveva un’apertura di 2 metri per un’altezza di tre ed il muro della casa prospiciente portava evidenti segni e “ricordi” di costruzioni che passavano a fatica. La porta carraia si apriva su uno dei due spazi accessori e più precisamente quello a forma triangolare, sul quale si affacciavano anche le scale d’accesso agli spogliatoi del personale tecnico e le scale di tutti i camerini e cameroni di solisti, coro, comparse, ballerini: gli ingressi, soprattutto per quanto riguardava coro e comparse, erano quindi quasi sempre da destra, limitando enormemente soprattutto regia e scene. Se la scenografia non si sviluppava molto in profondità e non c’erano grossi ingombri ricoverati sul fondo, si poteva recuperare qualche passaggio nascosto per entrare dalla sinistra, ma nelle scene che si prolungavano verso la parte finale del palcoscenico e che addirittura prevedevano un panorama trasparente di cielo retroilluminato, gli ingressi da sinistra erano quasi impossibili. La Fenice era anche uno dei pochi ultimi teatri che ospitavano al loro interno e quindi nell’edificio teatrale vero e proprio un atelier scenografico operante, ricavato nel sottotetto relativo alla zona intermedia fra le sale apollinee e la sala, nel quale si effettuava, data l’esiguità degli accessi, la sola pittura su tela, che poteva così essere piegata e trasportata facilmente. Questo spazio, di notevoli dimensioni (metri 21X17), aveva rappresentato, in epoche in cui la pittura di scena era la principale risorsa scenografica, il punto nodale della produzione teatrale per più di un secolo e mezzo ed aveva visto alternarsi generazioni di scenografi di scuole ed epoche diverse. Sul salone, impreziosito da un bellissimo sistema di copertura a travi reticolari, si affacciavano sei grandi aperture semicircolari che assicuravano così un’ottima illuminazione. Col declino progressivo dell’uso della pittura di scena, l’organico dei pittori era stato drasticamente ridimensionato e questo incantevole spazio era così diventato oggetto di notevole attenzione da parte di altri settori produttivi del teatro. L’incendio ha favorito ed accelerato tale processo ed è quindi probabile che, con la ricostruzione, la destinazione di questo storico ambiente sarà, dopo 160 anni, tutt’altra… Aspetti della produzione teatrale …l’opera è un sogno in musica a occhi aperti, un sogno che si vuole rappresentare nel modo più concreto e più persuasivo possibile…per questo, nell’opera, la scenografia non svolge un ruolo accessorio, bensì indispensabile…Per svolgere appieno la sua funzione, la scenografia deve: essere onirica; interagire con la materia del sogno, e dunque essere mobile; persuadere per quanto possibile lo spettatore che quello che sta vedendo sulla scena è reale. Gérard Fontaine in “Sogno e delirio”, catalogo e titolo della mostra tenutasi a Roma all’Accademia di Francia sulle scenografie d’opera della Bibliothéque nationale de France nel 1998. Il magico spettacolo che noi, spettatori, assaporiamo, al di là d’ogni facile retorica, nasconde in realtà una ferrea organizzazione del lavoro, un’ottimizzazione ed un coordinamento degli interventi di carattere specialistico, tecnico ed artistico rigorosi, il coinvolgimento di strutture, attrezzature e tecnologie il più economiche, adeguate ed aggiornate possibili in rapporto al risultato previsto per lo spettacolo. L’importanza di una buona programmazione preventiva pluriennale, cosa peraltro difficile da realizzare a causa della endemica instabilità della durata di cariche quali Sovrintendente e Direttore Artistico, stabilita da strutture politico – artistico – amministrative, è presupposto indispensabile per la nascita di stagioni teatrali, concertistiche e di danza di buon livello, come anche per una più efficace politica di contenimento dei costi, due necessità di grande attualità soprattutto in questo periodo. Varie tipologie di spettacolo possono succedersi in una stagione teatrale ben programmata: opere, balletti, concerti con grandi o piccoli organici, conferenze, presentazioni, mostre, recitals, ed altre, nuove, potrebbero essere ospitate qualora il teatro fosse concepito in maniera meno convenzionale (rigida divisione fra palcoscenico e platea), per ognuna delle quali si richiedono esigenze di rappresentazione diverse. Ma l’attività che richiede lo sforzo organizzativo ed artistico più elevato è sicuramente lo spettacolo lirico. Ad esso concorrono i più numerosi e diversificati campi di competenza e di produzione. L’ideazione di uno spettacolo, la progettazione della sua scenografia e della sua regia, l’interpretazione visiva e musicale, il cast artistico e gli organici tecnico – musicali, da uno stadio di pura, poetica teoria, debbono man mano concretizzarsi fino a diventare materia di programmazione economica prima, e vero e proprio spettacolo poi. Il montaggio di uno spettacolo presuppone la preparazione, in sedi separate per mesi, di tutte le sue componenti che confluiranno in palcoscenico per le ultime prove d’assieme e per gli spettacoli; la parte musicale riguarderà l’orchestra, il suo direttore, gli archivisti musicali per le partiture, gli addetti alla logistica ed al trasporto strumenti, i maestri sostituti e suggeritori di palcoscenico, il coro, il corpo di ballo (qualora ci fosse), i cantanti solisti, le seconde parti. Ogni gruppo ed ogni singolo preparerà l’opera separatamente in tempi diversi; la parte visiva vedrà al lavoro il regista, i suoi assistenti, lo scenografo bozzettista, i realizzatori, i falegnami, i pittori, i fabbri, gli attrezzisti, il costumista, le sarte, i laboratori, il calzolaio, i parrucchieri e truccatori, il datore luci o light designer, gli elettricisti, i fonici, i trasportatori. Tutto questo sarà coordinato da altre figure e da altri settori quali gli uffici amministrativi e del personale per la parte amministrativa, dal direttore artistico per quella di coordinamento artistico, dalla direzione degli allestimenti scenici e tecnici, dalla direzione di produzione per gli orari e le normative sindacali, dalla direzione di palcoscenico, dall’ufficio regia per la parte comparse e figuranti ecc.
Come si può ben constatare solamente dalla pura elencazione delle maggiori, ma già numerose, componenti lo spettacolo, con le loro particolari competenze e le loro esigenze di natura spesso completamente diversa, dovranno convergere in un unico ”mondo artistico” e nella sua essenza interpretativa: il “sapere teatrale” di ogni specialità, con poche prove ed in tempi brevissimi, diventerà un unico, fluido spettacolo ed il suo valore artistico ed il suo successo saranno determinati proprio dalla collettività dei saperi e delle capacità nella produzione artistica.
Spesso tutto questo risulta di difficile, o comunque faticosa, attuazione. Due componenti essenziali spesso entrano in conflitto: da una parte esigenze e valutazioni di carattere artistico – estetico, tradizioni teatrali, il contenuto poetico dello spettacolo; dall’altra tutti gli aspetti legati a normative, problematiche e regolamentazioni generali, tipiche del mondo produttivo contemporaneo che tendono a “standardizzare” ed a generalizzare il più possibile, ma che mal si adattano ad esigenze ed imprevisti di natura continuamente diversa come assai spesso succede in teatro. Orari di lavoro, rivendicazioni di categoria, conflitti di competenze, lavoro straordinario, costi eccessivi, organizzazione del lavoro, delle risorse e soprattutto degli spazi, dovrebbero permettere ad ognuna delle categorie sopraelencate di preparare uno spettacolo con la serenità, i mezzi, la sicurezza, i tempi e la concentrazione necessari, cosa di difficilissima attuazione, soprattutto in situazioni logistiche particolari com’era nel caso della Fenice. Ogni carenza di carattere principalmente spaziale, ma anche di carattere tecnico – funzionale, data l’età del teatro e delle sue strutture, spesso esasperava orari e prestazioni soprattutto sotto l’aspetto qualitativo, cosa che in un teatro contemporaneo potrebbe essere evitata o quantomeno ridotta al minimo.
Tradizione e nuove tecnologie
Parigi 27 Aprile 1968. Peter Brook, direttore della Royal Shakespeare Company dichiara: “C’è una cosa che mi ha sempre stupito: nulla al mondo evolve con tanta lentezza quanto il teatro”. ”Il problema meno risolto a teatro è quello del luogo, vale a dire il contatto tra attore e pubblico. Ma mancano a tutt’oggi gli edifici teatrali che a questo problema offrano una soluzione concreta e immediatamente attuabile e concedano al regista la massima libertà di mezzi per la creazione dello spazio necessario ad ogni suo spettacolo, che può anche essere il quadro scenico tradizionale ma deve poter essere tante altre cose”.
Nella progettazione di un teatro, purtroppo la letteratura non è di grande aiuto, dato che, soprattutto per quanto riguarda il palcoscenico, non è stato scritto molto in epoca contemporanea; gli “addetti ai lavori” e cioè gli scenografi, soprattutto italiani, hanno sempre pensato esclusivamente al contenuto e poco al contenitore, adattandosi sempre, più o meno di buon grado, a strutture esistenti anche se carenti o addirittura fatiscenti, e, senza un effettivo coinvolgimento in nuovi progetti, non hanno mai fornito il loro prezioso contributo analitico e critico ad un effettivo rinnovamento dell’intera macchina teatrale o quantomeno al suo adeguamento alla realtà contemporanea.
E’ altrettanto vero che lo studio della scenografia e della scenotecnica in Italia è di pertinenza quasi esclusiva delle Accademie di Belle Arti, un ambiente quindi rivolto principalmente alle arti figurative, ma il cui ordinamento risulta ormai obsoleto ed anacronistico ed il cui rapporto con l’architettura in generale risulta spesso troppo marginale, mentre, per contro, le facoltà di architettura sovente relegano tali studi ad un ruolo subalterno e poco significativo. Il risultato è che delle discipline teatrali relative alla prassi di palcoscenico, quindi non d’indirizzo storico, non resta traccia alcuna ed alcuna documentazione.
La figura che ha rappresentato una delle poche, autorevoli eccezioni è Luciano Damiani, uno fra i più riconosciuti scenografi italiani del dopoguerra, il quale, stimolato dal ruolo affidatogli di consulente tecnico – artistico per la progettazione e ristrutturazione di vari teatri, ha, in diverse occasioni, formulato una serie di pensieri ed osservazioni nati dalla sua particolare e vastissima esperienza scenografica, ma che rappresentano lo spettro più ampio delle esigenze e delle necessità per una libera e corretta messa in scena contemporanea.
Damiani sostiene che: costruire un Teatro d’opera oggi significa utilizzare ancora il vecchio schema del Teatro tradizionale, sia perché è il più diffuso in Europa, sia perché ad esso è connaturata gran parte del repertorio classico e contemporaneo. Gli spettacoli e le messinscene che esigono il riquadro del prospetto scenico giustificano ampiamente l’utilizzazione di questo schema. Tuttavia non si possono ignorare le esperienze maturate in seno al Teatro d’opera negli ultimi anni. Esperienze che hanno certo confermato la validità del vecchio schema: ma si devono considerare anche i problemi e le difficoltà che si sono venuti a creare col tramonto di certe mode e con l’affermarsi dell’innovazione. Le nuove richieste registiche e scenografiche tengono conto delle esperienze del Teatro tradizionale e di quanto si è ritenuto valido nelle moderne innovazioni tecniche del recente passato, ma considerano lo spazio scenico tradizionale non solo come un luogo da arredare, ma come un volume da organizzare. Perciò occorre che lo strumento Teatro diventi flessibile, che la meccanizzazione tenga conto delle esigenze attuali e lasci al regista e allo scenografo maggior libertà nello svolgimento e nella realizzazione delle loro intenzioni artistiche.
La “macchina” e lo spazio teatrale debbono essere, dunque, il più possibile “flessibili”. Deve consentire ai musicisti, ai maestri tutti, al direttore, ai cantanti una buona sistemazione, un’ottima visibilità ed una gradevole diffusione acustica; deve consentire ai protagonisti di potersi concentrare sull’interpretazione scenica e musicale senza problemi di sicurezza e di libero movimento; a tutto il personale di palcoscenico di operare in condizioni ottimali, con l’ausilio di soluzioni che evitino inutili fatiche, per cambi di scena che risparmino al pubblico tempi d’attesa insostenibili, ma che nello stesso tempo permettano allo spettacolo di non avere sussulti, intoppi, rumori, strane pause o rallentamenti di sorta e cioè che il racconto dello spettacolo risulti fluido, scorrevole.
In un tipo di teatro in cui la musica diventa elemento principale, la fossa d’orchestra e tutti i problemi e le componenti che la riguardano assumono un’importanza sicuramente fondamentale, sia dal punto di vista acustico, sia dal punto di vista funzionale in rapporto al suo possibile collegamento con il confinante palcoscenico e più precisamente con la parte sporgente verso la platea detta avanscena o proscenio.
La storia di questo “confine” è costellata di lotte sommerse, di battaglie, di incursioni per una fittizia supremazia che in realtà non dovrebbe sussistere bilanciando ed armonizzando i due spazi relativi.
Spesso il palcoscenico, per mano di registi e scenografi desiderosi di portare lo spettacolo sempre più verso il pubblico, è stato fatto avanzare sopra o addirittura dentro la fossa d’orchestra, creando disagi sia di natura musicale che spaziale. Altre volte grandi organici orchestrali hanno finito per invadere spazi riservati al palcoscenico o alla sala, aumentando le difficoltà relative all’uso necessario del sipario di ferro antincendio.
Ecco quindi ritornare l’esigenza di quella auspicata flessibilità che, nel rispetto della natura e delle libere interpretazioni dei singoli spettacoli e dei diversi generi, attraverso un’adeguata modularità e meccanizzazione del golfo mistico che possa consentire: di “ampliare”, otticamente e fisicamente lo spazio scenico anche fuori della linea di sipario (per grandi concerti o spettacoli che lo prevedano o consentano: il teatro e la drammaturgia del nostro secolo, come abbiamo ricordato, si sono adoperati per portare la rappresentazione sempre più in seno al pubblico); di collegare, attraverso una struttura “disponibile” e “flessibile”, la platea e quindi il pubblico al palcoscenico e quindi allo spettacolo, modulando le quote a seconda delle esigenze (sfilate, presentazioni, convegni e conferenze, concerti ad organici variabili, recitals, saggi ed esibizioni, rivista, operetta ed altro ancora); di gestire anche la movimentazione di ingombri o pesi (pianoforte per prove per es.) dal sottopalco o dalla platea al piano di palcoscenico, operazioni comunque eseguibili dal minor numero possibile di addetti od operatori; la possibilità di una certa variabilità di quote in seno all’orchestra stessa (nel caso di spettacoli operistici o sinfonici) per esigenze di natura estetica, musicale o anche acustica oltre che funzionale; un possibile allungamento temporaneo in avanti della platea (con una quota, in orchestra, pari a quella della sala).
Dopo quello musicale, il secondo aspetto, in ordine di importanza, è quello della visibilità dalla sala ed ancora più importante è la visibilità reciproca dei cantanti e del coro con il direttore d’orchestra.
Molto spesso questo aspetto viene sottovalutato e certamente una buona visibilità in generale è, contrariamente a quanto sembrerebbe, abbastanza difficile da ottenere, soprattutto in un teatro all’italiana, per quanto il suo piano di palcoscenico inclinato, contrariamente a quello tedesco perfettamente orizzontale, consenta una seppur minima visibilità in più. I moderni mezzi tecnici, con l’uso di ponti mobili, sezionabili, con il piano ad inclinazioni regolabili, che consentano di realizzare quote e pendenze diverse, per gran parte del piano di palcoscenico, aiuterebbero sicuramente a risolvere questo problema che coinvolge principalmente il coro, una grande quantità di cantanti che si ostacolano visivamente l’un l’altro e che hanno bisogno di vedere spesso ben due direttori, quello dell’orchestra e quello del coro.
La mediazione visiva tra palcoscenico e sala è rappresentata dal piano idealmente posto al boccascena ed a questo fanno riferimento tutti i raggi visuali, prospettici, proiettivi, proporzionali, restitutivi e di “traguardo”, l’ausilio dei quali risulta indispensabile per una corretta progettazione scenografica e quindi per un corretto approccio dello spettatore con lo spettacolo.
E’ questo il piano, quindi, su cui viene idealmente posto il cosiddetto “bozzetto” o comunque la visione prospettica scenica, ed il punto di vista, generalmente, viene posto centralmente ad una distanza pari ad una volta e mezza circa l’ampiezza del boccascena. Ma al di là delle regole classiche della scenotecnica tradizionale, valide soprattutto per scene prospettiche, anche nella prassi quotidiana regista e scenografo trovano un punto ideale, in platea, da cui guardare lo spettacolo e quindi controllarlo e comporlo, un punto che molto spesso coincide con quello teorico, e quindi centrale, ma non si preoccupano di quello che vede uno spettatore posto sul fondo della sala o lungo le pareti laterali, sia in platea, sia nei palchi, sia nelle gallerie. Molto spesso questi spettatori vedono, soprattutto quelli posti lateralmente o nelle gallerie, un altro spettacolo, completamente diverso da quello progettato.
Il classico quadro scenico ha un difetto fondamentale e cioè consente una corretta visibilità solo frontalmente e fino ad un’altezza massima di poco superiore a quella del boccascena e quindi non esiste alcun mezzo per migliorare la visibilità, se non quello di concentrare tutto lo spettacolo nella minore profondità possibile e nei pressi dell’avanscena: uno spettacolo “piatto”, quindi, quasi bidimensionale. Si calcola che nel teatro tradizionale all’italiana, dotato quindi di palchi, la visibilità sia notevolmente ridotta per un buon terzo e soprattutto nei posti laterali e nei loggioni.
Lo spettatore contemporaneo di teatro, principalmente attraverso altri mezzi quali il cinema e la televisione, ha affinato un suo senso di visibilità molto prossimo a quello ottimale che lo coinvolge maggiormente nel processo dello spettacolo, che dunque conserva ed alimenta la sua specificità per mezzo di questa diversa partecipazione ad un evento esclusivo, ad una “diretta”, usando un linguaggio tipicamente televisivo.
Con ogni probabilità è per questo che negli ultimi anni, il teatro italiano si è progressivamente orientato ad eliminare la frattura fra sala e palcoscenico. La scenografia ha cercato di rompere la barriera del boccascena, o facendo diventare quest’ultimo parte integrante della scenografia, di forzare le nette distinzioni architettoniche arrivando a includere in questa anche la stessa sala portando in seno al pubblico l’azione drammatica ed ottenendone in tal modo una maggiore partecipazione attiva.
Risulta ovvio che tutto questo processo venga enormemente ostacolato dalla scena sopraelevata, il palcoscenico rialzato. Anche quando si tenta di superare questa difficoltà con vari espedienti o con l’uso di elementi scenici praticabili, l’impostazione architettonica non permette nessuna significativa modifica di questo assetto.
Anche il teatro dell’opera, seppure in maniera meno accentuata, è stato coinvolto in questo processo. La stessa Fenice, nell’ultimo decennio, ha prodotto qualche spettacolo con queste caratteristiche, fra cui ricordiamo Passione secondo Giovanni di Bach allestito da P. L. Pizzi nel 1984 e Il flauto magico di Mozart messo in scena da J. P. Ponnelle nel 1988.
Nel primo caso si trattò di un’operazione quasi obbligata dalla natura stessa della composizione che non era un’opera bensì un oratorio e che venne messo in scena progettando uno spazio non convenzionale. Si svuotò la platea ed un lungo piano inclinato, sul quale vennero posti pochi elementi scenici, unì questa al palcoscenico assumendo così quasi l’aspetto di una navata di chiesa barocca nella quale si svolgevano parallelamente la liturgia del Venerdì Santo e le “stazioni” della passione di Cristo secondo la narrazione dell’evangelista Giovanni (fig. 22). Nel secondo, Ponnelle prolungò il piano di calpestio con una passerella praticabile che abbracciava e conteneva l’orchestra, che occupava quindi anche parte del palcoscenico, assumendo quasi le connotazioni tipiche del teatro di rivista e nel quale uno spiritoso Papageno poteva arrivare a toccare il pubblico delle prime file ed una Regina della Notte poteva cantare la sua difficilissima e notissima aria dall’alto di un palchetto di proscenio.
Solo tentativi probabilmente, ma sicuramente si è avvertita la necessità più generale, non tanto di riesumare la vecchia polemica del nostro secolo (che comunque sta per terminare) su un rapporto pubblico – azione sotto l’aspetto di una non meglio definita totalità, ma di una operazione che, partendo da un tipo di teatro estremamente tradizionale quale è quello dell’opera, permetta un breve ripensamento, una ri-valutazione del rapporto pubblico – palcoscenico e attore – spettatore, lasciando agli interpreti ed autori dello spettacolo la possibilità di una libera scelta poetica ed espressiva nella messa in scena.
Si avverte la necessità di considerare lo spazio scenico come luogo di incontro e non di contrapposizione, attraverso una riprogettazione anche delle sue dimensioni, dell’equilibrio di queste in rapporto a quelle umane, dell’aspetto compositivo delle strumentazioni tecniche, degli aspetti cromatici anche dell’interno del palcoscenico, delle sue strutture e dei suoi materiali, in modo tale che, anche in assenza di una vera e propria scenografia, come talvolta è capitato, il suo aspetto possa armonizzarsi con l’azione drammatica, senza interferire con essa.
Lo stesso sipario di sicurezza, elemento imposto dalla normativa quasi corpo estraneo e minaccioso nel suo aspetto e nella sua funzione, deve entrare in sintonia con il luogo della rappresentazione, se non addirittura con lo spettacolo, abbandonando la sua unica funzione ed ampliando lo spettro delle sue possibilità, anche di natura estetica: tutto sommato è pur sempre un sipario, anche se di metallo.
Lo sviluppo delle strutture tecniche, nel duplice tentativo di alleggerire il lavoro manuale e di agevolare veloci cambiamenti di scena per diverse realizzazioni artistiche, hanno aumentato gli ingombri e reso ancora più rigido lo schema del teatro tradizionale. Eccessive meccanizzazioni, come ad esempio una pedana girevole fissa che molti teatri soprattutto tedeschi hanno adottato, si sono rivelate un grave limite per tutti gli spettacoli che non la prevedano, dato che la sua struttura occupa stabilmente la nevralgica zona centrale della scena e non permette quindi né di usare il sottopalco, né di avere delle botole, né alcun sistema di ponti mobili; l’uso smodato di attrezzature illuminotecniche fisse come bilance di panorama, bilance normali, passerelle volanti hanno ridotto notevolmente lo spazio destinato alla soffitta ed ai tiri, ma anche alla fantasia ed alla libertà creativa; i tiri meccanizzati, contrappesati e a stangone fisso hanno ridotto l’altezza usabile della soffitta e comunque non permettono l’utilizzazione di tiri anche in diagonale o perpendicolari alla linea del boccascena o lo permettono solo molto lateralmente, oltre il loro ingombro.
La soffitta deve avere tiri a mano liberi, oltre a quelli meccanici con regolazioni per la velocità, in tre versioni, alternando tiri semplici a mano e tiri contrappesati a mano, inframmezzati ogni due metri da un tiro a motore elettrico ed inoltre bisognerebbe avere la possibilità di regolare la lunghezza degli stangoni; qualche tiro o la possibilità di allestirlo velocemente ci dovrebbe essere anche in corrispondenza del proscenio e della sala, oltre che nel retropalco (qualora esista),sia per esigenze scenografiche, sia per esigenze tecniche (illuminotecniche, di amplificazione ecc.): l’innovazione wagneriana di lasciare la sala al buio è ormai diventata prassi nella “liturgia” teatrale, ma non è detto che se la scenografia di uno spettacolo di natura particolare riesce a raggiungere anche lo spettatore, questi non possa essere immerso anche nella sua atmosfera luminosa…
I sistemi di movimentazione dei ponti, dotazione tecnica indubbiamente fondamentale per un teatro, sono innumerevoli, per tipo e per sezionatura, per la gran parte molto affidabili e funzionali, ma l’esperienza e la prassi di palcoscenico hanno progressivamente teso all’abbandono di costruzioni tradizionali a gabbia dei ponti mobili del palcoscenico, in favore di strutture silenziose e contrappesate che consentano l’utilizzazione dello spazio, tra i due piani, per l’azione scenica e l’allestimento scenotecnico; è indispensabile una disposizione simmetrica di tutti gli elementi che sostengono il piano di palcoscenico tenendo presente la necessità dello spazio il più possibile libero nella parte centrale (esempio: una botola difficilmente sarà posta lateralmente alla linea mediana del palcoscenico, ma al centralmente, spazio solitamente occupato dai montanti di sostegno dei ponti).
Ogni scenografo ed ogni regista ha la propria, particolare concezione dello spazio scenico e del suo utilizzo. Risulta quindi indispensabile, nella progettazione di una struttura teatrale, procedere con molta cautela ed equilibrio nelle scelte, cercando di rendere il più ampio possibile il ventaglio delle potenzialità della struttura, racchiudendola il meno possibile entro una gabbia di strumenti troppo particolari e rigide tecnologie, che ne rendono meno creativo l’utilizzo, ma soprattutto limitano sia la libertà espressiva degli autori dello spettacolo, sia l’operatività del personale di palcoscenico, sia la piena partecipazione e coinvolgimento dello spettatore.
L’analisi dei numerosi aspetti teorici, funzionali, tecnici, storici ed anche poetici che intervengono nella progettazione di un palcoscenico è stata spesso sottovalutata, sia sotto l’aspetto quantitativo, sia sotto l’aspetto qualitativo, soprattutto negli ultimi decenni. Oppure, al contrario, una sorta di “esasperazione tecnologica” ha spesso fatto perdere di vista elementi indispensabili di quella tradizione teatrale, basata sul pragmatismo, che ha raggiunto livelli di sintesi funzionale difficilmente superabili.
In materia teatrale, l’equilibrio e l’armonia di scelte progettuali fra tradizione e contemporaneità, probabilmente non porteranno a soluzioni innovative particolarmente sensazionali, ma permetteranno al teatro, ed alle sue molteplici forme espressive, semplicemente di sopravvivere o magari, ancora una volta, di evolversi.
Daniele Paolin