“Nulla evolve più lentamente del teatro”.
Questa lapidaria e relativamente recente frase di Peter Brook con ogni probabilità era riferita al “luogo” teatrale inteso in senso fisico (di edificio teatrale), ma forse anche in senso drammaturgico. Non forse in senso tecnico. La storia recente della scenografia e della scenotecnica ha, al contrario, marcato un repentino processo di trasformazione visiva (diciamo negli ultimi vent’anni), mai avute fino ad oggi ed il colpo senza dubbio più duro lo ha ricevuto un “sapere” dalle radici profonde, che si sta, tutt’altro che lentamente, perdendo: mi riferisco a quello della pittura scenografica. Non se ne vuole qui celebrare il rito funebre o nostalgicamente ricordare i bei tempi del “teatro dipinto”, né, per contro, fare un inno modernista alle nuove tecnologie proiettive e digitali: cercheremo di analizzare serenamente queste tecniche e questi linguaggi, quelli nuovi e quelli che stanno per cedere il passo, senza pregiudizi di sorta, alla luce di un nuovo millennio di scenografia teatrale.
Risulta quindi inevitabile partire dalla pittura visto che un percorso dentro la scenotecnica, come vuole essere questa nuova rubrica, non può che cominciare dalla storia di quei “meravigliosi ingegni”, abili manufatti impreziositi da sapiente pittura, che fin dalla sua nascita ha caratterizzato il teatro e la sua parte visiva.
Il dato di fatto certo è che le nuove tecnologie proiettive e digitali, sempre più raffinate e sofisticate, stanno soppiantando quasi completamente il fondale dipinto e la sempre più scarsa richiesta di pittura ha finito per assottigliare le fila di quella già sparuta schiera di abilissimi pittori-scenografi che l’Italia si può dire abbia esportato in tutto il mondo.
Non è il caso di dilungarsi sulla completa evoluzione storica, fuori delle nostre competenze, ma fin dal teatro greco si hanno notizie delle due componenti principali della tecnica scenografica e cioè la macchina e la pittura. Di questa non abbiamo certamente tracce del passato, neanche recente: il “dipinto scenografico” è di per sé effimero, dura poco più di una stagione. E’ una tecnica fatta di poco anche perché si debbono preparare grandi superfici in poco tempo, poco costose e di grande effetto: naturale quindi che durino, anche, poco. Raggiungono il massimo della loro bellezza quando sono lì, su un palcoscenico, bagnate da qualche debole luce. La luce del palcoscenico: negli ultimi anni dell’800 la luce elettrica aveva già inferto un duro colpo alla pittura di scena; ne aveva mostrato crudelmente i limiti, le finte ombre, il colore esagerato, la larga pennellata, come testimoniano quei “bozzetti” di primo ottocento dai colori e dai contrasti così violenti…Ma la tecnica si era ulteriormente raffinata, dissolta, divenendo ancora più precisamente evocativa: la luce pittorica si immergeva in quella elettrica ed un nuovo senso assumeva quel “décor”, di un “realismo sognato”.
Gli ateliers di pittura scenografica stanno chiudendo i loro battenti: fa parte di un processo, a mio avviso, inevitabile. Le nuove tecniche hanno un enorme fascino, una grande resa ed offrono possibilità espressive straordinarie, ma la domanda a cui non sappiamo rispondere è: quanto è giusto che questa antichissima professione, questa affascinante abilità e sapienza si perda?
Sembra non esserci risposta: la pittura scenografica innanzitutto non si può insegnare, neppure nelle Accademie, se non dipingendo per il teatro in grandi spazi (cosa che le Accademie non hanno); si tramanda, dopo un lunghissimo apprendistato, da “maestro” ad allievo “sul campo” in maniera del tutto simile alla “bottega” rinascimentale. Perché un lunghissimo apprendistato? Semplicemente perché si usano strumenti giganti (pennelli, matite, tavolozze, stecche e squadre), dai manici lunghissimi (si dipinge in piedi, camminando sulla tela), che pesano molto e soltanto dal punto di vista fisico ci vuole un lungo allenamento unicamente per cominciare ad usarli bene, in maniera disinvolta. E poi si deve imparare la tecnica a poco a poco: si comincia dalla preparazione della tela, alla sua “apprettatura”, al disegno, alle grandi prime campiture, fino ad arrivare ad un sempre maggior dettaglio, alla raffinatissima finitura, quasi sempre conclusa con una leggera spruzzata di colore trasparente data con una arcaica pompa a zaino, di rame e ottone, con la quale i contadini davano il verderame alle viti…Questo, che a parole sembra un semplice processo, presuppone un apprendimento di molti anni anche perché ci sono generi diversi di pittura: i fondali spesso propongono delle architetture in prospettiva (altre conoscenze…), oppure dei paesaggi desertici o rocciosi, oppure strane decorazioni orientali, oppure cieli burrascosi o azzurri, foreste e giardini, interni pietrosi di castelli di ogni epoca; i soggetti sono talmente numerosi che spesso, come succedeva soprattutto in Francia, gli scenografi si specializzavano nei “generi”: c’era chi era maestro di paesaggio, chi di bosco, chi di architettura, chi di interni ed arredamenti ed altrettanto spesso, per un’unica opera, atto per atto si sceglievano realizzatori diversi a seconda dell’ambientazione della scena…Pochissimi sono coloro che sanno dipingere ad altissimi livelli tutti i generi.
Questa professione trae le sue discendenze da quella figura di artista-architetto, mago eclettico rinascimentale che vantava conoscenze estremamente diversificate di architettura, di prospettiva, di pittura, di botanica, di storia, degli stili, di archeologia, di astronomia, di paesaggio, arrivando fino ad avere nozioni di statica, di scultura, di anatomia, di chimica…in pratica le componenti di un intero mondo, perché questo era chiamati a rievocare, a reinventare, ad imitare, o solo a suggerire.
Tutto ciò sta progressivamente sparendo: gli scenografi pittori realizzatori ormai, in Italia si possono contare sulle dita delle sole due mani…Le ditte private hanno tempi e necessità che non permettono di tramandare e conservare questo altissimo artigianato: probabilmente il compito potrebbe essere affidato agli Enti Autonomi quali le Fondazioni Liriche, alcune delle quali conservano questo aspetto produttivo (La Scala, l’Arena di Verona, L’Opera di Roma), ma tutto fa pensare ad un progressivo smantellamento anche di queste ultime attività laboratoriali come ha già fatto parzialmente il San Carlo di Napoli o totalmente come La Fenice di Venezia. In questo ultimo, significativo caso, poi, non solo il magnifico atelier ricavato dal sottotetto del loggione ha cambiato fisionomia e destinazione, ma nessun elemento e nessuna scritta in qualche modo nemmeno ricorda che in quel luogo si era sviluppata una storica scuola scenografica fra le più importanti in Italia e che ha annoverato fra le sue fila scenografi quali Bertoja, Borsato, Bagnara e molti altri per ben 170 anni, e questo a dispetto del “dov’era e com’era”…
Uno degli ultimi laboratori rimasti in centro storico ed uno dei più affascinanti è senza dubbio quello del Teatro dell’Opera di Roma. Sembra quasi uno scherzo, un gioco: il laboratorio in cui si “confeziona” l’inganno, l’illusione il “falso” è situato esattamente a fianco della famosa “Bocca della verità”…
Vi si accede attraverso una breve salita e questo immenso immobile tenebroso e oscuro al pianterreno e ai piani intermedi adibiti a magazzino, dopo un’ascesa di quattro piani, diventa magicamente luminoso nel “salone” dove si dipingono le scene, con enormi finestroni che da una parte si rivolgono verso un panorama stupendo della meravigliosa città eterna e, nel verso opposto dopo una grandissima terrazza, si affacciano sul Circo Massimo…Che dire? Gli scenografi romani sono fortunati!
Si sottolineava l’aspetto della luce: E’ senza dubbio importante dipingere con una buona luce, proprio per non avere alterazioni cromatiche dovute a dominanti che possono essere generate da luci inadatte o, semplicemente, da angolazioni particolari dei raggi luminosi. La pittura è un argomento molto delicato e di difficile approccio. Allo scenografo pittore spesso viene richiesta non solo una perizia straordinaria, ma sovente gli si richiede di diventare un’altra persona, un altro artista. E’ il caso, ad esempio, di quando viene riproposto, in grande, un quadro famoso: il pittore deve dimenticarsi della sua tecnica, del suo mondo pittorico, della sua particolare sensibilità, per appropriarsi di quello di un famoso artista; da Tiepolo, a David, a Mantenga, a Sironi, a Boccioni, a Corot… (vado a memoria di esempi che personalmente ho visto o affrontato). La capacità e l’esperienza di un pittore scenografo sta proprio qui: sia che affronti un’opera famosa, sia che affronti un qualsiasi bozzetto o immagine (anche fotocopie in bianco e nero di qualche bozzettista frettoloso o poco capace…), deve “entrare” in un altro mondo, capirne il senso e carpirne l’essenza, e farlo suo, almeno fino alla fine dello spettacolo e alla sua messa in scena; non è affatto facile e, se da una parte è un’esperienza inebriante e di prezioso arricchimento, dall’altra è altrettanto vero che non sempre ci si riesce o non ci si riesce fino in fondo. Si ha allora un senso di frustrazione e sgomento, ma non si può e non si deve chiedere aiuto a nessuno: si è soli con la propria, pesante responsabilità. Sono al tempo stesso i “chiari” e gli “scuri” di questa antica professione, la cui tecnica sembra abbia dato origine ai grandi “teleri” rinascimentali (Tintoretto), con una difficoltà ulteriore: quando si dipinge una superficie così grande (10/20 metri e più), mentre si lavora su una parte, è difficile avere “sott’occhio” il tutto, dominare tutta l’immagine ed i rapporti che la compongono.
Il laboratorio del Teatro dell’Opera di Roma ha la fortuna di avere una passerella ad un’altezza di circa cinque metri, da cui si può osservare la superficie dipinta ed avere quindi un’idea più precisa del risultato, perché altrimenti (e tanti sono i laboratori che ne sono privi) il risultato si vede soltanto in palcoscenico, al montaggio delle scene, quando spesso è troppo tardi per rimediare a qualche (possibile) errore…
L’ambiente di Roma è straordinario, sia sotto il profilo logistico, sia sotto quello umano, sia sotto quello strettamente professionale. Dagli operai specialisti (detti “macinatori” in ossequio al periodo in cui si “macinavano” le “terre” che da blocco diventavano polvere e quindi pigmento, colore), alle sarte che cuciono e confezionano le enormi tele che andranno appese, agli aiuti che imparano impostando il lavoro con il disegno e le prime grandi stesure di colore, ai collaboratori che coordinano le attività dei gruppi di lavoro, fino ai realizzatori che si dedicano alla finitura ed organizzazione totale della quale hanno tutta la responsabilità; ognuno fa la sua parte e contribuisce con la propria esperienza al risultato finale nei tempi stabiliti.
Già, perché un altro punto fondamentale sono i tempi.
Il normale pittore, come si sa, ha i “suoi” tempi: c’è chi dipinge un quadro in un giorno, chi in un mese, chi anche in un anno…C’è un’estrema labilità. Ma i tempi di uno scenografo pittore li decide il…cartellone e la stagione. Spesso si è chiamati a dipingere un intero spettacolo (1500/2000 metri quadrati di pittura) in meno di due mesi: una cinquantina di giorni lavorativi; non meno di 30 metri quadrati (finiti!) al giorno: ritmi da imbianchino, più che da pittore..
E’ una lotta costante contro il tempo: e tutta la tecnica pittorica scenografica si basa sulla velocità di esecuzione, un risultato eccellente ed un basso costo, naturalmente. C’è da aggiungere che i ritmi di lavoro dei realizzatori (quei pochi…) che ancora prestano la loro opera nelle fondazioni e negli enti, sono un po’ più “umani” rispetto ai loro colleghi delle ditte private, che spesso hanno ritmi forsennati… e non è un’esagerazione. Ed è anche per questo motivo che il compito di “tramandare” quest’arte e questa professione dovrebbe essere demandato proprio alle fondazioni ed agli enti, come già sottolineato: primo perché rientra proprio nel loro statuto la conservazione, lo sviluppo e la diffusione dell’arte teatrale e secondo perché gli stessi tempi sono in grado di permetterlo; è impensabile infatti che nei ritmi impossibili delle aziende private si trovi tempo e modo per “insegnare” alcunché (spero, però, in cuor mio, di essere smentito…). Quello dell’Opera di Roma è uno dei pochi laboratori rimasti in cui si può fare…
Daniele Paolin per la rivista The Scenographer