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5 Dicembre 2012

2003: azione simultanea

Filed under: Nuove Tecnologie dell'Arte — admin @ 17:44

di Daniele Paolin, scenografo dell’evento.

Evento intermediale, il sottotitolo. Quello che è andato in scena Sabato 20 Dicembre 2003, ospitato nell’interessante spazio del Teatro Cavallerizza e voluto dal Direttore Artistico de “I Teatri” di Reggio Emilia, Daniele Abbado, può essere definito soltanto così.

Questo lavoro, ideato e diretto da Ezio Cuoghi, non nuovo ad indagini e ricerche sui rapporti fra arte e scienza, viene puntualmente definito dalle sue stesse parole nella presentazione dello spettacolo: «Il focus di questo Evento Intermediale è il Tempo. Il Tempo fisico, biologico, fenomenico, immaterico, concettuale. Ciò che la parola Tempo evoca nelle menti di noi tutti è l’oggetto diretto e indiretto di questo lavoro, attraverso le visioni della danza, della parola, e della tecnologia… E’ difficile immaginare se il Tempo sia la domanda o la risposta che precede o segue la nostra quasi impercettibile perplessità quando ci avventuriamo nel distinguere ciò che viene prima da ciò che viene poi».
Il tentativo di definire l’ambito e le motivazioni che muovono questo evento probabilmente è focalizzato altrettanto lucidamente dal pensiero di Giorgio Celli, che ha così definito il progetto generale (NOOSPHERA PROJECT) della ricerca intrapresa: «… La complicità della parte sinistra del nostro cervello non è sufficiente, bisogna chiamare in causa anche la parte destra, mettendo la ragione in sintonia con l’emozione, la percezione visiva con l’esercizio della logica, il vedere con il pensare, il pathos con il cogito. Come ottenere questo risultato se non attraverso un’opera multimediale, interdisciplinare, ad interfaccia tra scienza e arte, se non con un collage tecnologico, con un evento totale, con la simulazione di una grande profezia cosmologica?».
Una serata performativa tra arte e scienza attorno al tema del tempo, un fluire conciso e scarno di una serie di quadri che gettano luce e si interrogano sui suoi aspetti problematici (reversibilità-irreversibilità), paradossali (Achille e la tartaruga), poetici (i racconti di Calvino), non potevano che portare all’utilizzo dello spazio, già strutturalmente adatto all’evento, della Cavallerizza, semplicemente così com’è, nella sua essenza strutturale.
I testi dello stesso Cuoghi e di Giorgio Celli, guidano dunque un percorso visivo non lineare, quasi un non racconto. Quattro telecamere diventano altrettanti occhi nascosti che nutrono una retina lontana, elettronica, digitale ed un «cervello» elabora, compone, intercetta ed infine proietta, in tempo reale, su una grande ala trasparente sospesa fra le catene delle capriate in ferro di questo interessantissimo spazio, semplice nella sua conformazione perfettamente rettangolare. Ricavato dall’ex Cavallerizza della Caserma Zucchi, è stato intelligentemente dotato di due gradinate, estendibili e retrattili a seconda delle necessità, poste una di fronte all’altra: si ha la possibilità quindi di avere uno spazio pulsante nella sua doppia possibilità simmetrica ed asimmetrica di spettacolo frontale o centrale, uno spazio teatrale polivalente, destinato in particolare alla prosa di ricerca e alla danza contemporanea, a stages e workshops.
La scena, quindi, è uno spazio volutamente libero, aperto, privo di qualsiasi riferimento che possa anche lontanamente rappresentare l’elemento di un possibile décor. Non viene «nascosto» nulla.
Più che da una vera e propria scena progettata si è partiti da precise necessità drammaturgiche e comunicative, cercando di «aiutare», in maniera il meno possibile invasiva, l’ambiente, già conforme per sua natura, a trasformarsi in luogo funzionale all’evento. Nella mente di Cuoghi era già tutto chiaro e definito, ma non tanto nella mia, che ha sempre gravitato in ambiti di teatro tradizionale, molto tradizionale, qual’è il melodramma: una scatola ottica per artifici più o meno magici o più o meno decorativi. Una grande importanza ha rivestito il sopralluogo compiuto qualche tempo prima alla Cavallerizza.
La particolare vicinanza del pubblico, quasi all’interno della performance, data la mancanza di un boccascena, invitava ad una percezione a tratti concentrata e a tratti frammentaria, in un rapporto visivo così vasto. Tutto è all’insegna, se può essere concesso un termine forse impropriamente generico, di un neo antinaturalismo. Due postazioni laterali, inserite esattamente nella ritmica delle paraste che reggono l’architettura, ma cromaticamente molto diversificate, ospitano, uno di fronte all’altro, i due attori, Gigi Dall’Aglio e Roberto Abbati, voci recitanti, che appaiono e scompaiono, ripresi in primo piano da due telecamere, nei loro puntuali interventi. Dietro, sul fondo, posto diagonalmente, un grande schermo scende dalle capriate in ferro e, prima di toccare terra, risale all’indietro come una vela a riposo, curvando la linea della proiezione fino a farla sfumare verso il basso, sospendendola nella sua valenza più propriamente ponderale. La disposizione del grande schermo da retroproiezione, necessariamente centro d’attenzione assieme all’azione coreografica, risultava quasi obbligata da una serie di direttrici di ripresa e di proiezione, ma quello che si voleva accuratamente evitare era la configurazione sempre molto statica e scontata di normale «schermo» canonicamente appoggiato, teso e posto frontalmente. In contrapposizione a questo elemento, era necessario, per contrasto, collocare un «oggetto» che accogliesse le immagini fisse delle riprese: i tre monitor e le due immagini degli attori – voci recitanti, collocati molto lateralmente e quindi scarsamente visibili dalle prime poltroncine opposte alle due relative postazioni. Proprio durante il sopralluogo, cercando di identificare quella che sarebbe stata la soluzione migliore per questo totem visivo, ci siamo imbattuti quasi casualmente, durante lo smontaggio di un precedente allestimento, in un cosiddetto trabattello, una struttura vuota, leggera, di alluminio: una colonna protesa verso l’altezza delle capriate; avevamo trovato la machina funzionale al nostro deus visivo.
Al centro, uno spazio, delimitato idealmente e luminosamente nella sua perfetta circolarità, accoglie tutte le azioni coreografiche di Mauro Bigonzetti, Macha Daudel e Teresa Alves Da Silva dell’Aterballetto. Tre telecamere poste lateralmente ed una posta perpendicolarmente, riprendono ogni loro gesto e movimento. Uno speciale software (EYESWEB) messo a punto dal Prof. Antonio Camurri del DIST dell’Università di Genova e diretto, nelle sue varianti ed applicazioni, dall’Ing. Daniele Suffritti, crea una particolare miscela delle immagini proponendo, proiettata sulla grande vela, una visione insolita dei danzatori, visti contemporaneamente da tre punti, probabilmente l’avverarsi di un sogno cubista, ma sorprendentemente cinetico. Si creano personaggi «altri». Ogni danzatore ha la possibilità di avere un «se stesso» che balla assieme a lui, ed un altro ancora. L’assolo diventa duetto e contemporaneamente terzetto, quartetto, tre ballerini un corpo di ballo, in un gioco nuovo, continuamente stimolante con la propria e le altrui immagini e con la propria e altrui «azione simultanea».
L’aspetto sorprendente, quasi imprevisto di questo lavoro è stato proprio questo: l’entusiasmo creativo che ha inoculato, in tutte le componenti dello spettacolo, l’uso di questi nuovi linguaggi tecnologici e visivi, ma soprattutto nei danzatori che hanno avuto modo, forse per la prima volta, di manipolare direttamente le immagini prodotte da ogni loro gesto, creando, non senza qualche leggera difficoltà iniziale per una «naturale» appropriazione del mezzo, nuove figurazioni e nuove composizioni, interagendo con un altro tipo di realtà.
Il progetto, la cui direzione istallativa è stata curata da Carlo Ansaloni, è stato impreziosito anche da precisi spunti didattici, avendo rappresentato una prima tappa per l’avvio del Corso di Laurea Specialistica in “Progetto e cultura delle Nuove Tecnologie” dell’Accademia di Belle Arti di Brera, di cui Cuoghi, Suffritti, Paolin e lo stesso Ansaloni sono docenti.

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