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13 Luglio 2011

Spazi, proporzioni, poesia in un incontro con Maurizio Balò.

Filed under: Scenografia — admin @ 13:25

 

 

Per andare ad incontrare Maurizio Balò, devo valicare l’Appennino, immerso com’è, a tratti, fra nebbie e schiarite, in un paesaggio umido, gocciolante, ma che la luce radente che lo illumina fa apparire denso di cristalli luminosi che campiscono nel verde scuro: apparizioni trasfigurate, quasi teatrali, occultate e scoperte dalla velocità del treno come un gioco di sipari contrastanti.
Arrivo a Firenze, caotica di turisti, ma la via dove abita lo scenografo è stretta e quieta, al di là dell’Arno. Salgo le ripide scale e mi affaccio su un bellissimo studio luminoso, alto, arredato con semplicità, quella stessa semplicità che traspare dal personaggio Balò e che salta immediatamente agli occhi. E’ la prima volta che parlo con lui: ci siamo incrociati più volte nella nostra professione, ma non abbiamo mai avuto modo di parlare. Io conosco lui ma lui non conosce me. E’ un professionista che ho sempre ammirato per una serie di motivi, il primo dei quali è che non “appare”; non è un presenzialista (qualità ormai rara), pur essendo uno dei più famosi scenografi italiani. L’altro motivo, e forse più importante, della mia ammirazione è dovuto ad una semplice constatazione: mi capita di vedere spesso, in riviste più o meno specializzate, qualche scena che attrae ad una prima occhiata la mia attenzione, fra tante che questo pregio, ai miei occhi, non hanno, e spesso scopro che sono sue; ma mentre nella maggior parte dei casi, con un po’ di esperienza, riesco a riconoscerne, a prima vista, l’autore, con lui non succede mai: non è immediatamente riconoscibile, non ha un suo “stile” identificabile. Per lui ogni strada è un percorso diverso, inesplorato. Cominciamo a parlare proprio di questo: ogni autore che affronta, ogni regista con cui lavora rappresentano un capitolo assolutamente nuovo ed inesplorato. Approfondito e solido, negli anni, risulta naturalmente il suo lungo sodalizio soprattutto con Massimo Castri e Gianfranco Cobelli, coi quali ovviamente ha una “sintonia” particolare, collaudata e che lo porta ad essere ancora più affrancato nella sua ricerca.
Cominciamo a parlare direttamente di vera e pura scenografia: è una bellissima sensazione ed ho l’immediata percezione di quanto oramai raramente succeda. Glielo manifesto e ne nasce un comune rammarico nel costatare quanto a questo punto si parli così poco di scenografi e di scenografia: distrattamente, quasi controvoglia, più per dovere di citazione (quando ancora c’è…) che per vero interesse e soprattutto competenza. E la prima serie di domande che ci poniamo sono appunto queste: quanto conta la scena e che importanza riveste nell’economia dello spettacolo e della completezza della sua percezione? E’ giusto che la scena sia la protagonista visiva o è la sua “discrezione” di rapporto con la drammaturgia, la regia, gli interpreti che ne fanno assumere il vero valore espressivo? Balò naturalmente considera la scena una presenza indispensabile ed equilibrata, fondamentale e delicata, preziosa ma non invasiva: mi ricorda come, da ragazzo, in una delle sue prime volte a teatro come spettatore abbia capito, all’apertura di sipario, che il fantasmagorico allestimento che aveva davanti, pieno di movimento, oggetti, decorazioni ed attrezzi vari, gli avesse subito fatto capire quale fosse esattamente il tipo di scenografia che avrebbe sempre evitato. Questo fin dagli inizi della sua carriera, dagli esordi nel teatro universitario (a questo proposito: moltissimi scenografi che ho incontrato mi hanno confessato di aver cominciato dal cosiddetto “teatro universitario”: ma dove è finito questo benedetto “teatro universitario” di cui non si ha più nessuna traccia e che invece, fino a pochi decenni or sono, era alla base della formazione teatrale?- nota rivolta alle dissimulate Istituzioni di Alta Cultura…-). E da allora la sua ricerca si direzionò verso la semplicità, limando, negli anni e nel continuo lavoro di progettazione, tutto il superfluo, il “non indispensabile”, l’eccedente fino a valorizzare al massimo l’espressività del vuoto.

SPAZI

Già, il vuoto, lo spazio. Mi racconta come tutta la sua opera progettuale sia progressivamente avanzata verso la valorizzazione dello spazio e del vuoto. Questo fenomeno e questa aspirazione sembra sia quasi una costante in tutti gli scenografi che abbiano messo al centro della loro professione la ricerca della essenzialità espressiva e non si siano fermati ad un semplice “arredamento” dello spazio del palcoscenico; molto spesso in forte contrasto col desiderio di qualche regista o di qualche responsabile artistico che tenderebbero a soffrire di quella sorta di immaturità visiva ed infantile definita con il termine horror vacui che così spesso è alla base dell’accezione negativa dell’aggettivo “scenografico”. A questo punto Maurizio, per meglio farmi capire come lavora (la cosa che più mi interessa), si alza e da un’altissima scaffalatura estrae, da una decina di simili, un librone rilegato e dal sapore quasi antico: lo apre e mi mostra in sequenza le pagine; sono, di carta giallastra, piene di piccoli disegni al tratto, di piccolissimi schizzi a tempera, di annotazioni, di immagini incollate: una raccolta infinita di pensieri, di considerazioni e valutazioni estetiche e pratiche allo stesso tempo, quasi un lungo racconto senza pause di argomenti diversi. E’ strano come la notevole diversità fra le sue scene, lui mi confessa invece scaturire da pensieri progettuali concatenati fra loro anche di lavori separati che abbandona e riprende in momenti diversi, ma che progrediscono quasi di pari passo, affiancati, talvolta intrecciati o sovrapposti, espressione di una grande unica ricerca estetica che per contro risulterà poi a sfaccettature estremamente differenziate e disomogenee.
Queste piccole immagini, tutto sommato approssimative, sono fatte di ritmi che si susseguono fra vuoti e pieni, attribuendone una forza espressiva paritetica; pur essendo piatte e bidimensionali suggeriscono spazi e cromatismi di notevole ampiezza e profondità, senza la minima preoccupazione di ciò che possa succedere “a lato”, in quinta. Pensieri che si affollano sulle grandi pagine con una semplicità di tratto quasi disarmante. Mi confessa di non considerarsi graficamente un talento, di non essere quindi molto “dotato”: ma che significa? L’aspetto del talento grafico ha sempre avuto nel cosiddetto bozzetto, solitamente, un’importanza significativa, quasi fondamentale, se non altro come “documentazione” obbligatoria per gli aspetti principalmente “artistico-amministrativi” (le direzioni dei teatri…): e dunque? Peter Brook, d’altronde, nel suo The Empty Space afferma: «Gli amatori d’arte non riescono mai a capire perché i bozzetti e le scenografie non siano sempre opera di “grandi” pittori e “grandi” scultori. Quello che è necessario, invece, è un disegno incompleto, un disegno che abbia chiarezza senza rigidità, che si possa definire “aperto” nel senso che si oppone a “chiuso.” Questa è l’essenza del pensiero teatrale: un vero bozzettista teatrale penserà sempre i propri bozzetti in movimento, in azione, secondo l’apporto dell’attore in funzione all’interno di una scena in svolgimento».
Mi spiega il suo modo di lavorare: dopo questi piccoli schizzi, quando, soddisfatto, deve arrivare necessariamente ad una verifica, Balò costruisce un modellino ancora piccolo in scala 1:100; non si occupa ancora della materia e delle misure precise: è solo una verifica da cui capire la bontà della progettazione dal punto di vista spaziale, tridimensionale e vagamente funzionale; ha ancora la possibilità di cambiamenti anche significativi e questo procedimento permetterà di cominciare a porsi una serie di questioni concrete sulla realizzazione: strutture, dimensioni, cambi e movimenti, cromatismi, rapporti e funzioni.

PROPORZIONI

Ciò che mi stupisce dei piccoli disegni che vedo in quelle pagine giallastre è che, pur minimi, hanno tutto ciò che è indispensabile (“chiarezza senza rigidità”…), anche oggetti e figure ben riconoscibili: Maurizio ne proietta un valore straordinario. Vengono in mente concetti così ben espressi tratti da Ingresso a teatro a cura di A. Cascetta e L. Peja: “… anche quando costituiscono un elemento indispensabile all’azione, come la cassetta di Arpagone o il fazzoletto di Desdemona, rispettivamente ne L’avaro di Moliére e nell’Othello shakespeariano, gli oggetti scenici tendono comunque a farsi segni: essi cioè, nel passaggio sulla scena, subiscono un processo di semiotizzazione. Mentre nella vita reale la funzione utilitaristica di un oggetto è di solito più importante della sua significazione, sulla scena teatrale la significazione ha la massima importanza”. E’ per questo che gli oggetti teatrali non devono essere molti e non devono affatto sembrare “veri”, proprio perchè risulterebbero, in scena, “finti”, paradossalmente, ma significativamente. Oggetti e personaggi quindi offrono segni tangibili direttamente riferiti alla proporzione. A proposito di questo non si può fare a meno di notare come le scene di Maurizio siano in qualche modo (come le definisce lui stesso) “sovradimensionate”: la spiegazione sta proprio nel senso di grande vuoto pulsante che permea le sue scene; le figure, e quindi i personaggi, ne sono il complemento significativo, al tempo stesso essenziale e massimamente valorizzato. Ho davanti agli occhi la nera figura di Elettra che si muove su un enorme prato giallo che dal palcoscenico, attraverso un enorme portone dischiuso, scende fino ad occupare tutta la platea; una immensa pietraia in Tre sorelle con un tavolo che campisce su un cielo; un grande interno semicilindrico (unica geometria qualche volta ricorrente) sul quale si aprono piccole finestre e popolato di scure strane figure simili ad Uccelli. La scena non è la protagonista dello spettacolo (come uno scenografo è spesso portato a pensare nel suo isolamento progettuale), quindi, concetto molto importante e spesso sottovalutato, ma costituisce un apporto fondamentale alla recitazione e quindi all’intera drammaturgia.

POESIA

La terza fase del lavoro di progettazione di Balò è costituita dal modello definitivo in scala 1:50. Le forme e le superfici si fanno di dimensione tale da poterne definire la natura e gli aspetti più propriamente poetici della materia, del tempo e del luogo: la quarta dimensione. L’indeterminatezza dei primissimi schizzi va man mano definendosi in scala sempre maggiore e la lenta progressione di ingrandimento fa “maturare” il progetto con una serie di scelte che saranno alquanto definitive, ma non assolutamente finali. La grande perizia e la cura certosina che lo scenografo impiega in queste ultime finiture sono esattamente la proiezione del sogno che le ha create e da cui ci si ridesterà quando quelle minute superfici prenderanno la dimensione ultima, quella reale, in qualche laboratorio di realizzazione scenografica: questo sarà il vero conclusivo momento delle scelte definitive, da cui difficilmente si potrà recedere; si potrà soltanto ritoccare, perfezionare, ma non più mutare. Quella perizia e la cura usate nel progetto dovranno necessariamente trovare un preciso riscontro nella stessa perizia e cura dello scenografo realizzatore; a lui sarà demandata questa difficile, delicatissima operazione: quella di realizzare nella realtà quello che fino a quel momento è soltanto il progetto di un sogno. Si deve avere l’obbiettività di ammettere che non sempre succede: talvolta sbaglia il sognatore, talvolta sbaglia il realizzatore e talvolta ambedue hanno delle aspettative che oggettivamente sono costretti, quantomeno, a limitare. Ma nella maggior parte dei casi, i materiali che passano da uno stato di sogno ad una realtà dinamica, assumono la propria credibile natura e vera valenza espressiva sotto le luci, in palcoscenico: ecco la vera difficoltà; i materiali scenografici soprattutto teatrali visti alla luce diurna o con luci di servizio o di sala sono notevolmente diversi, spesso molto approssimativi se non addirittura goffi. E’ difficile stabilire se saranno più o meno appropriati sotto le luci perché lo si vedrà soltanto ed unicamente in palcoscenico, quando saranno immersi nella giusta atmosfera e bagnati da una luce adeguata: qui intervengono esperienza, conoscenza ed intuito, componenti essenziali per arrivare ad un risultato ottimale sotto il profilo poetico e di intensità espressiva.

La nostra conversazione, infine, scivola verso ricordi comuni che hanno come denominatore la poesia: l’unica volta in cui le nostre strade si sono incrociate è stata alla Fenice, in occasione dell’allestimento di Rosamunde, una strana favola fra (appunto) realtà, ricordo e sogno. Rammento che in questo spettacolo Balò, per sottolineare queste tre diverse dimensioni del racconto, estremamente necessarie alla sua comprensione, usò un espediente davvero singolare e significativo: la forma del boccascena nero variava a seconda della diversa circostanza con un meccanismo semplicissimo ma efficace; rettangolare per la realtà, vagamente ovalizzato per il ricordo e circolare per il sogno. La scena, poi era costituita da una sorta di doppio guscio roccioso e rossastro che per mezzo di doppi scorrimenti circolari, mutava a vista; lentamente, in una penombra misteriosa e magica, svelava di volta in volta chiare situazioni diverse: una spiaggia deserta con i resti di un relitto, una piazza in festa, lo studio di un mago-astronomo ed altre ambientazioni che il tempo ha purtroppo intaccato nella mia memoria. Nel ricordare quell’allestimento, Maurizio sfila uno di quei libroni ben rilegati dall’enorme scaffale e mi mostra le immagini dei suoi studi per l’opera: immediatamente queste prendono ad alimentare in maniera precisa il mio ricordo e lo richiamano fedelmente con forza ed accuratezza, un prodigio che neppure la più perfetta delle fotografie potrebbe mai compiere, ma che la vibrazione di un semplice pigmento sopra una povera carta giallastra ancora riesce a ricreare.
d.p.

STAGE DESIGN: VISUAL OR PROJECT?

Filed under: Scenografia — admin @ 12:57

La costruzione è una scienza, è anche un’arte, in altre parole il costruttore necessita del sapere, dell’esperienza e della intuizione naturale.

Eugène Viollet-le-Duc

 
 
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Il dubbio che ogni separazione fra scienza, tecnica ed arte sia assolutamente superflua ha intaccato per secoli la cultura e la formazione. Nel caso della tecnica teatrale questo dubbio è ancora più marcato. L’abituale separazione fra Scenotecnica e Scenografia sembra ormai avere confini sempre più incerti e sfumati nello spettacolo contemporaneo, quando ancora esistenti. Questa separazione poteva forse avere un senso quando, per ricordare le parole di Luciano Damiani, lo scenografo bozzettista era il “fornitore di immagini” che poi diventavano scena per mano di abili artigiani (pittori, falegnami, scultori, tecnici ecc.) che si occupavano di sviluppare e realizzare, grande al vero, la scena, rendendola tridimensionale e funzionale per lo spazio del palcoscenico.

La scenografia contemporanea, al contrario, sembra sempre più rivolgersi a processi che si integrano fra loro, guidati da un progetto drammaturgico, poetico, espressivo, estetico, unico vero fine a cui tendere. Tale integrazione ingloba conoscenze in campi sempre più diversificati e specialistici, guidati da necessità nel medesimo tempo formali e funzionali in una continua interazione. Si vedono quindi proliferare continue invenzioni scenografiche, veri e propri straordinari prototipi che sovente rappresenterebbero da soli l’avverarsi di sogni che lo scenografo, da sempre nella storia, ha avuto, ma che solo la tecnologia novecentesca ha permesso di realizzare.

Una di queste sicuramente è il cosiddetto PIANO FLESSIBILE, inventato dallo scenografo Luciano Damiani.


Perché un piano flessibile?
Il “reale” e i fantastici “inferiore” e “superiore” sono “entità” spaziali che già appartenevano al teatro barocco all’italiana – con le differenze del caso, chiaramente – ma non solo: il palcoscenico elisabettiano dei teatri pubblici, ad esempio, era già idealmente diviso in tre zone poeticamente ben definite; c’era infatti uno stage, situato probabilmente all’altezza delle teste degli spettatori; l’altezza dipendeva da esigenze di buona visibilità, ma anche per assicurare spazio sufficiente alla collocazione del cosiddetto inferno, hell, situato sotto il piano di palcoscenico e dal quale sortivano diavoli ed altre apparizioni demoniache mediante l’utilizzo di una o più botole. Lo stage poi, era parzialmente coperto da un tetto detto “cielo” (heavens): qui, con tutta probabilità, si trovavano i macchinari per le discese soprannaturali delle divinità. Lo stage era il “reale”, gli altri due spazi possono essere paragonati ai “fantastici” inferiore (hell) e superiore (heavens).
Bisogna precisare che, con l’utilizzo del velo in sala (una tela trasparente appesa dal palcoscenico alla sala, sopra gli spettatori), Damiani si occupò del “fantastico superiore”, ma non ebbe occasione di sperimentare il “fantastico inferiore” finché il comune di Milano gli propose l’allestimento per l’Orfeo, dal Poliziano, già messo in scena da Leonardo Da Vinci (Milano, Castello Sforzesco, Corte delle Armi; 1983)». “Fu un’occasione “fortunata” – scrive Damiani – “perché scoprii l’elemento in grado di completare la “macchina” di Teatro che volevo: il fantastico inferiore”.
In realtà Damiani non amava l’idea di riprendere pedissequamente la messinscena di Leonardo: Da Vinci nel suo progetto, aveva pensato a una collina come una mezza cupola: questa si “apriva” facendo apparire all’interno gli inferi. Damiani risolse il problema della collina realizzando un piano di palcoscenico che, flettendosi, diveniva un arco e permetteva di creare uno spazio superiore e uno inferiore. All’occorrenza inoltre, neutralizzando la spinta che lo aveva flesso, l’arco poteva ritornare a essere un normale piano di scena. Era l’avverarsi di un antico sogno che probabilmente avevano avuto molti scenografi nella storia: un piano che fletteva, si inarcava e lasciava intravedere un intero mondo degli inferi, un “sotto”, un inferno, un hell. Damiani raccolse la sua stessa sfida, da bravo, testardo “egocentrico”, come ama autodefinirsi…
Pensò aduna struttura flessibile, che misurasse 17 metri di lunghezza per poco più di 5 metri di larghezza, formata da tubi flessibili di poliestere termoindurente rinforzato con il 60% di fibra di vetro che furono acquistati da una ditta specializzata di Monaco.
Damiani ebbe un’intuizione geniale: inarcandosi, il piano sarebbe risultato prospettico, per cui la parte anteriore, più vicina al pubblico, si sarebbe arcuata maggiormente della parte posteriore. È comunque importante soffermarsi sul fatto che, trovandosi in posizione ad arco, il flessibile fosse in prospettiva: subendo spinte diseguali e flettendosi in maniere differenti, la struttura risultava sollecitata maggiormente e ciò significava andare incontro a ulteriori problemi statici e dinamici; eppure Damiani, conscio di tutto ciò, scelse appositamente di realizzare un piano flessibile prospettico. Se ciò non fosse stato infatti, il flessibile sarebbe apparso come un semplice ponte, un cavalcavia semovente (anche se un giornalista lo definì comunque in codesta maniera) piuttosto che una forma particolare quale era – quasi un lembo di crosta terrestre che, spinto da una forza misteriosa, si elevava.
La soluzione escogitata per la creazione delle due superfici lignee equivalenti era forse la più complessa e fu quella che giunse per ultima.
Venne progettata una struttura metallica studiata in modo da poter essere fissata alle aste flessibili. Gli elementi di acciaio erano posti, su tutta la lunghezza dei tubi, a una distanza di un metro uno dall’altro ed erano quindi, in numero pari a dodici; le lastre di legno erano spesse sei millimetri. Il vero e proprio pavimento, cioè la parte calpestabile, era composto da due strati sovrapposti di legno compensato; la parte inferiore del piano viceversa, non essendo praticabile ed avendo l’unica funzione di impedire la vista della struttura, era costituita da un solo strato di compensato.
Al doppio strato di compensato del pavimento, previde l’incollaggio due tappeti: da un lato dell’antirombo, dall’altro, quello calpestabile, del feltro. La funzione dell’antirombo era di limitare i rumori dovuti al ballo; si immaginino dei danzatori saltare o correre sul piano di palcoscenico flessibile: senza un “silenziatore” sarebbe stato come picchiare sulla pelle di un tamburo. Il feltro dipinto con della guaina rossa, aveva il medesimo scopo, ma non solo: risultava indispensabile ai ballerini come superficie grippante e come copertura delle guide metalliche che ospitavano i pannelli di compensato. Come già illustrato in precedenza infatti, è fondamentale per il ballo avere una superficie che impedisca scivolate e, altresì, un piano in cui sia assente qualsiasi elemento che possa ferire, se non peggio, i piedi dei danzatori.
Per concludere, Damiani studiò anche una soluzione per inserire, all’interno del flessibile dei proiettori; questi erano molto utili per illuminare la parte sottostante il piano quando si trovava in posizione ad arco. L’altezza interna del flessibile era di 16,4 centimetri e, nonostante fosse piuttosto sottile, dei piccoli proiettori potevano con facilità, essere collocati al suo interno. Chiaramente dove fuoriusciva il fascio di luce non era presente alcun pannello di legno.
Inizialmente i primi test che seguirono la progettazione e che cominciarono nel 1981, rivelarono un enorme difetto di costruzione: i tubi, non adeguatamente fissati alla squadra di metallo solidale con il congegno idraulico di spinta, si liberarono dalle loro sedi: il piano si “sdraiò” rovinosamente a terra. Si immagini un piano di diciassette metri di lunghezza che, per inarcarsi, necessita di una spinta pari a numerose tonnellate, e che, improvvisamente per un difetto di costruzione, si schianti disteso, a terra: il problema era veramente grave, soprattutto dal punto di vista della sicurezza.
La progettazione era stata estremamente accurata, questo si è già appurato, e la ditta che realizzò la carpenteria metallica del piano flessibile era affiancata da ingegneri del centro nucleare di Latina. Detto tutto ciò è legittimo chiedersi come si sia verificato un problema simile.
In realtà le variabili di cui tenere conto, erano un numero esorbitante. Se il piano si fosse inarcato in maniera simmetrica, cioè uguale sia anteriormente che posteriormente, probabilmente sarebbe stato più semplice calcolare punti di rottura, spinte, eccetera. Avere invece una flessione asimmetrica, dovuta alla presenza delle squadre poste alle estremità del flessibile, complicava enormemente le cose.
Se dopo sei lunghi mesi di lavoro si ottennero i risultati sperati infatti, fu solo grazie alle numerose prove eseguite che furono di enorme importanza. Damiani confessa che, se non avesse avuto modo di testare le soluzioni progettate possedendo spazi e mezzi finanziari adeguati probabilmente non sarebbe arrivato a nulla.
È importante precisare che il piano flessibile possedeva già una lieve curvatura naturale realizzata “in opera”, vale a dire durante la costruzione, necessaria perché il piano s’inarcasse. La predisposizione generata tuttavia, non fu sufficiente per vincere l’iniziale resistenza del piano all’inarcamento, sicché, con il solo scopo di innescare il movimento, si unì alla compressione idraulica in orizzontale, una spinta in verticale apportata da uno scivolo collocato sotto il flessibile.
Il palcoscenico flessibile aveva un unico difetto, se così possiamo chiamarlo: com’è già ampiamente noto, esso era praticabile sia in posizione orizzontale, che in quella “ad arco”. Se una massa di ballerini entrava da un’unica parte, ad esempio da destra, la struttura tendeva a oscillare verso sinistra.
In realtà questo tipo di “reazione” alle sollecitazioni da parte del flessibile si può giudicare normale: tutto sommato va sottolineato che il piano era lungo 17 metri e si inarcava fino a un’altezza massima di ben 3,2 metri. In ogni caso il problema fu aggirato facendo salire da entrambe le parti e contemporaneamente, la medesima quantità di personaggi.
Dice lo stesso Damiani: «…questo flessibile è la conclusione di tutta una ricerca che ho fatto io nell’arco di trenta, quarant’anni. Ma questa è la conclusione di un tentativo di fare in chiave moderna il teatro barocco, cioè: quinte palcoscenico inclinato, botole e soffitti. Era ancora in sospeso il risolvere il fantastico inferiore. Non c’erano altri mezzi a disposizione. È arrivata, per fortuna, la proposta da parte del Comune di Milano, di rifare la messa in scena di Leonardo. Però ho detto: “Io la messa in scena di Leonardo non la faccio, non voglio fare un modello per il museo della Scienza e della Tecnica. Faccio un’altra cosa!” e lì per lì ho detto: “Faccio un piano flessibile”, ma non sapevo assolutamente neanche come farlo. Realmente ho detto al sindaco di Milano: “Faccio un’altra cosa” ed è partita naturalmente quest’idea che a poco a poco si è sviluppata attraverso, prima dei tentativi, dopodiché con un primo fallimento pauroso. Ma poi ha funzionato!».
È possibile pensare che non sia stata compresa appieno l’importanza e la difficoltà insiti nella realizzazione di un palcoscenico flessibile. Quando Damiani lo utilizzò per la prima volta nello spettacolo Orfeo, la stampa non diede molto peso a questa innovazione scenografica. Leggendo i vari articoli di giornale sembra quasi normale che Damiani avesse realizzato un piano di diciassette metri che si inarcava e su cui dei ballerini eseguivano figure di danza. I commenti furono curiosi: “Damiani, dal canto suo, ha utilizzato come base figurativa le colline leonardesche, costruendo però una sorta di arco teso a separare la terra dagli inferi”; e ancora: “Leonardo è un cliente difficile, […] se perfino una artista come Damiani ne è rimasto bloccato”; Anche chi sembrò aver apprezzato non si sbilanciò più di tanto: “La scenografia […] è piuttosto bella.”
Al di là delle difficoltà tecniche per realizzare un piano di palcoscenico simile, da questi commenti si evince che nemmeno le necessità poetiche furono comprese, come pure l’importanza e l’unicità di questa geniale soluzione. E non sono certo di minima importanza: è lui stesso a confessare che il piano flessibile è la conclusione di tutta una ricerca compiuta nell’arco di trenta, quarant’anni…: di una vita.

Daniele Paolin

Brani di intervista, modello e foto tratte dalla tesi di Laurea “Il piano flessibile di Luciano Damiani” di Matteo Fianchi – Accademia di Brera Milano – Relatore prof. Daniele Paolin.

13 Luglio 2010

The international festival of scenic arts 2010

Filed under: Scenografia — admin @ 12:41

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LO SCENOGRAFO E GLI STRUMENTI DEL SUO TEMPO: UN PUNTO DI VISTA

Parliamo naturalmente di teatro: cinema e televisione affrontano il problema della scenografia con altri presupposti.

E’ difficile parlare di scenografia nel periodo attuale, soprattutto in Italia. La grave situazione economica che il nostro paese sta attraversando condiziona pesantemente ogni libera scelta artistica, di ricerca, di innovazione e di sperimentazione. In questo panorama si produce poco e male, soprattutto a discapito delle nuove generazioni di professionisti che si dedicano alla scenografia, proprio in un momento in cui nuove tecnologie si affacciano all’orizzonte del secondo decennio del secondo millennio sia sul versante della progettazione, sia sul versante della realizzazione che della tecnologia di palcoscenico.
Sul versante della progettazione il mercato offre numerosi e sofisticatissimi software di modellazione tridimensionale, oltre ai ben noti sistemi di disegno assistito, con i quali è possibile avvicinarsi in maniera considerevole a quello che sarà il risultato finale. Una simulazione, quindi, del reale che unisce una qualità della texture con quella della luce di livello inaspettato. Esiste ormai sul mercato anche un software freeware che permette addirittura, anche a vecchi incompetenti come il sottoscritto, di modellare velocemente degli schizzi volumetrici molto attendibili che sostituiscono i modellini di massima in cartoncino che si facevano fino a poco tempo fa soprattutto per capire la bontà e la qualità delle proporzioni e delle strutture.

Sul versante invece della tecnologia e della realizzazione si può riscontrare un sempre maggiore abbandono della pittura in favore soprattutto di sofisticati sistemi proiettivi. Sistemi meccanici, illuminotecnici e multimediali si stanno imponendo in palcoscenico ed il loro controllo diviene sempre più specialistico per cui se non si è a contatto con la pratica quotidianamente, risulta difficile qualsiasi aggiornamento.

Ma il punto a mio parere non è questo.

Due aspetti fondamentali stanno cambiando rapporti storicamente poco propensi a cambiare e ad innovarsi e questo grazie ad un più stretto rapporto tra arte e scienza che le nuove tecnologie e i nuovi linguaggi ci impongono: la drammaturgia e l’organizzazione stessa dello spettacolo.
I nuovi media impongono necessariamente nuovi linguaggi per raccontare, alcuni già entrati nel lessico televisivo e cinematografico. Mi vengono in mente le parole premonitrici che qualche anno fa, presentando uno spettacolo intermediale di cui era co-autore, Giorgio Celli, etologo ed appassionato di drammaturgia, disse al pubblico:

”Sembra quasi necessario che l’uomo acquisti coscienza del mutamento prossimo venturo, ma che non lo comprenda soltanto con la ragione, ma che venga coinvolto emozionalmente. La complicità della parte sinistra del nostro cervello non è sufficiente, bisogna chiamare in causa anche la parte destra, mettendo la ragione in sintonia con l’emozione, la percezione visiva con l’esercizio della logica, il vedere con il pensare, il pathos con il cogito. Come ottenere questo risultato se non attraverso un’opera multimediale, interdisciplinare, ad interfaccia tra scienza e arte, se non con un collage tecnologico, con un evento totale, con la simulazione di una grande profezia cosmologica?
Io credo che questo sia il tentativo anticipatorio di quello che potrebbe essere il teatro del prossimo millennio. A mio parere il teatro sta declinando, spinto da altri mezzi assai più suggestivi: come potrà sopravvivere, se vorremo farlo sopravvivere?
Da un lato credo che diventerà uno psicodramma: due attori che parlano circondati da poche persone e questo potrà essere un teatro dell’immaginazione, della finzione, dell’emozione, della partecipazione diretta; l’altro tipo di teatro potrebbe essere un tipo di teatro totale, dove tutti i mezzi di riproduzione dell’immagine e di trasmissione delle parole e dei suoni concorrono insieme a fare una specie di grande “conflagrazione””.

Dello psicodramma si è già impadronita la tv con i vari reality che stanno imperversando su tutti i fronti: un gran numero di spettatori (che alimentano l’audience e quindi la pubblicità e quindi gli introiti…) assistono in qualità di voyeurs alle emozioni “dal vero”, in partecipazione emotiva diretta (ma su questo ci sarebbe molto da dire…) di interi gruppi eterogenei di persone.
Al teatro forse resta quella che Celli chiama “evento totale” di movimento, di immagini, di parole e di suoni dal vivo, in tempo reale, in altre parole la multimedialità o intermedialità.
E qui non si tratta di mettere telecamere e monitors in scena o usare le proiezioni o laser vantando di essere all’avanguardia; si tratta invece di usare dei veri e propri linguaggi multi o inter mediali che sono cosa diversa e più articolata ancorché spettacolare.

Ma la domanda è: si può ancora parlare di “scenografia” come scienza autonoma o è meglio chiamarla “scienza delle apparenze” come qualcuno ha proposto? Non a caso molti spettacoli contemporanei escono dagli ormai angusti spazi teatrali. Ma soprattutto: esistono drammaturghi che scrivono e che immaginano un teatro simile? Ed esistono nuove personalità registiche e scenografiche che si approprino di questi nuovi linguaggi legati alle tecnologie, ma soprattutto all’intermedialità?

Probabilmente sì, e sono ancora una sparuta ed isolata minoranza che faticosamente sta emergendo, ma questo non è il momento propizio per sperimentare, per provare, per curiosare e ricercare nei meandri del futuro: soprattutto in Italia mancano i mezzi e le opportunità e certo non bisogna aspettarsi nulla dalle cosiddette istituzioni…. Prendono però sempre più piede nuove metodologie e nuovi sistemi di lavoro e di organizzazione. Ormai i numerosi specialismi obbligano necessariamente (finalmente, direi!) ad un serio lavoro di gruppo, in cui varie personalità hanno lo stesso peso e lo stesso intervento sulla qualità dello spettacolo: non è più affare soltanto del regista demiurgo factotum in primis e dello scenografo fornitore di immagini in seconda battuta; ingegnere del suono, light designer, ingegnere informatico, ingegnere meccanico, tecnico informatico, art director ed altre figure ancora stanno sempre più costantemente affiancando e sostenendo quelle storiche della progettazione dello spettacolo ed in futuro lo faranno ancora di più.

Per quanto riguarda il rapporto fra le nuove tecnologie e lo spettacolo, ultimamente mi hanno colpito due cose: la prima riguarda il passato e la seconda il futuro.

Per ciò che concerne il passato ho scoperto solo poco tempo fa una figura straordinaria di scenografo, sul quale in Italia si sa poco, che ha elaborato una serie di teorie e di spettacoli ancora oggi all’avanguardia, ma lo ha fatto fin dalla fine degli anni ’60 ed è questo l’incredibile: si tratta di Jacques Polieri, scenografo francese che già da quegli anni aveva pensato ad un nuovo rapporto fra pubblico e spettacolo con l’ideazione di settori di pubblico che aveva così l’opportunità di muoversi nelle tre direzioni dello spazio, cambiando continuamente punto di vista sullo spettacolo; o anche il suo théatre mobile à scène annulaire che è una sorta di teatro totale semovente; ma le innovazioni principali hanno riguardato la sua messa in scena: immagini elettroniche, proiezioni, riprese-ponte fra continenti diversi… Insomma “ha previsto, venti/trenta anni prima, la fine del teatro nella sua forma tradizionale, la banalizzazione del cinema, e lo straordinario sviluppo della televisione, del video e dei mezzi elettronici” come ha scritto Jean-Michel Place.

Per il futuro, la cosa che mi ha più sorpreso come appasionato di scenografia, è senza dubbio la nascita e lo sviluppo di tecniche di proiezione tridimensionale animata su facciate o elementi architettonici che hanno la possibilità di trasformare l’architettura in una metamorfosi continua affascinante: il più antico sogno dello scenografo si avvera e cioè quello di vedere un ambiente che si trasforma gradualmente in altra cosa, in altra figurazione senza nessuna invasività, quasi una forma di trasfigurazione spettacolare.
Questo mezzo rappresenta senza dubbio una risorsa straordinaria dal punto di vista visivo, ma credo anche che attualmente sia usato come semplice dimostrazione di abilità “effettistica”, senza dubbio interessante, ma assolutamente gratuita: credo che quando tutto ciò avrà una destinazione ed un impiego al servizio di un “racconto” più o meno lineare, potrà assumere una superiore forza espressiva e si apriranno quindi altri orizzonti icastici interessanti.

 

pdf dell’Intervento completo di Daniele Paolin

24 Giugno 2010

scenografia e scenotecnica (arte e tecnica): discipline diverse?

Filed under: Scenografia — admin @ 08:15

«La consunta dicotomia fra azione artistica ideativa, pura e libera, e scenotecnica che la realizza, mostra una visione miope del problema che non è più da molto tempo di dipendenza esecutiva nei confronti di un oggetto altrimenti già delineato. Il trattamento dello spazio globale, inteso anche come parti di vuoto, come aria e luce, è altrettanto importante della scelta degli elementi figurativi che dichiarano il significato della scena. Progettare con coerenza nello spazio volumi, ritmi, colori, luci, immagini, forme, è l’azione oggi più importante nella sfida con la fisicità del teatro, rappresentazione e costruzione a tre dimensioni di un brano di mondo ricreato. Proiettare un pensiero fatto di forme e luci nella loro esistenza fisica e farlo diventare oggetto in profondità, modello o scultura, significa determinare e controllare non più la tradizionale immagine-bozzetto ma l’intero sistema spettacolo nella sua esistenza come entità concreta calata in una propria dimensione spazio-temporale».

Da Verso la scena di Giorgio Ricchelli (Docente IUAV)

Scientia sine Arte nihil est : Ars sine scientia nihil est”, Jean Vignot, 1392

“Mentre può esistere una tecnica senza arte, non è mai esistita un’arte senza una tecnica”.  René Berger

22 Giugno 2010

verso una “scienza delle apparenze”

Filed under: Scenografia — admin @ 15:57

derjasbn

 

Studi sulla scenografia, fra progettazione e realizzazione.

Intervento del Prof. Daniele Paolin all’Accademia di Brera per il ciclo INCONTRI CON I GRANDI MAESTRI DELLA SCENOGRAFIA INTERNAZIONALE organizzato dalla rivista The Scenographer Masterclass di progettazione e realizzazione – I nuovi linguaggi scenografici – Aprile 2007

Negli ultimi cinquant’anni la scenografia ha percorso un cammino considerevole, quale, agli inizi del secolo, non era neppure possibile presagire, sebbene, il frenetico avvicendarsi di scoperte ed invenzioni in campo tecnico, e la vitalità delle arti figurative, altrettanto sconvolgenti e rivoluzionarie, fossero segni chiaramente premonitori dello schiudersi di nuovi e più vasti orizzonti.

Partendo dalle aride esperienze stilistiche e dalle fredde ricostruzioni archeologiche, peculiari della produzione tardoromantica, siamo pervenuti, nel giro di alcuni decenni che hanno visto intrecciarsi tentativi ed esperienze di ogni genere e sia pure di diverso valore, ad un’arte moderna ed attuale, caratterizzata da una pluralità di inedite ed inconfondibili esperienze.

Purtroppo, non ci sentiremmo di affermare con uguale sicurezza che tale sorprendente ciclo sia stato seguito da un adeguato approfondimento critico. Se un tempo le idee intorno alla funzione ed alla finalità della scenografia risultavano confuse, per troppa parte appaiono tali ancor oggi. Sembra che tutto concorra a perpetuare od a far prosperare alcune false teorie, le quali, giungendo talvolta persino a snaturarne e ad alterarne il carattere, hanno accompagnato la scenografia per secoli, anche nei momenti di particolare splendore.

La carenza critica è determinata da cause ben precise ed individuabili, per quanto non tutte siano facili da superare. Come ebbe a notare il Molinari, in un acuto saggio sulla formulazione di una metodologia per la storia del teatro, il maggior numero di studi inerenti i più vari aspetti dello spettacolo sono stati svolti da così detti “uomini del mestiere”; questi, per una singolare forma mentis, sovente affiancata da una inadeguata preparazione critica, “sia pure tra geniali intuizioni, assai spesso di carattere autocritico ed autodefinitorio”, non sono riusciti a determinare od a proporre un metodo di lavoro efficiente e razionale.

A questa osservazione, che rimane valida ed accettabile anche per la scenografia, vorremmo aggiungerne una seconda, a nostro avviso altrettanto incidente. E cioè come, nel caso in questione, un cospicuo contributo critico sia stato offerto in prevalenza da studiosi di arte figurativa i quali, seguendo un consueto metodo di lavoro, hanno considerato dei bozzetti unicamente l’aspetto grafico, analizzandoli alla stregua di un’opera pittorica, compiuta in sé, senza quasi mai preoccuparsi di prenderne in esame le più reali qualità sceniche, le sole che dovrebbero essere ritenute valide agli effetti teatrali.

Nel tentativo, spesso vano, di colmare lo svantaggio derivante da un’arte che lascia tracce troppo effimere e inconsistenti, ci si trova a dover operare una autentica “ricostruzione archeologica delle forme spettacolari”: a lavorare su frammenti, con materiale incerto ed incompleto. Di qui un continuo ed inevitabile attingere a fonti mediate, a notizie di seconda mano desunte dalle recensioni di cronisti non sempre sicure ed attendibili, alle “memorie” od ai “diari” di viaggiatori stranieri i cui pregi maggiori consistono quasi sempre nel valore letterario, od infine ad inerti documenti d’archivio.

Manca, in altri termini, la condizione indispensabile a dar vita all’intuizione critica, la quale si verifica, per dirla col Venturi “…non soltanto con la critica delle idee precedenti, ma soprattutto con l’esperienza intuitiva delle opere d’arte. Senza questo ritorno continuo alle origini, all’impulso intuitivo, al contatto di uomo a uomo, di spirito a spirito, fuori dei limiti imposti dalla tradizione, non sarebbe possibile la creazione di una nuova critica. Il progresso, cioè, non avviene per giro di ruota, secondo la routine: avviene a salti. E il trampolino per la critica d’arte è l’opera d’arte ispiratrice”.

Questo contatto ideale di “uomo a uomo” per lo storico della scenografia è pressoché irraggiungibile: non si attua interamente neppure quando, nel più fortunato dei casi, egli può disporre dei bozzetti scenici, giacché, è bene chiarire, i bozzetti non sono scenografie, ma solo appunti, incompleti e lacunosi, per giungere ad esse. La scenografia si avrà solo quando le parti dipinte, le parti costruite, i giuochi di luce, l’attrezzeria, saranno lì sul palcoscenico, intorno all’attore che vi conferirà l’esatta dimensione teatrale. Se ne ricava il valore del tutto marginale del bozzetto, che al limite potrebbe anche essere soppresso, senza alcun danno per l’effetto scenico finale, qualora lo scenografo – inventore ottenga direttamente dai suoi collaboratori tutto quanto gli è necessario.

E’ opportuno stabilire, partendo ab origine, se, a proposito della scenografia, sia lecito parlare di arte, ed in caso affermativo occorre definirne le caratteristiche fondamentali, e la sua funzione nel teatro moderno. Si è spinti a porre tale quesito in considerazione dell’operazione essenzialmente composita della scenografia, nella quale concorrono, con maggiore o minore incidenza, a seconda dei casi, pittura, scultura, decorazione ed architettura. Questo rapporto, sia pure con prevalenze alterne, ha senza dubbio apportato giovamento ad entrambe le parti, ma, sempre a scapito della scenografia, ha anche contribuito a rendere più vaghi e incerti i suoi confini con le arti figurative.

Questo però è motivo sufficiente per ritenere la scenografia un sottoprodotto della pittura o dell’architettura, o non si tratta piuttosto di un’arte autonoma che, servendosi opportunamente di queste, le assimila per riproporle in una espressione nuova ed autonoma?

Oltre che per la già deprecata deficienza critica – ricordiamo per inciso le frasi convenzionali ed i frettolosi giudizi con i quali, senza eccessivo indugio, vengono liquidati gli allestimenti scenici, non solo nelle recensioni dei quotidiani, ma persino nelle riviste specializzate – tali casi traggono spunto principalmente da alcuni equivoci che si verificano nell’insegnamento e nell’attività professionale.

Trascurando il corso della facoltà di architettura, che tende solo a dare un’informazione e che quindi non può qualificare professionalmente, lo studio della scenografia in Italia si esplica unicamente presso le Accademie di Belle Arti. Esso si attua, quindi, in un ambiente costituzionalmente volto alle arti figurative: ciò, mentre da un lato contribuisce alla formazione di un gusto estetico, ausilio indispensabile per lo scenografo, d’altro canto, per la totale assenza di rapporti con gli altri fattori costitutivi dello spettacolo (regia, attori, ecc.), ostacola e ritarda lo sviluppo e l’assimilazione di un gusto teatrale, tendendo quindi a creare pericolose deformazioni nella personalità del futuro scenografo. Occorrerà il massimo impegno da parte del docente per evitare che l’allievo, sotto il continuo influsso dell’ambiente, invece di adoperare il colore in base al suo significato emotivo, sia indotto ad indulgere in arbitrarie soluzioni pittoriche, magari efficaci dal punto di vista formale, ma prive di senso di relazione alle esigenze della scenografia.

Mentre questi inconvenienti, se non eliminati, possono essere ampiamente circoscritti mediante una continua e vigile opera didattica, ben più gravi sono gli accidenti che si verificano nell’attività professionale: infatti vige ancor oggi il costume, antico quanto arbitrario, di affidare al pittore la soluzione di problemi teatrali, nella errata convinzione che un talento pittorico, magari di eccezionale livello, senza bisogno di alcun approfondimento specifico, sia in grado di affrontarli e risolverli quanto, se non meglio, uno scenografo.

Senza volere ignorare o sminuire il concreto contributo offerto alla scenografia dalle arti figurative in tutte le epoche – contributo che in alcuni casi è servito persino a favorire svolte ed improvvisi mutamenti di rotta – bisogna quindi convenire che è auspicabile una maggiore chiarezza e precisione nello stabilire i limiti della loro interferenza. Ciò si potrà ottenere solo evitando, in base a giudizi troppo frettolosi e superficiali, di ritenere positivo, senza alcuna discriminazione, ogni intervento estraneo, anche quando non si tratta che di episodiche avventure destinate a rimanere senza storia.

Come è noto, un apporto compatto della pittura, l’ultimo in ordine di tempo, che abbia avuto sensibili ed apprezzabili ripercussioni sulla scenografia, al di fuori degli interventi singoli, rimane legato al nome dei balletti russi.

Ma a parte ciò, bisogna convenire che ormai, essendo la scenografia definitivamente uscita da depressive situazioni contingenti, appare del tutto privo di significato riproporre esperienze passate, in base ad esempi efficaci solo se inquadrati in una precisa situazione storica. Ogni iniziativa in tal senso, benché pretenda di essere anticipatrice e progressista, non può, al contrario, che risultare anacronistica e retriva; servirà solo a riportare la scenografia indietro nel tempo, annullando decenni di fertili tentativi e di fruttuose ricerche.

Un rapido sguardo su alcune produzioni pittorico – teatrali di questi ultimi anni ne fornisce un’esauriente dimostrazione. Tralasciando esempi del tutto deteriori, il caso più ricorrente è quello di artisti che, lungi dal condizionare la abituale maniera espressiva alle esigenze della scenografia, hanno adoperato il palcoscenico come una enorme sala da esposizione, limitandosi ad esporre un loro quadro opportunamente ingrandito e dilatato. Il ripetersi di epidermiche esperienze da parte di un medesimo artista, ad onta della diversità delle opere rappresentate, quando non è seguito da un adeguato approfondimento specifico, finisce inevitabilmente col cadere in monotone ripetizioni di un tema unico. Talvolta l’opera scenografica del pittore o dell’architetto, al di fuori di ogni consapevole intenzione, è riuscita a realizzare un ideale contatto con il testo per una congenialità del tutto naturale e spontanea. In casi particolari – che però, come ogni altro, può essere risolto da un qualsiasi scenografo provveduto delle indispensabili doti di sensibilità e di gusto – il pittore o l’architetto sono stati scelti, in base ad un ineccepibile ragionamento, proprio perché la loro maniera risultava singolarmente affine al clima dell’opera.

Quantunque in gran parte riferite alla pittura – e ciò per il maggior numero di interferenze – tali osservazioni rimangono valide anche per l’architettura la quale, tuttavia, occupa una posizione alquanto diversa. Le espressioni più moderne dello spettacolo, cinema e televisione, per il loro carattere estremamente realistico, richiedono allestimenti in cui la preparazione tecnica e la conoscenza stilistica dell’architettura sono indispensabile corredo. Significativo l’orientamento preso in questi ultimi anni nelle Accademie od al Centro Sperimentale di Cinematografia: a presiedere l’insegnamento di scenografia, quando non vi è uno scenografo, viene designato un architetto il quale, ovviamente, abbia avuto le necessarie esperienze in materia.

Nel nostro rapido esame, a titolo puramente esemplificativo, ci siamo limitati a segnalarne solo una parte, al fine di porre in risalto l’arbitrarietà e l’illegittimità di alcuni interventi. Di quelli, cioè, che con i loro disinvolti e superficiali contatti finiscono per mortificare la preparazione scenografica, annullandone ogni valore.

Non si auspica quindi che venga esaurendosi una cooperazione, a volte anche proficua, ma che essa sia circoscritta a quei casi che offrano le opportune garanzie di una adeguata conoscenza specifica e di una reale adesione ai problemi dello spettacolo.

Si può quindi concludere che le arti figurative appaiono come una componente indispensabile e preziosa per la scenografia, purché contenute entro i limiti di una funzionalità teatrale. Sebbene abbia mutato volto nei secoli, questa esigenza esiste da sempre: pittura, architettura o scultura, entrando a far parte di una scenografia, sono sempre state assimilate e riproposte con un significato ed una forza espressiva del tutto propria ed inedita. E’ proprio la relazione con il testo e la drammaturgia, su cui sorge un’autonoma rappresentazione, la caratteristica che maggiormente differenzia la scenografia dalle altre arti, per le quali si lavora in perfetto abbandono, senza interposizioni o mediazioni di sorta. Ciò sia detto non per ricondurre a formula la soluzione di un problema fondamentalmente estetico, ma solo per porre in risalto l’aspetto più valido, la più originale caratteristica della scenografia moderna.

Se si vuole evitare di emettere giudizi non pertinenti anche per una valutazione critica, quindi, è al criterio interpretativo del testo in termini teatrali che bisogna guardare, giacché su tale principio, e non sulle estrosità pittoriche e sulle audacie architettoniche, sia pure ad altissimo livello, si sono fondate le più valide espressioni.

E’ sorprendente come le parole fin qui citate e che volutamente ho simulato formulassero il mio pensiero, siano in realtà di un grande studioso, storico, scrittore, docente di scenografia: sono di Franco Mancini, estratte dall’articolo SCENOGRAFIA: UN RAPPORTO DA PRECISARE e sono state scritte nel 1964 (43 anni or sono…) su “Critica d’Arte” fascicolo 62.

I giorni scorsi mi sono chiesto, rileggendolo, cosa fosse cambiato in 43 anni. Mi sono risposto: molto poco. E’ per questo che le pagine lette sembrano scritte oggi.

Mancini, ricordo, asserisce: “Se un tempo le idee intorno alla funzione ed alla finalità della scenografia risultavano confuse, per troppa parte appaiono tali ancor oggi”.

L’importanza storica da una parte, e la rapidissima evoluzione della scenografia nel suo insieme (teatrale, televisiva, ma soprattutto cinematografica) sono, in Italia principalmente, purtroppo controbilanciate da un crescente, generalizzato disinteresse culturale e mediatico verso questa bellissima disciplina nella quale il nostro paese ha sempre primeggiato. Poche le pubblicazioni, scarsissimi i libri, rari i convegni, ancor più rare le mostre, spesso svogliate le recensioni, interrotte soltanto da momenti di indubitabile prestigio quali i premi Oscar come Gianni Quaranta e Dante Ferretti.

La ricerca delle motivazioni che giustifichino questo dato evidente vanno ricercate nella natura stessa della prassi scenografica: quella dello scenografo è una professione pregnante, oserei dire “totalizzante”, ma per certi versi oscura e sconosciuta alla grande maggioranza e forse un po’ trascurata dal mondo della cultura accademica nella sua accezione più ampia. Si lavora per mesi, prima dell’evento, isolati nella progettazione, nella ricerca, nella documentazione fino ad arrivare allo straordinario momento in cui si materializza la scena, il manufatto, immersi in mille problemi di carattere economico, tecnico, artistico, organizzativo, molto spesso con ritmi forzati e sostenibili solo con notevole difficoltà, fino ad arrivare all’evento performativo, momento in cui tutto si concentra, acquista un senso e prende corpo.

Tutto ciò ha un aspetto comunque magico, emozionante, straordinario.

Ovvio quindi che resti ben poco tempo per la riflessione, la scrittura, la sedimentazione teorica, l’analisi serena o soltanto per una accurata, preziosa raccolta documentale di questo iter, di questo meraviglioso, difficile processo creativo. Gli scenografi lasciano poco materiale al grande pubblico, agli studiosi o solo agli appassionati, ma quasi sempre non per colpa o cattiva volontà: solo ed unicamente per mancanza di tempo.

E per il professionista che è anche docente, e che quindi ha la necessità di trasmettere questo sapere, quest’arte, queste capacità a nuove generazioni, diventa difficile anche il solo dare dei semplici punti di riferimento e strumenti “altri”, oltre alla propria esperienza, pur importante, come invece succede nella maggior parte delle altre discipline d’insegnamento.

Risulta quasi inevitabile quindi, citando ancora Mancini, che un «contributo critico sia stato offerto in prevalenza da studiosi di arte figurativa i quali considerano, dei bozzetti, unicamente l’aspetto grafico, analizzandoli alla stregua di un’opera pittorica, compiuta in sé, senza quasi mai preoccuparsi di prenderne in esame le più reali qualità sceniche, le sole che dovrebbero essere ritenute valide agli effetti teatrali».

Spesso, nella mia vita di docente, mi sono chiesto in quale modo, lo studente che avevo davanti, potesse riuscire a capire che il suo “bozzetto” non possedeva quelle “reali qualità sceniche, le sole che dovrebbero essere ritenute valide agli effetti teatrali”.

Ma come trasmettere queste particolari qualità se non arricchendo le sue conoscenze con la pratica scenica, la sola che possa formare questa capacità critica?

I nostri istituti formativi non sono ancora oggi in grado di avere rapporti istituzionali con realtà teatrali o quantomeno con altre organizzazioni disciplinari attigue allo spettacolo. Ecco che, ricorda Mancini già 43 anni or sono «per la totale assenza di rapporti con gli altri fattori costitutivi dello spettacolo (regia, attori, ecc.), ostacola e ritarda lo sviluppo e l’assimilazione di un gusto teatrale, tendendo quindi a creare pericolose deformazioni nella personalità del futuro scenografo». Non è cambiato nulla. Neppure lo stato giuridico delle Accademie e di chi vi insegna, detto per inciso.

E allora siamo costretti a trattare unicamente la “teoria scenografica”. Siamo costretti a lavorare su quei “bozzetti” che, per ricordare le parole di Mancini «non sono scenografie, ma solo appunti, incompleti e lacunosi, per giungere ad esse. La scenografia si avrà solo quando le parti dipinte, le parti costruite, i giuochi di luce, l’attrezzeria, saranno lì sul palcoscenico, intorno all’attore che vi conferirà l’esatta dimensione teatrale».

I cosiddetti “bozzetti”, quindi, se da una parte rappresentano un prezioso alimento per quel “gusto artistico” e compositivo che sembra essere indispensabile, inevitabilmente si allontanano da quella “dimensione teatrale” e spaziale che si auspica. Sono scene spesso vuote, senza protagonisti, senza storia: diventano solitarie protagoniste di se stesse; vogliono solo ed unicamente far bella mostra di se. Ed è qui che l’aggettivo “scenografico” assume quel consueto, becero, insopportabile significato di “apparenza senza sostanza”, di “estetica senza funzione” di “vuota ampollosità” che normalmente purtroppo assume.

Scenografia invece è fatica, studio, progetto, funzione estetica e funzione drammatica, disciplina dura, dura quanto la sua parte tecnica, normativa e metodologica. La mancanza di laboratori e di rapporti istituzionali con centri di produzione, confina l’insegnamento tecnico-pratico della realizzazione scenografica unicamente allo stadio ancora una volta soltanto “teorico”. Per ricordare ancora Mancini:«Dare un’informazione non è qualificare professionalmente».

Per anni mi sono personalmente battuto per abbattere, almeno, quella storica barriera che separa, normativamente in ambito accademico, la Scenografia dalla Scenotecnica o quantomeno per rendere meno evidenti i loro burocratici confini, visto che ci vengono imposti. Ultimamente sono stato confortato da un prestigioso collega scenografo e docente dello IUAV di Venezia, il Prof. Giorgio Ricchelli, che nel suo ultimo libro, Verso la scena, quasi parafrasando Mancini, afferma:«La consunta dicotomia fra azione artistica ideativa, pura e libera, e scenotecnica che la realizza, mostra una visione miope del problema che non è più da molto tempo di dipendenza esecutiva nei confronti di un oggetto altrimenti già delineato. Il trattamento dello spazio globale, inteso anche come parti di vuoto, come aria e luce, è altrettanto importante della scelta degli elementi figurativi che dichiarano il significato della scena. Progettare con coerenza nello spazio volumi, ritmi, colori, luci, immagini, forme, è l’azione oggi più importante nella sfida con la fisicità del teatro, rappresentazione e costruzione a tre dimensioni di un brano di mondo ricreato. Proiettare un pensiero fatto di forme e luci nella loro esistenza fisica e farlo diventare oggetto in profondità, modello o scultura, significa determinare e controllare non più la tradizionale immagine-bozzetto ma l’intero sistema spettacolo nella sua esistenza come entità concreta calata in una propria dimensione spazio-temporale».

Ecco quindi che questo primo di una serie di incontri con i grandi maestri della Scenografia internazionale ed i relativi masterclass pomeridiani organizzati dall’Accademia di Brera e dalla rivista The Scenographer risulta essere l’auspicabile inizio di quel rapporto tanto desiderato e così poco spesso realizzato tra formazione e professione di cui si sente l’assoluta mancanza.

La rivista, fra le poche al mondo sull’argomento, il suo sito e il costituendo Centro Studi sulla Scenografia ci si augura possano ben presto rappresentare un semplice strumento, un mezzo flessibile ed aperto che avrà come obiettivo quello di accompagnare gli studenti, ma anche neo professionisti, alla scoperta dell’importanza di approfondimenti storici e critici, innanzitutto, ma anche di tutte le innovative teorie, tecniche e di chi le impiega, al continuo aggiornamento altrimenti impossibile, soprattutto per quanto riguarda anche quel mondo digitale e mediale che prepotentemente si è affacciato in alcuni settori a forte innovazione tecnologica quali il cinema e la televisione, ma, in maniera forse meno accentuata, anche il teatro.

Auspicando quindi un sempre maggiore coinvolgimento dei discenti nel mondo della produzione e della prassi dello spettacolo ecco almeno l’affacciarsi di quel mondo del “fare”, finalmente preziosissimo strumento indispensabile di quel “pensare” che altrimenti resterebbe, come purtroppo spesso accade, puro esercizio accademico.

PROF. DANIELE PAOLIN SCENOGRAFO SCENOTECNICO

Filed under: Presentazione — admin @ 12:24

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Daniele Paolin

1971/73

Inizia la sua attività teatrale con la CompagniaMusicoteatro, progettando e realizzando fra il 1971 ed il 1973 numerosi spettacoli, con la regia di Vera Bertinetti, fra i quali:The little sweep di B. Britten,Sulla via maestra di G. Strano, Suor Angelica di G. Puccini, Hin und Zurük (Avanti e indietro) di P. Hindemit, Der Jasager der Neinsager (Colui che dice di si e colui che dice di no) di B. Brecht e K. Weil.

He majored in Scenography at the Academy of Fine Arts in Venice – Italy. He graduated in 1976 but began his work in the theater in 1971 with the Musicoteatro Company first as a Scenography Assistant and later promoted to Manager of Scenography Design. This lead to the creation and realization of numerous shows between 1971 and 1973 which include: The little sweep by B. Britten, Suor Angelica by G. Puccini, Hin und Zurük by P. Hindemit and Der Jasager der Neinsager by B. Brecht & K. Weil.

1975

Ottiene una borsa di studio per la frequenza al corso di formazione per allievi scenografi presso il Teatro alla Scala di Milano.

In 1975 he received a grant to study scenography at Teatro alla Scala in Milan.

1976

Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Venezia con una tesi sulla realizzazione scenografica.

Collabora come aiuto scenografo con l’E. A. Arena di Verona per la relativa stagione estiva.

In 1976 he collaborated as Scenography Assistant with the E. A. Arena di Verona for the summer season.

1977

Collabora come aiuto scenografo con l’E. A. Arena di Verona per la stagione estiva.

Nella stagione invernale lavora come scenografo collaboratore alla realizzazione presso il Teatro Comunale di Treviso per la stagione lirica dell’Autunno Musicale Trevigiano.

In the winter through 1977 he worked as Scenographer for the Teatro Comunale di Treviso for the operatic season of the Autunno Musicale Trevigiano.

1978

Fonda, assieme ad altri colleghi, La Bottega Veneziana s.r.l., un laboratorio di realizzazione e pittura scenografica realizzando circa una cinquantina di allestimenti di scenografi fra i più quotati quali: Bussotti, J. Pomodoro, Samaritani, Colonnello, Luzzati, Ghiglia, Martone, Mastromattei, Spinatelli, Borowsky, Lindsay Kemp Company, commissionati da teatri italiani ed europei quali: il teatro alla Scala di Milano, La Fenice di Venezia, il Regio di Torino, il Carlo Felice di Genova, Torre del Lago, il Filarmonico di Verona, Toulouse, Pesaro, Montepulciano, il Verdi di Trieste, il Massimo di Palermo, il Liceu di Barcellona ed altri.

In 1978 and 1979 he co-founded La Bottega Veneziana s.r.l., a work-shop for the creation and realization of scenography. He managed La Bottega Veneziana until 1984 and realized approximately fifty scenography stages. All stages were commissioned by Italian and European theaters such as Il teatro alla Scala di Milano, La Fenice di Venezia, Il Filarmonico di Verona, Toulouse, and Liceu de Barcelona.

1984

Lascia La Bottega Veneziana e collabora, per la stagione lirica estiva, con l’E. A. Arena di Verona in qualità di Assistente agli allestimenti scenici e tecnici.

Nel Novembre viene nominato Assistente alla Cattedra di Scenografia A presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia dove si era diplomato.

In 1984 he left La Bottega Veneziana and accepted the position of Assistant for stage effects and techniques at the summer operatic season at the E. A. Arena of Verona.

In November, he was assigned Assistant for the Scenography Course at the Academy of Fine Arts in Venice.

1985

Viene chiamato a collaborare con il Teatro La Fenice di Venezia in qualità di Pittore Scenografo realizzatore, ruolo che ricoprirà ininterrottamente fino all’incendio del Teatro del 1996.

In 1985 he collaborated with the Teatro La Fenice di Venezia as Manager of Scenography Design responsible for scenography of the operatic seasons. He held this position till 1996 when the theater was destroyed by fire. During this time he produced more the fifty shows.

1986

E’ assistente alla Scenografia del balletto Der Tod und das Mädchen di F. Schubert con le coreografie Giuseppe Carbone presso il Teatro reale dell’Opera di Stoccolma.

In 1986 he was the schenography assistant for the ballet Der Tod und das Mädchen of F. Schubert and choreography by Giuseppe Carbone at the Royal Theatre of the Opera in Stoccolma.

1993

Nel 1993 inizia una collaborazione didattica con l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia con due interventi sul tema Architettura e Teatro.

In 1993 he collaborated with the Istituto Universitario di Architettura di Venezia (I.U.A.V.) in the assistance of the development of multiple scenography design thesis. During this cooperation in 1994 he was credited with two articles about Theater and Architecture titled: The technical elements of the Teatro all’Italiana andRenaissance props and Baroque Theater.

1996

Lascia il Teatro La Fenice e la realizzazione scenografica dopo l’incendio e partecipa, con proprie opere, alla realizzazione del catalogo della linea Nest del designer Enzo Berti per la ditta Montina di Milano.

In 1996 he created the catalog brand Nest of Designer Enzo Berti for Montina of Milan.

1997

Viene chiamato alla realizzazione di alcune parti pittoriche dello spettacolo Les Vêpres siciliennes per il Teatro dell’Opera di Roma.

Realizza Lucia di Lammermoor di G. Donizzetti per lo Staatsopera Rousse (Bulgaria), ed inizia una collaborazione con l’organizzazione Euro Stage di Amsterdam per la quale progetta l’allestimento dell’operaRigoletto di G. Verdi.

Viene nominato Docente di Scenotecnica 2 presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano dove tuttora insegna.

Nello stesso periodo viene chiamato preso l’Istituto Universitario di Architettura a tenere un corso di Rappresentazione per il laboratorio di Progettazione 1L del Prof. Arch. Luciano Testa e collabora per il laboratorio di progettazione 4 tenuto dal Prof. Arch. Valeriano Pastor sulla ricostruzione del Teatro La Fenice.

In 1997 he developed paintings for Les Vêpres siciliennes at the Teatro dell’Opera di Roma.

1997 realized Lucia di Lammermoor by G. Donizetti for the Staatsopera Rousse (Bulgaria), and began collaborating with the EuroStage of Amsterdam where he designed stages for Rigoletto by Giuseppe Verdi for the autumn 1997 season at the Staatsopera Rousse (Bulgaria).

In November 1997 he was named Professor of Scenography 2 at the Academy of Fine Arts of Brera in Milano where he continues to teach to this day. At this time he instructed a course at the Istituto Universitario di Architettura on Representation for the laboratory “Progettazione 1L” under Prof. Luciano Testa and collaborated for the “Laboratory 4” under Prof. Valeriano Pastor for the Teatro La Fenice reconstruction.

1998

Progetta Tosca di G. Puccini per il Teatro Nazionale di Szeged (Ungheria), Nabucco eAida per il KyrburgOpernfestspiele di Kyrburg/Nahe (Germania).

1999

Realizza, come pittore realizzatore, Un ballo in maschera con scene di Oscar Kokoschka per il Palafenice di Venezia; riceve un incarico come consulente scenotecnico per il restauro del Teatro Rossini di Vittorio Veneto e del Teatro Eden di Treviso patrocinato dalla Fondazione Cassamarca di Treviso e curato dagli Architetti Saccon per il primo e Gemin per il secondo; firma le scene di un nuovo allestimento dell’opera Nabuccorappresentato davanti allo storico Kaiserdom (Duomo dei Kaiser) della città di Speyer(Germania) con la regia di Francesco Privitera e direzione di Daniel Lipton; sempre per il festival estivo KyrburgOpernfestspiele di Kyrburg/Nahe (Germania) firma le scene delle due opere Carmen di Bizet eRigoletto di G. Verdi con la regia di Francesco Privitera e direzione di Alexander Anissimov; contribuisce, con il capitolo “Appunti scenotecnici sul Teatro La Fenice”, alla pubblicazione del Prof. Arch. Valeriano Pastor dal titolo Il teatro La Fenice a Venezia: studi per la ricostruzione “dov’era ma non necessariamente com’era” a cura di Maura Manzelle.

In the 1999 he realize, like scene-painter, Un Ballo in Maschera with scenes of Oscar Kokoschka for the Palafenice of Venice; he receives a charge like stage-technics advisor for the restoration of the Rossini Theater of Vittorio Veneto and of the Eden Theater of Treviso patronized from the Cassamarca Foundation of Treviso; he sign the scenes of a new preparation of the Nabucco work represented in front of the historical Kaiserdom (Cathedral of the Kaiser) of the city of Speyer (Germany); for the summer festival KyrburgOpernfestspiele of Kirn/Nahe (Germany) design the stage of the opera: Carmen of Bizet and Rigoletto of Verdi G; he contributes, with the chapter “Tecnical Notes about the stage of Teatro La Fenice,” to the publication of the Prof. Arch. Valeriano Pastor from the title The Teatro La Fenice in Venice: studies for the reconstruction “where it was but not necessarily as it was” , edited by quadernIUAV (Institute University of Architecture in Venice).

2000

Espone nella filiale di Dolo della Cassa di Risparmio di Venezia una serie di grandi disegni su tela dal titolo”verso” ed è responsabile degli allestimenti scenici del festival operistico open-air Klassik  nella città di Monschau (Germania) per l’opera Rigoletto.

Sempre in Germania per il festival KyrburgOpernfestspiele di Kirn/Nahe mette in scenaUn ballo in maschera eCarmen.

In November 1999 he exposes in Dolo (Venice) at the exhibition hall of the Cassa di Risparmio of Venice a series of large drawings on canvas entitled”towards” (“verso”).

2001

Cura l’allestimento dello spettacolo storico “La dama castellana” con Carla Fracci per la regia di Francesco Privitera e Beppe Menegatti.

E’ docente presso la Scuola Interateneo di Specializzazione per Insegnanti del Veneto.

E’ responsabile degli allestimenti scenici del festival operistico open-air Klassik nella città di Monschau (Germania) per le opere Rigoletto eTrovatore.

In 2001 he has cared the setting up of a great historical display, La dama castellana with Carla Fracci, for Conegliano – Treviso – Italy.

2002

E’ responsabile degli allestimenti scenici del festival operistico open-air Klassik  nella città di Monschau (Germania) per le opere Rigoletto eCarmen e per il festival KyrburgOpernfestspiele di Kirn/Nahe mette in scenaNabucco e Trovatore.

In 2000, 2001, 2002, he has cared the planning and the staging of the works of the open-air festival Klassik in Monschau town such asRigoletto and Carmen and for the KyrburgOpernfestspiele of Kirn/Nahe festival, Un ballo in maschera and Carmen in 2000, Nabucco andTrovatore in 2002.

2003

Cura la scenografia dell’Evento intermedialeAzione simultanea per la regia e ideazione di Ezio Cuoghi e testi di Giorgio Celli con la partecipazione di Mauro Bigonzetti dell’Aterballetto al teatro Cavallerizza di Reggio Emilia.

He design the stage of the multimedia performance Azione simultanea by Ezio Cuoghi and Giorgio Celli in the Cavallerizza Theater of Reggio Emilia.

2004

Firma le scene di Aidaopen-air per la Star Entertainment, spettacolo itinerante nelle principali città della Germania.

He design the stage ofAida open-air for Star Entertainment GmbH in Germany.

2005/20010

Entra a far parte del gruppo Limeart (Live Interactive MEdia Art) che si occupa di ricerca e sperimentazione in campo performativo ed istallativo intermediale e con questo gruppo progetta istallazioni ed eventi a tutt’oggi (www.limeart.it). Dal 2006 è docente di Processi e metodi per lo spettacolo multimediale nel biennio di specializzazione della Scuola di Nuove Tecnologie per l’Arte all’Accademia di Brera a Milano, è consulente per la parte storico-tecnica della ristrutturazione del Teatro Apollo di Lecce e per il concorso dell’Auditorium di Padova. Fa parte del comitato scientifico della rivista The Scenographer.

realtà ed illusione, ovvero: occasioni mancate

Filed under: Teatro — admin @ 11:02

Piantate un palo adorno di fiori in mezzo ad una piazza, riunitevi intorno il popolo e avrete una festa. Ancor meglio: offrite gli spettatori come spettacolo, fateli attori essi stessi, fate che ciascuno si veda e si ami negli altri, affinché tutti siano più uniti.” J. J. Rousseau – Lettera sugli spettacoli.

Nell’immaginario e nella concezione comune, il modello ed il simbolo stesso di Teatro, la sua identità, si rifanno, nella quasi totalità dei casi, alla tipologia del cosiddetto teatro all’italiana, ancora oggi la più diffusa nel mondo.

Questo tipo di teatro, sviluppatosi in epoca barocca, ha resistito al tempo e alle mode fino ai giorni nostri, essendo legato indissolubilmente alla concezione borghese di teatro liturgico, da “gustare” seduti “comodamente al buio ed attorniati da persone dello stesso ceto, guardando un palcoscenico sopraelevato il cui diaframma che lo divide dalla sala, riccamente decorato è chiuso da un sipario di pesante velluto dietro il quale si prepara un sogno…”

La sua natura è indissolubilmente legata alla gran parte del repertorio ed alla tradizione europei; ha resistito anche alle poderose spallate delle avanguardie del ‘900; e se è vero che le concezioni registiche contemporanee sono figlie anche di queste avanguardie, è altrettanto vero che questo modello non è stato sostituito da nessun altro o forse sarebbe più esatto dire che non c’è più bisogno di un modello, ma lo spettatore comune non se ne avvede.

Queste contraddizioni, spesso fonte di aspra polemica, inevitabilmente scoppiano ogniqualvolta si restaura o ripristina un teatro, anche piccolo e di scarso interesse storico, sia esso ancora in qualche modo agibile o sia esso scomparso (come nel caso della Fenice di Venezia).

Da una parte, progettisti, consulenti ed “addetti ai lavori”, sarebbero desiderosi di cogliere un’occasione preziosa per rendere meno rigidamente ancorata alla sua tradizione storica una struttura che, anche dal punto di vista economico e funzionale, dovrebbe assumere nuove e più diversificate valenze; dall’altra, l’opinione pubblica, gli organismi istituzionali e spesso lo stesso committente opterebbe, arrivando anche a livelli di veri e propri atti ricattatori, per una fedele ricostruzione del manufatto, anche a costo di limitarne pesantemente l’uso: verrebbe così premiato l’aspetto di rappresentanza dell’edificio teatrale, a discapito della fruibilità della struttura e della sua essenza principalmente operativa.

La radicalizzazione delle due opposte visioni comporta delle pericolose conseguenze e spesso rende negativamente ibridi i risultati.

Il nostro paese è ricchissimo di teatri, costruiti in periodi storici molto diversi, ma tutti compresi, tranne pochissimi casi, nell’arco di poco più di due secoli (da poco prima del diciottesimo secolo ai primi del ventesimo). Lo sviluppo maggiore del teatro e della sua popolarità si è avuto soprattutto nell’ottocento ed in gran parte grazie al melodramma, un tipo di spettacolo nato e sviluppatosi principalmente in Italia e risulta logica, quindi, l’associazione di questa tipologia di spettacolo e dell’edificio teatrale più adatto alla sua esecuzione con il concetto comune di TEATRO stesso.

Anche in piccolissimi paesi e in centri sperduti della nostra penisola spesso troviamo un teatrino, forse modesto: alcuni sono ancora funzionanti, altri chiusi e fatiscenti, altri ancora trasformati in cinema negli anni cinquanta e sessanta. Ovvio e giusto, quindi che se ne costruiscano molto pochi di nuovi, ma si tenda a recuperare il patrimonio esistente ed il problema inizia proprio a questo punto: recupero storico di un edificio che però ha la stessa destinazione che in origine, ma una diversa funzione ed un diverso criterio di fruibilità dello spazio della sala e della scena.

Nel fenomeno teatrale coesistono due diverse entità, spesso contrapposte, spesso in accordo, ma sempre ed ugualmente necessarie, indispensabili per il compiersi dello spettacolo: il pubblico, e cioè la parte che assimila (ma si potrebbe anche dire partecipa, recepisce, gusta) e per la quale il compiersi dell’atto artistico spesso ha del miracoloso e la parte che produce questo atto e che ha un’organizzazione complessa ma precisa, caotica ma efficace, un meccanismo che ha numerose componenti che necessariamente (ne va della qualità dello spettacolo) devono essere sincronizzate e concorrere alla riuscita della messa in scena.

Se per un attimo ci dimenticassimo che si tratta di teatro (sopravvalutandone un po’ la valenza) e paragonassimo il suo recupero a quello di una qualsiasi struttura produttiva, ci accorgeremmo, anche da spettatori, dell’equivoco. Se dovessimo, per esempio, recuperare un vecchio edificio proto-industriale che supponiamo originariamente destinato alla produzione di stoffe, non per cambiarne la destinazione d’uso, ma per farne una industria tessile contemporanea, non ci si sognerebbe certo di pretendere che la stoffa prodotta sia la stessa, o venga tessuta con gli stessi ottocenteschi telai recuperati, o che gli uffici abbiano gli stessi mobili o le stesse dotazioni: sarebbe impensabile. Sono cambiate le stoffe, i loro filati, il modo di produrle, di pubblicizzarle, di trasportarle, di venderle. L’importante è che l’arte della tessitura resti un’arte, diversa nei tempi e nei modi, ma sempre arte.

Non per questo bisogna dimenticare o tanto meno distruggere il passato e la tradizione nel nome di un efficientismo tecnologico e spietato: raccoglierne le testimonianze è un atto di grande cultura e civiltà oltre che doveroso. Probabilmente esiste un modo equilibrato e attento per farlo. Un equilibrio che consenta di bilanciare questi rapporti.

Tutto questo viene dimenticato quando si tratta di un teatro: tradizione, normativa e burocrazia, affette da sempre da miopia cronica, tendono ad avere il sopravvento sugli equilibri già precari che regolano questi difficili momenti progettuali.

La tendenza più diffusa, poi, è indubbiamente quella di avallare in qualche modo qualsiasi apporto ed investimento tecnologico, anche il più invasivo ed innovativo per la parte “nascosta” e cioè quella del palcoscenico e dei servizi, ma di recuperare all’origine storica, nella maniera più fedele possibile, tutti gli spazi destinati al pubblico ed alla sua collocazione, soprattutto dal punto di vista decorativo.

Proprio la storia dell’architettura e degli spazi teatrali, ci insegna invece che in questo tipo di Teatro, e cioè quello all’italiana, l’effimera scenografia di palcoscenico, fragile, deperibile, mobile, mutevole, nella sua spesso esagerata spettacolarità e finzione, nella maggior parte dei casi continuava anche nella sala (come esempio valga il piccolo Teatro Scientifico, costruito a Mantova tra il 1767 ed il 1769 da Antonio Galli Bibiena, esponente di spicco di una intera dinastia di scenografi, architetti di scena); ma in questo caso siamo di fronte all’eterno dilemma – essenza del teatro: quello che vediamo in queste storiche sale è “vero” o “finto” e cos’è in teatro il “vero” ed il “falso”?

Ce lo dobbiamo chiedere anche alla luce di numerosi indizi, il primo dei quali è determinato dal fatto che gli interni e le decorazioni erano quasi sempre affidati a scenografi o al massimo archtetti-scenografi i quali si avvalevano degli stessi materiali con cui si costruivano e si decoravano le scenografie in palcoscenico, alle quali non si è mai attribuito un grandissimo “valore” storico, tanto meno in epoca contemporanea dal momento che vengono continuamente distrutte dopo aver servito al loro momentaneo scopo. Queste decorazioni spesso venivano cambiate o rifatte nel tempo (proprio come le scenografie) data l’usura e l’annerimento a causa dal fumo dell’illuminazione a fiamma libera o più semplicemente per motivi di “moda”. Materiali semplici e poco costosi quali la paglia, il gesso, il legno, la cartapesta, le finte dorature, la tela e semplice pittura a tempera, spesso solo a chiaroscuro, da sempre alla base della pittura scenografica.

Provocatoriamente, un vero e storico recupero di questa tradizione potrebbe consistere nell’affidare ad uno scenografo contemporaneo la progettazione degli interni, il quale, da abile professionista, potrebbe decorare gli spazi con rilievi in resina e finti legni o finti marmi pregiati fatti di compensato dipinto e ricostruire così qualsiasi epoca storica molto fedelmente (compresa quella attuale). Non solo, ma lo stesso allestimento della sala dovrebbe essere per così dire “mutevole”. Alla mitica “macchina scenotecnica di palcoscenico” potrebbe corrispondere una flessibilità di allestimento della sala.

Perché non pensare (basterebbe osare un po’ di più) che, alla riproposta, in palcoscenico, di un certo tipo di drammaturgia, corrisponda una sala (e quindi anche un pubblico e la sua disposizione) che si adegui a “quel” clima drammaturgico? Gli scenografi sarebbero così liberi di scegliere se far proseguire la loro scenografia intorno al pubblico, oppure separarla completamente in due entità ben contraddistinte, se non addirittura in antitesi, oppure ricostruire il più possibile fedelmente le condizioni e le sensazioni originarie del pubblico in un determinato periodo storico (già nei primi anni del ‘900 Edward Gordon Craig asseriva: “ …ogni tipo di dramma reclama un tipo speciale di luogo scenico…”). Ma ciò creerebbe anche condizioni assolutamente nuove ed impreviste che favorirebbero così il fiorire di nuove possibilità espressive in campo teatrale. Senza contare l’enorme vantaggio che (pensando al complesso caso del teatro La Fenice e delle polemiche sulla sua ricostruzione) tutta la parte dell’opinione pubblica legata, per motivi più svariati, ad una ricostruzione fedele degli interni storici di un teatro, potrebbe ritrovare riproposto quell’ambiente tanto tenacemente desiderato (facilmente ricostruibile per uno scenografo); ma altre categorie di pubblico ne potrebbero trovare uno diverso a seconda delle esigenze, della natura e della tipologia di uno spettacolo.

Le restrizioni dovute alle aggiornate normative sulla sicurezza, per la parte che riguarda la zona destinata al pubblico, potrebbero essere compensate da una tecnologia che ormai si è fatta molto raffinata e disponibile a soluzioni sempre più complesse.

La tendenza attuale più diffusa, nel restauro o recupero di edifici teatrali, è quella di conservare il più possibile il “guscio” originario dell’edificio teatrale, svuotandolo completamente e riprogettando tutto l’interno ex novo, introducendo così quel “gusto contemporaneo” spesso poco misurato se non addirittura (in certi casi) fuori luogo. Ecco così celebrarsi il trionfo del teatro di tipo borghese, secondo una definizione non tanto sociologica, quanto brechtiana del termine, che arriva spesso a caratterizzare le scelte di cartellone ed i contenuti stessi delle stagioni teatrali. Ma il teatro borghese non è altro che “un” tipo di teatro. La storia del luogo scenico e la sua evoluzione ci hanno offerto innumerevoli altre tipologie teatrali e drammaturgiche altrettanto interessanti (parlando solamente del passato), senza contare le innumerevoli possibilità contemporanee e senza guardare a quelle future…

E’ altrettanto vero che spesso questi teatri restaurati, presentano palcoscenici molto piccoli, tipici di un modo semplice di fare spettacolo e di periodi in cui la scena era appena suggerita. La voglia o l’ambizione di dotare questi palcoscenici di servizi e funzioni che comportano una tecnologia pretenziosa ed estremamente invasiva, per contro, finiscono irrimediabilmente per limitare ancor di più l’uso prettamente pratico, operativo, tipicamente teatrale di questo spazio.

Le condizioni storiche, sociali e culturali sono ormai profondamente cambiate e quindi se da una parte le mutate esigenze contemporanee dovrebbero prevedere sale sempre più capienti, in cui la visibilità sia ottimale per tutti, senza divisioni o barriere, facilmente accessibili, comode, sobrie e con una buona diffusione sonora, dall’altra, in palcoscenico, non si dovrebbe esagerare con la tecnologia, spesso fonte di equivoci e sopravvalutazioni.

Ormai è giunto il momento di ribaltare il comune concetto per cui il palcoscenico è il regno dell’illusione e la sala quello della realtà: il regno dell’illusione (la sala, dove vi regna) ritroverebbe, con i presupposti descritti poc’anzi, la sua originaria essenza e quello della realtà (il palcoscenico con il pragmatismo della sua organizzazione e dei suoi meccanismi) la sua funzione storica e creativa.

Ecco quindi completamente rovesciate le comuni aspettative: minore “celebrazione” degli aspetti esteriori o estetici della sala ed una maggiore attenzione al dosaggio della tecnologia in palcoscenico.

12 Giugno 2010

Un maestro: pensieri di Luciano Damiani sul teatro e sulla scenografia

Filed under: Scenografia — admin @ 07:52

Scenografia: che cosa è il vero, la realtà, il reale e che cosa è il falso, la simulazione, il finto, l’evocato?

In teatro il falso trasmette il vero?!

Damiani: “ A volte è necessario si possa cogliere che tutto è finto ma, in altri casi, è altrettanto necessario che, nella somma degli elementi di uno spettacolo, si dia la sensazione di una realtà. Se voglio mettere in scena una putrella di ferro, cercherò di rendere quella putrella il più possibile credibile da un punto di vista teatrale; ciò significa che quell’oggetto non è la riproduzione dell’elemento reale, ma ha in sé quella teatralità, cioè quella “capacità” di comunicazione, quei dettagli che devono far giungere fino allo spettatore – collocato ad una certa distanza – quello che io desidero e che l’elemento reale non possiede, perché viene utilizzato per un altro fine.

…non avendo studiato scenografia All’accademia ho fatto una ricerca personale, che mi ha portato a scoprire determinate cose, soprattutto che progettare con i “raggi visuali” era sì un’enorme fatica, un enorme impegno, ma significava anche avere la certezza di ciò che progettavo in sede di bozzetto. E’ un esercizio che mi ha fatto acquisire un certo tipo di sicurezza: progettare invece di realizzare. In teatro si può realizzare tutto, ma il rapporto tra figura umana e oggetto esige una cura speciale, perché dev’essere parte di un’armonia precisa. Per fare ciò, è necessario conoscere il volume, il “peso” delle cose. Tutto il mio lavoro viene progettato a tavolino, e tutto, oggetto dopo oggetto, viene studiato nel suo rapporto con l’attore. Ciò significa calcolare: e bisogna dire che questo calcolare con i raggi visuali è cosa abbastanza rara; ma in tal modo, si mette un regista nelle condizioni di guardare al bozzetto come alla “fotografia” della realizzazione. Il rapporto uomo – oggetto è fondamentale, e serve ad evitare quel sovradimensionamento delle scene che, spesso, crea un elemento di disturbo. Perché non dovrebbe sfuggire che, all’interno di un testo musicale o poetico, ci sono delle proporzioni che non si possono ignorare, c’è un meccanismo scritto al quale non si può sfuggire: si può variare, reinventare, ma non stravolgere. L’opera è scritta in un certo modo, e in un certo modo deve essere rappresentata.

Credo che il desiderio di alcuni scenografi sia quello di esibire la propria capacità, la propria fantasia creativa, e cioè di non rimanere in una posizione subalterna – come io ritengo invece sia giusto – rispetto al testo ed alla musica. Costruire scene vuol dire mettersi al servizio di un testo, poetico o musicale. Se si vuole diventare protagonisti, si realizzano costruzioni enormi soltanto per il gusto del “meraviglioso”, di ciò che può stupire il pubblico: e un certo pubblico cade facilmente nel “tranello”, si lascia affascinare da questo meraviglioso”.

(Teatro 3? Rassegna trimestrale teatrale diretta da Bartolucci – Capriolo – Fadini. )

(Fratelli Cafieri Editori 1968)

Parigi 27 Aprile 1968. Peter Brook, direttore della Royal Shakespeare Company dichiara: “C’è una cosa che mi ha sempre stupito: nulla al mondo evolve con tanta lentezza quanto il teatro”. ”Il problema meno risolto a teatro è quello del luogo, vale a dire il contatto tra attore e pubblico. Ma mancano a tutt’oggi gli edifici teatrali che a questo problema offrano una soluzione concreta e immediatamente attuabile e concedano al regista la massima libertà di mezzi per la creazione dello spazio necessario ad ogni suo spettacolo, che può anche essere il quadro scenico tradizionale ma deve poter essere tante altre cose”.

Teatro tradizionale: due spazi separati; una scatola (il palcoscenico) chiusa tre lati su quattro, bloccata anche sull’unico lato aperto e facendo sì, quindi, che la quarta parete non sia sempre e soltanto illusoria; l’altro (per il pubblico) un luogo di ricevimento, d’incontro, di meditazione, di ascolto, di visione e, di svago ?

Unico intermediario fra i due luoghi: i sensi quindi. Lo stesso rapporto per Eschilo, Feydeau, Shakespeare, Brecht, Verdi, l’Opera di Pechino, la Comédie – Française, il Berliner Ensemble, Rossini, il Living Theatre.

Damiani progetta gli impianti tecnici e di scena del Teatro Nuovo di Trieste progettato dagli architetti Umberto Nordio e Aldo Cervi, un edificio destinato ad accogliere, col teatro, il Consiglio Regionale, congressi ed altro.

Damiani progetta gli impianti scenotecnici in un ambiente già impostato architettonicamente con criteri tradizionali: pianta a campana, palcoscenico con boccascena, e sala con galleria. Questi elementi – tranne la galleria che ritiene incompatibile con qualsiasi discorso di teatro contemporaneo – gli hanno fornito una sorta di stimolo, invitandolo a giocargli contro.

Ne è uscito un teatro anche tradizionale, ma che contiene una serie di accorgimenti (presenza dei tiri in sala, platea e palcoscenico alzabili e abbassabili a diversi livelli, soppressione del muro che impedisce il collegamento diretto tra attori e spettatori) che possono offrire al regista l’occasione di compiere tutta una serie di esperienze stimolanti. Damiani offre soprattutto uno spazio plasmabile dalla fantasia del regista secondo le esigenze dei singoli spettacoli compreso quello tradizionale.

A questo risultato egli arriva attraverso una serie di esperienze teatrali che hanno maturato in lui una ribellione contro il palcoscenico chiuso, inscatolato, un desiderio di varcarne i limiti, di farlo esplodere e di mettere in discussione tutto un modo “pigro” di fare teatro. Nelle sue scenografie tenta costantemente di “evocare degli spazi, dei fatti poetici, dei suggerimenti contenuti in cose che non si percepiscono nella loro totalità”. Non un ambiente da decorare ma uno spazio da organizzare.

Lasciando in vita anche la struttura tradizionale, ma proponendo questa nuova organizzazione degli spazi, vengono offerte all’uomo di teatro possibilità di comparazione, di esperimento, di controllo e di esprimere in piena libertà le proprie idee. Offre, in altre parole, non soluzioni prestabilite, ma uno strumento di lavoro.

E’ evidente che il passaggio da un riquadro da ammobiliare a uno spazio da organizzare pone grossi problemi, in parte risolvibili solo sperimentalmente attraverso una serie di tentativi. C’è un problema fonetico che può essere affrontato anche senza ricorrere a mezzi meccanici di amplificazione; c’è un problema di illuminazione, imposto dalla necessità di avvolgere in un tutto unico sia il pubblico sia il palcoscenico; c’è la possibilità di riportare il piano di palcoscenico al livello della platea tornando così alla forma del “teatro di sala”, e di disporre il pubblico secondo le norme consuete della visibilità ma anche di proporre soluzioni diverse, invitandolo per esempio non a guardare avanti ma a volgersi in altre direzioni potendo disporre le poltrone in gruppi asimmetrici.

«Chi lavora in un grande Teatro d’opera oggi, agisce in uno spazio e con una “macchina” concepita più di duecentocinquant’anni fa. Il regista e lo scenografo, con le loro messinscene, creano varianti al vecchio tema e tentano di forzare la macchina teatrale che, con il passare del tempo, è diventati sempre più chiusa e, quanto più si è arricchita di mezzi, tanto minor spazio è rimasto alla fantasia e alla libertà creativa.

Per la messa in scena oagi occorre che lo strumento teatro sia flessibile e la tecnica moderna deve portare innovazioni che contri­buiscano nel modo più ampio possibile alla libertà delle scelte.

Il palcoscenico rialzato, il prospetto scenico, il sipario, la fossa del­l’orchestra e la sala sono gli elementi che costituiscono lo schema del Teatro d’opera. In un Teatro ove la componente dominante è la musica, la fossa d’orchestra (con tutti i suoi annessi) è elemento es­senziale, e con essa tutto quando riguarda l’acustica. E’ quindi alla fossa d’orchestra che va la prima attenzione, sia nelle varianti picco­la o grande (orchestra verdiana, mozartiana ecc.), sia in rapporto al­l’avanscena, nel caso si voglia portare lo spettacolo verso la platea, per un contatto ravvicinato cantanti – orchestra (occorre allora pro­lungare l’avanscena coprendo a mensola parte dell’orchestra). Tale soluzione in genere crea problemi in orchestra e in palcoscenico dif­ficoltà per il sipario di ferro antincendio; spesso le difficoltà aumen­tano per la mancanza di tiri in avanscena.

Seconda per importanza è la visibilità dalla sala e altrettanto im­portante è la visibilità (non cosi facile da ottenere come parrebbe) dei cantanti e delle masse corali per il direttore d’orchestra, e vice­versa. Il regista e lo scenografo hanno un punto ideale, in platea, da dove osservano e controllano lo spettacolo. Questo punto si trova generalmente in mezzo alla platea, a una distanza dal quadro scenico pari alla larghezza del boccascena. Raramente regista e scenografo si preoccupano di cosa può vedere lo spettatore posto in alto sul fondo dietro di loro, o lungo le pareti laterali. La ragione è che non esistono mezzi per poter intervenire a migliorare la visibilità, se non quello di ridurre tutto lo spettacolo nei pochi metri dell’avanscena. Bisogna tenere conto del fatto che il quadro scenico consente la vi­sibilità solo frontale, e a un’altezza superiore di poco all’altezza mas­sima del boccascena. Il Teatro alla tedesca, dove in sala è avvenuta l’abolizione dei palchi, ha in genere una buona visibilità; nel Teatro tradizionale all’italiana, dotato di palchi, la visibilità per un buon terzo è ridottissima, cioè nei posti laterali e nei loggioni.

La visibilità dal palcoscenico al direttore d’orchestra interessa tutti gli artisti, il coro in particolare. Il piano di palcoscenico inclinato del Teatro all’italiana, contrariamente a quello tedesco che è orizzonta­le, offre un po’ di visibilità in più; i mezzi tecnici a disposizione e i diversi declivi realizzabili con i ponti mobili del palcoscenico aiuta­no a risolvere, almeno in parte, questo problema, presente in tutti gli spettacoli con il coro.

Il piano di palcoscenico, con i mezzi tecnici di cui è dotato, è un altro componente essenziale per la realizzazione della messa in sce­na. Il profilo longitudinale del palcoscenico all’italiana ha una pen­denza dal 3 al 5 %. Contribuisce a una migliore visibilità e caratteriz­za il palcoscenico “prospettico” del nostro Teatro. Quello del Teatro tedesco è orizzontale per ragioni di praticità (manovrabilità dei carri e delle costruzioni scenografiche) e, unito al girevole e alle piatta­forme mobili, è uno degli elementi che caratterizzano il palcoscenico considerato “moderno”.

Fra le innovazioni moderne, è da ritenere ancora valido il palco­scenico con i ponti mobili, sezionabili, con il piano a inclinazioni re­golabili, pannelli periscopici, portarive, possibilità di botole centrali e sottopalco praticabile. Molto meno utili, poiché con il loro ingom­bro creano problemi, sono gli impianti fissi con le piattaforme mo­bili e il girevole, tra l’altro oggi facilmente realizzabili secondo le esigenze dei singoli spettacoli.

Spesso costituisce un problema per la messinscena, in particolare nei Teatri italiani, la mancanza di spazio ai due lati e dietro il palco­scenico. Occorrono spazi liberi e simmetrici che permettano i movi­menti di scena. Il Teatro alla Scala è in questo senso un esempio classico di difficoltà e per risolvere – provvisoriamente e parzialmen­te – il problema ho dovuto trasformare in diverse occasioni il palco­scenico e la sala della Piccola Scala, nonché parte del portico di via Filodrammatici, opportunamente chiuso, in un deposito di scene.

Altro elemento della macchina teatrale di fondamentale importan­za è la soffitta e forse oggi, con la totale meccanizzazione dei tiri con stangoni fissi, è il più condizionante. I tiri meccanizzati hanno certa­mente contribuito ad alleggerire e rendere più agevoli i cambiamenti di scena, ma hanno ridotto le risorse della soffitta. I tiri a stangone fisso riducono l’altezza della soffitta e limitano l’utilizzazione solo parallelamente al prospetto scenico. Inoltre gli impianti elettrici in­gombranti che hanno invaso la soffìtta limitano e a volte negano lo spazio e l’uso dei tiri lungo l’asse del Teatro o secondo linee oblique; l’utilizzazione è possibile solo lateralmente, oltre le attrezzature elet­triche. La soffitta crea problemi alla messa in scena, se la sua altezza non misura almeno tre volte quella del quadro scenico; deve avere tiri a mano liberi e contrappesati, oltre ai tiri meccanici con regola­zioni per la velocità; inoltre occorre avere la possibilità di regolare la lunghezza degli stangoni.

Gli impianti per l’illuminazione, le attrezzature e i dispositivi elet­trici creano difficoltà se ingombranti e inamovibili. Oggi in molti Teatri si stanno sostituendo le vecchie apparecchiature con altre nuove, più potenti e poco ingombranti, che possono ridurre sensibil­mente le difficoltà.

Altri problemi riguardano la messa in scena, e sono l’efficienza e la qualità dei laboratori di realizzazione delle scene e dei costumi, l’organizzazione della sala prove e le prove in palcoscenico con tutti i servizi annessi. Ma penso che i problemi strettamente legati all’ar­chitettura e alla macchina teatrale abbiano un interesse preminente.

Costruire un Teatro d’opera oggi significa utilizzare ancora il vec­chio schema del Teatro tradizionale, sia perché è il più diffuso in Europa., sia perché ad esso è connaturata gran parte del repertorio classico e contemporaneo. Gli spettacoli e le messinscene che esigono il riquadro del prospetto scenico giustificano ampiamente l’utilizza­zione di questo schema. Tuttavia non si possono ignorare le espe­rienze maturate in senso al Teatro d’opera negli ultimi anni. Espe­rienze che hanno certo confermato la validità del vecchio schema: ma si devono considerare anche i problemi e le difficoltà che si sono venuti a creare col tramonto di certe mode e con l’affermarsi dell’in­novazione.

Le nuove richieste registiche e scenografiche tengono conto delle esperienze del Teatro tradizionale e di quanto si è ritenuto valido nelle moderne innovazioni tecniche del recente passato, ma consi­derano lo spazio scenico tradizionale non solo come un luogo da arredare, ma come un volume da organizzare. Perciò occorre che lo strumento Teatro diventi flessibile, che la meccanizzazione tenga conto delle esigenze attuali e lasci al regista e allo scenografo maggior libertà nello svolgimento e nella realizzazione delle loro intenzioni artistiche. [… ]»

I pensieri espressi in quella conferenza provengono da una riflessione maturata dagli anni Sessanta, verso il termine dei quali si colloca il pro­getto di Luciano Damiani e Umberto Nordio per il Teatro Nuovo di Trieste.

Presentando quel loro progetto, gli autori analizzano le due forme del teatro «all’italiana» e del teatro «alla tedesca» (ispirato alla concezione di sito teatrale elaborata da Wagner), le fattispecie contemporanee anche dal punto di vista dell’attrezzatura dello spazio scenico. Esprimono la loro concezione di un «teatro flessibile».

Analisi storico – critica del teatro all’italiana secondo Damiani.

Dal Tardo ‘600 la forma più diffusa in Europa è il “teatro all’italiana”, dove il diaframma boccascena – sipario divide il pubblico dallo spettacolo e la scena non si fonde con lo spettatore come nel teatro classico o in quello medioevale, elisabettiano, o giapponese: lo spettatore assiste, non partecipa.

Di esso ci interessano soprattutto le crisi evolutive: il rapporto palcoscenico – platea, e con esso il rapporto attore – spettatore; nonché i vari aspetti modificatori sociali, artistici, estetici e politici.

Lo schema architettonico di questo teatro tradizionale comprende: palcoscenico rialzato, prospetto scenico, boccascena – sipario e sala con palchi per “privilegiati”.

Le prime critiche mosse al teatro tradizionale s’accentrano proprio sul criterio di distribuzione dei posti, l’architettura della sala, l’arredamento e la luce, come elementi che condizionano il pubblico ad un clima mondano, lo distraggono e ne riducono la partecipazione “attiva, intellettuale” allo spettacolo.

Nel 1876 scoppia la prima crisi: le idee unitarie di Richard Wagner esigono che il pubblico partecipi allo spettacolo e che il luogo scenico sia a diretto contatto con lo spettatore. Gli architetti Semper e Brükwald realizzano il teatro di Bayreuth.

Viene modificata la struttura architettonica della sala secondo criteri sociali, ideologici ed estetici. Si tolgono i palchi, l’orchestra viene sottratta alla vista dello spettatore il palcoscenico viene portato a mensola sopra il “golfo mistico”, a contatto diretto con il pubblico; le quinte (che appartenevano al palcoscenico) sono spostate in sala come elementi architettonici delle pareti laterali e del proscenio, nell’intento di creare un’unitarietà ideale tra sala e luogo scenico.

Tutto ciò risulta con chiarezza se nella pianta del teatro, seguendo la linea prospettica delle quinte di sala, tracciamo la loro continua­zione sul palcoscenico: ne risulterà che la platea si inserisce nello schema della scena prospettica producendo (almeno graficamente) una fusione tra palcoscenico e sala. Se poi tracciamo nella sezione longitudinale la continuazione delle quinte sul palcoscenico, ci ac­corgeremo che la natura stessa del palcoscenico rialzato determina una frattura e non permette di completare l’operazione della fusione sala – palcoscenico, ma lascia ancora insoluto (almeno in parte) il pro­blema.

L’operazione è comunque interessante: la sala ha subito una notevole ­trasformazione architettonica, che non tarderà a dare frutti. Inoltre il fatto di lasciare al buio la sala durante lo spettacolo crea un’atmo­sfera mistica ed austera nella quale il pubblico si immedesima e partecipa. A questo risultato danno un notevole contributo la scoperta e la successiva utilizzazione della luce elettrica e i nuovi cri­teri costruttivi architettonici.

La crisi aperta da Wagner nel teatro tradizionale dà origine ad un nuovo tipo di teatro, detto « alla tedesca ».

Sulla base delle nuove esperienze vengono costruiti numerosi Tea­tri, tra i più importanti il Prinsregententheater di Monaco di Bavie­ra, il Teatro Municipale di Elberfe’d, il Covent Garden di Londra, l’Opera House di Chicago, ecc.

Una ventata di rinnovamento tocca anche i teatri italiani: vengono portate modifiche alle sale. viene scavata la fossa dell’orchestra, si fa buio in sala durante lo spettacolo, mentre si modernizzano gli impianti tecnici di palcoscenico con l’uso dell’elettricità sia come forza motrice sia come energia illuminante.

Gli elementi che compongono lo schema architettoníco del teatro « alla tedesca » sono: palcoscenico rialzato, prospetto scenico – boccascena – sipario e sala democratizzata con l’abolizione dei palchi.

Le idee di Wagner vengono sviluppate nell’epoca contemporanea. Walter Gropius, Salomonson, Norman Bel Geddes, ecc. cercano di eliminare il diaframma tra sala e palcoscenico, di rompere l’uni­tarietà della scena tradizionale e di passare alla pluralità dei tipi di rappresentazione.

Dal 1925 al 1938 vengono fatti numerosi progetti in questo senso; ma purtroppo poco è stato realizzato e i risultati pratici non sono stati tali da far ritenere collaudato un nuovo schema atto a sostituire il vecchio.

Pertanto i teatri costruiti dopo la seconda guerra mondiale hanno conservato gli schemi tradizionali, tranne poche eccezioni, teatri «in pista » e certi teatri sperimentali dove sono state create strut­ture movibili di sala e palcoscenico ispirate al « Total Theater » di Gropius (pluralità dei tipi di rappresentazione).

In generale le strutture dei teatri moderni tendono, con soluzioni di compromesso, alla coesistenza tra spettacoli diversi nello stesso luogo scenico, ignorando il problema del diaframma prospetto scenico – palcoscenico rialzato.

Proprio per questa aspirazione alla coesistenza, si sviluppano le strutture tecniche e, per consentire le varie realizzazioni artistiche, diventano sempre più complessi e più meccanizzati i mezzi tecnici di palcoscenico. Si sviluppano anche gli impianti elettrici e i dispositivi fissi, o in parte fissi o mobili, invadono il palcoscenico, mentre la soffitta è resa in parte inutilizzabile. (Per ragioni illuminotecniche espressionistiche in gran parte dei teatri tedeschi le pareti del palcoscenico vengono tinteggiate di nero.

Il teatro della nostra epoca è caratterizzato, soprattutto fuori d’Italia, dalla presenza di enormi mezzi tecnici che da una parte hanno contribuito ad alleggerire e rendere più agevoli i cambiamenti di scena, dall’altra hanno reso rigido lo schema tecnico del palcoscenico. Esempio: le soffitte dei teatri supermeccanizzati (con attrezzature elettriche tipo bilancione di panorama, bilance, passerelle volanti, ecc., poste generalmente ad un metro e mezzo o due metri l’una dall’altra) riducono notevolmente lo spazio a disposizione dei tiri e anche l’altezza della soffitta stessa, utilizzabile nella sua totalità solo parallelamente al prospetto scenico, mentre è estremamente limitata lungo l’asse del teatro o secondo linee oblique…

E’ possibile utilizzarle solo lateralmente, oltre le attrezzature elettriche!

I tiri meccanizzati con stangoni fissi riducono ulteriormente le già scarse risorse della soffitta e condizionano sempre di più la libera realizzazione degli spettacoli.

Nei teatri italiani, meno macchinosi, si riconosce (in particolare negli impianti tecnici di soffitta) una maggiore flessibilità, dovuta anche al minor numero (alla scarsità) degli impianti illuminotecnici (tranne in alcuni grandi teatri) e al loro minore ingombro. Le pareti del palcoscenico non subiscono il trattamento dei teatri tedeschi (tinteggiature di nero) ma ci si limita a chiudere o schermare le poche finestre e a usare la luce elettrica.

I due tipi di teatro tradizionale, all’italiana e alla tedesca, con lo schema base palcoscenico rialzato – prospetto scenico si possono definire “teatri a struttura unitaria” o meglio “teatri a struttura chiusa”, siano essi per la lirica, per la prosa o per spettacoli d’altro genere.

I teatri di prosa, il cui schema deriva da quello dei teatri per spet­tacoli lirici, hanno dimensioni inferiori, sia per la presenza di complessi (attori, dirigenti, tecnici) meno numerosi, sia perché i palcoscenici dispongono di mezzi tecnici più limitati. La sala di un teatro di prosa deve essere contenuta entro limiti difficilmente superabili, determinati dalla fisicità dell’attore: la sua voce e le sue espressioni devono essere chiaramente percepibili in ogni punto della sala.

La ragione maggiore della frattura del prospetto scenico nelle strutture architettoniche del teatro tradizionale è nel fatto che il palcoscenico è separato dalla sala da un muro che prende tutta l’ampiezza nella parte bassa del boccascena e la cui altezza è limitata

dal piano dello stesso palcoscenico.

Questo muro si trova in tutti i teatri di tipo tradizionale, e nell’epoca moderna, dopo una lunga storia di teatri andati a fuoco, è conside­rato, insieme con il sipario di ferro, uno degli elementi indispensabili alla sicurezza del teatro. (La presenza e la funzione di questo muro, si nota soprattutto nei teatri di recente costruzione, specialmente in quelli dove il proscenio mobile si abbassa per lasciare posto alla fossa dell’orchestra e contemporaneamente i piani mobili del palcoscenico scendono in sottopalco e lasciano chiaramente vedere questo e elemento, che qualche volta, in rapporto alla mobilità che lo circonda, appare in tutta la sua assurdità.)

Questo muro è alla base del diaframma che separa la sala dal luogo scenico ed è parte del prospetto; su di esso appoggiano il sipario di sicurezza e il piano di palcoscenico.

L’altezza del palcoscenico condiziona l’altezza del sud­detto « muro », ma anche i profili longitudinali del pavimento della sala e dello stesso palcoscenico, legati tra loro dalla regola di visibilità.

Il profilo longitudinale del palcoscenico tradizionale « all’italiana » ha una pendenza dal tre al cinque per cento ed è uno degli elementi che contribuiscono a ottenere una buona visibilità. I piani inclinati, o declivi, caratterizzano oggi il palcoscenico prospettico del teatro « all’italiana » mentre il profilo longitudinale del palcoscenico tradizionale « alla tedesca » è in piano ( per ragioni di praticità, manovrabilità dei carri delle costruzioni scenografiche ecc.) ed è uno degli elementi che caratterizzano il palcoscenico moderno.

Il profilo longitudinale del palcoscenico, prospettico o moderno, determina insieme con l’altezza del proscenio, il profilo longitudinale della platea e viceversa. Più il piano di palcoscenico è basso rispetto al pavimento della platea, tanto più aumenterà l’inclinazione di quest’ultimo.

In questi ultimi anni, il teatro italiano ha teso (alla ricerca di una diversa partecipazione del pubblico allo spettacolo) a eliminare la frattura fra sala e scena, ecc. La scenografia cerca di rompere la difesa del prospetto scenico, di aggredire l’architettura e di por­tare l’azione in seno al pubblico per ottenere una partecipazione in­tellettuale attiva; per esempio, il boccascena diventa parte integrante della scenografia, oppure la scenografia tende a scavalcarlo, a passare sul proscenio e a scendere sul piano di platea, o a includere in parte o totalmente la sala… Rimane sempre esclusa da questi tentativi di “rottura” la scena sopraelevata; anche quando si tenta di ridurre l’ostacolo del palcoscenico rialzato con ele­menti scenici praticabili, la struttura architettonica non permette nessuna modifica sostanziale. La scena sopraelevata rimane uno dei problemi del teatro contemporaneo.

Si sente la necessità, non tanto di riprendere la polemica novecen­tista sul rapporto tra pubblico e azione nel concetto del « totale », ma di una « operazione » sullo schema del teatro tradizionale, che permetta una verifica del rapporto platea – palcoscenico e attore – spettatore, con la possibilità di una libera scelta.

Costruire un teatro oggi significa utilizzare ancora il vecchio schema, sia perché è il più diffuso in Italia ed in Europa, sia perché ad esso è connaturata grande parte del patrimonio classico e contem­poraneo italiano ed europeo. Esso è inoltre giustificato dalla na­tura degli spettacoli e delle messinscene che esigono il riquadro del prospetto scenico. Tuttavia, se non si possono ignorare le esperienze teatrali avvenute (in seno al teatro tradizionale) negli ultimi anni, esperienze che hanno qualche volta confermato la validità del vecchio schema (come nel caso della proposta brech­tiana – sala, del “Berliner Ensemble” a schema tradizionale e spettacolo epico – esempio di unificazione dialettica), ma si devono considerare anche le proposte di rottura, di insofferenza per la scena sopraelevata, per il boccascena ed il sipario.

Con la Royal Shakespeare Company – ha spiegato Brook – abbiamo fatto delle prove di gesti, di voci, un po’ come il Living Theatre. Ne ho dedotto che il problema meno risolto a teatro è quello del luogo, vale a dire il contatto tra attori e pubblico.

TEATRO DI TRIESTE

CRITERI ARTISTICI E TECNICI

Per la progettazione degli impianti tecnici di palcoscenico e sala si è consapevolmente rinunciato alla formula applicata ‘negli ultimi anni nei nuovi teatri: rapporto medio tra capienza, visibilità e ascolto per tutti i tipi di spettacolo.

In considerazione delle diverse e “attuali” esigenze del teatro di prosa sono previsti, partendo da criteri artistici e tecnici, alcuni elementi modificatori della sala e del palcoscenico.

CRITERI ARTISTICI

I criteri artistici tendono a valorizzare il meglio del teatro classico italiano e del teatro espressionista europeo e tengono conto delle crisi evolutive del teatro contemporaneo, delle proposte e delle verifiche e avvenute in Italia ed in Europa negli ultimi venti anni.

Propongono:

Di utilizzare la sala nelle sue dimensioni totali, con impianti predisposti per l’amplificazione audiovisiva , e nel contempo ridurre la capienza della sala entro i limiti dettati dalla misura fisica dell’attore (chiaro ascolto e visibilità perfetta in ogni punto della platea).

Di considerare la platea il solo elemento nello schema del teatro tradizionale, significativo nel rapporto sala – palcoscenico in tutti i suoi aspetti, artistici, estetici tecnici e sociali.

Di abolire la scena sopraelevata (in quanto elemento inamovibile) nonché gli elementi tradizionali del boccascena, il sipario come parte integrante dell’arredamento della sala e con esso panni d’Arlecchino, mantovane, cornici, ecc.

Di predisporre strumenti che permettano una libera scelta tra i diversi tipi di sipario, in sede di realizzazione drammatica; come pure la libera scelta del profilo longitudinale del piano di palcoscenico nelle versioni « prospettica italiana » e « palcoscenico moderno », la disponibilità di altezze diverse tra il piano di palcoscenico ed il piano di platea e l’unificazione dei due piani in un unico elemento.

Di risolvere di conseguenza il problema della visibilità (entro i nuovi rapporti di altezza tra platea e palcoscenico) considerato non solo nel suo aspetto tecnico, ma anche in quello artistico ed estetico.

Di utilizzare elementi tecnici del palcoscenico in sala. Di «prolungarne» la «estensione» o «estenderne» in sala una parte: quelli che per la loro funzione e la loro storia nel teatro, nonché per le loro caratteristiche estetiche, contribuiscono al tentativo di eliminare la frattura del prospetto scenico e di portare lo spettacolo in seno al pubblico.

Di sostituire le luci in sala – lampadari, appliques, luci fluorescenti al neon, a vista ecc. – con impianti che evochino le luci tradizionali del palcoscenico: luci della «bilancia», della «ribalta», lampade colorate e no (regolabili nell’intensità luminosa e nella posizione).

Di fare del palcoscenico un luogo che, per 1’equilibrio delle sue dimensioni in contrapposizione alle misure dell’uomo, le pareti chiare, la distribuzione e composizione degli strumenti, i colori vivaci degli impianti tecnici, le strutture di acciaio, i legni, oltre che essere uno «strumento moderno», possa, anche privo di elementi scenografici, lasciare, come sola protagonista, l’azione drammatica.

Di sostituire, nella misura più ampia consentita, le strutture unitarie degli impianti, illuminotecnici, sonori, televisivi ecc., con impianti – strumenti di spettacolo a struttura flessibile e rinnovabili nelle varie fasi dei loro reciproci rapporti.

Unico diaframma tra sala e palcoscenico, il sipario di sicurezza, il quale non deve avere 1’aspetto terribile e contrastante che assume in un teatro tradizionale, ma deve essere parte integrante di un unico strumento armonico, con una veste che dichiari la sua funzione (non dipinto o decorato), per esempio: metallo lucido come uno specchio (in cui la sala si potrebbe riflettere). Propongono quindi per la sala un ambiente «piacevole» e «raccolto» (per incontri culturali) «stimolante» e «variabile» e non mondano né austero.

Infine i criteri artistici tendono, entro lo schema del teatro tradi zionale, a una verifica del rapporto sala – palcoscenico, attore – spettatore, che sia la più ampia possibile per la libertà delle scelte.

CRITERI TECNICI

I criteri tecnici tengono conto delle esperienze del teatro tradizionale e di quanto si è ritenuto valido nelle moderne innovazioni del teatro europeo.

Tendono a una coesistenza delle due esperienze e propongono strutture scenotecniche, impianti di palcoscenico e sala, che per la loro natura, per la nuova collocazione di una parte di esse e per la loro particolare variabilità, consentano la realizzazione di uno strumento di teatro flessibile, che permetta di passare dal teatro tradizionale a “struttura chiusa” a un teatro tradizionale a “struttura aperta”.

Propongono:

La riduzione della sala mediante una parete mobile (di materiale idoneo all’acustica) in un rapporto 7-11 tra ampiezza – boccascena e profondità sala.

La riduzione dell’apertura del prospetto scenico (con elementi variabili e asportabili) dal rapporto 7-5 a un rapporto 5-3 (la riduzione massima consentita dalla visibilità «in sede tradizionale»).

Un palcoscenico in piano, inclinabile, con la possibilità dell’utilizzazione di tre declivi, 4 %, 7%, 11 %., alzabili e abbassabili a quote diverse rispetto al piano di platea, in un rapporto di 1000.

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L’abolizione del muro che separa il palcoscenico dalla sala (presente in tutti i teatri tradizionali nella parte bassa del prospetto) e la sua sostituzione con una parte del sipario di sicurezza costituito di due elementi.

Il sipario di sicurezza, in un rapporto totale tra base e altezza di 9 a 10, dove la parte superiore e in un rapporto 9-6 e 1’inferiore 9-4.

L’eliminazione del palcoscenico rialzato con l’abbassamento del sipario di sicurezza inferiore, in quanto parte integrante del piano di palcoscenico mobile al livello del piano di platea.

Una platea mobile, con la parte posteriore alzabile e la parte anteriore ferma, in un rapporto tra profondità sala e innalzamento di 11 a 3, allo scopo di ottenere, correggendo 1’inclinazione della platea, piena «visibilità» rispetto alle diverse quote di palcoscenico, sia esso in piano o con i vari declivi, senza o con proscenio.

L’apertura del prospetto scenico non più in un rapporto tra base e altezza di 7 a 5 (come nella soluzione tradizionale) ma di 7 a 7, con la parte in più, in un rapporto di 7 a 2, appartenente al sottopalco.

La sostituzione di tutte le costruzioni tradizionali a gabbia dei ponti mobili del palcoscenico a due piani, con strutture nuove, che consentano l’utilizzazione dello spazio (tra i due piani) per l’azione scenica e l’allestimento scenotecnico.

La disposizione simmetrica di tutti gli elementi che sostengono il piano di palcoscenico tenendo presente la necessità dello spazio libero nella parte centrale (esempio: una botola non sarà a sinistra o a destra della linea mediana del palcoscenico, ma al centro, a differenza dei montanti di sostegno dei ponti ecc.)

Tiri in soffitta in tre versioni; alternando tiri semplici a mano e tiri contrappesati a mano, inframmezzati ogni due metri da un tiro a motore elettrico. Inoltre la continuazione dei tiri semplici e a stangone nel retropalco, in avanscena e nel soffitto

della sala, suddivisi come sopra, e 1’utilizzazione di una parte di essi per l’illuminazione della sala.

Gli elementi che compongono il palcoscenico nei seguenti rapporti: piano di palcoscenico, tra ampiezza e profondità, di 23 a 11; parte mobile ponti e sipario di ferro, di 16 a 11; fossa dell’orchestra di 11 a 3; retropalco e prolungamento della scena di 21 a 8; ampiezza del palcoscenico utile e del boccascena di 23 a 9 e altezza della soffitta e del boccascena di 20 a 6.

Al fine di ottenere una struttura di teatro tradizionale a sistema unitario e insieme un teatro flessibile, che lasci maggiore libertà al regista e allo scenografo nello svolgimento e nella realizzazione delle loro intenzioni artistiche, propongono e ritengono assolutamente indispensabili: la suddivisione del palcoscenico in elementi indipendenti l’uno dall’altro, il suo abbassamento e la sua altezza rispetto al piano di platea, i piani inclinabili per i diversi declivi, il sipario di sicurezza in due elementi, il piano dell’orchestra mobile che diventa proscenio, i tiri per la quasi totalità in sala e la

distribuzione e meccanizzazione degli impianti tecnici nella mi sura assolutamente necessaria a garantire uno svolgimento rapido e sicuro dello spettacolo.

I criteri tecnici tengono conto, per l’attività e la funzionalità di tutti gli impianti di palcoscenico, dell’attuale situazione del teatro italiano, sia dei «Teatro Stabili» sia delle « Compagnie di giro », del personale tecnico a disposizione e dei compiti ad esso affidati; in particolare, per il funzionamento delle strutture meccaniche del palcoscenico, tengono conto della necessità di contenere il numero del personale nei limiti delle passate stagioni teatrali.

IMPIANTI ILLUMINOTECNICI DI SCENA

Gli impianti per 1’illuminazione sono costituiti da attrezzature e dispositivi, predisposti secondo criteri che tengono conto delle esperienze del teatro italiano ed europeo.

Dopo la comparsa della luce elettrica sul palcoscenico, trascorsa una prima fase in cui illuminare significava soltanto imitare il giorno, la notte, 1’alba, il tramonto, ecc., si è avuta una serie di esperienze, collegate alle varie evoluzioni della drammaturgia.

Abbandonate le scene dipinte, l’illuminazione, che era solo un mezzo per evidenziare la pittura e il colore, passa a dare vita, volume e plasticità alle nuove scenografie (Appia), e il risultato determinato dall’ombra propria e dall’ombra portata del corpo dell’attore o di un volume scenografico comincia ad essere considerato elemento determinante per ottenere una particolare «espressività». La scena viene illuminata da una luce diffusa, regolata con filtri di vario tipo per permettere l’esaltazione, con ombre e luci, volume e plasticità, degli elementi di maggiore interesse dello spettacolo.

Nella scena post – naturalistica (Gordon Craig) le luci attenuando i contrasti, fondono attore e scena, o meglio costume e scena, e aiutano a formare uno spazio infinito.

I nuovi mezzi tecnici a disposizione (bilance, ribalta) e l’illuminazione dell’avanscena aumentano la possibilità di attuare l’illusione dello spazio infinito e danno anche inizio alla conquista dell’avanscena stesso.

Lo spettacolo è portato .in avanti, e non più in profondità, mentre l’utilizzazione dell’avanscena porta alla regolazione della ribalta.

Vengono collocati dei proiettori in fondo alla sala allo scopo di ottenere (Reinhardt) «ancora» una luce diffusa in scena e di intervenire, con fasci di luce laterali in palcoscenico, a illuminare gli attori staccandoli dall’ambiente nel quale sono immersi.

L’illuminazione viene utilizzata per mettere in evidenza i valori plastici scenografici e i materiali (Erwin Piscator); ha inizio l’impiego su vasta scala delle proiezioni, fisse e in movimento, su schermi trasparenti ecc.

I corpi illuminati diventano, nella scena nuda (Mejerchol’d) elementi uguali alle costruzioni scenografiche a vista: «demistificazione».

Poi l’illuminazione a luce pittorica (impressionistica, Kvapil) morbida, colorata, alla quale fa riscontro una violenta illuminazione, molto colorata, che segue l’azione con rapidi interventi espressionistici (Hilar).

Illuminazione a luce diffusa, sia per l’attore che recita sia per il pubblico. Fonti di luce visibili per togliere al pubblico «una grande parte dell’illusione di assistere ad azioni naturali e non create per l’azione teatrale» (Brecht).

Illuminazione a luce – atmosfera oggettiva, con il tentativo di cancellare, sia sugli elementi di scena sia sull’attore, ombre proprie ed ombre portate, al fine di ottenere un’illuminazione bidimensionale senza la percezione delle fonti.

SOLUZIONI PARTICOLARI

Il palcoscenico e a base rettangolare, prende tutta la superficie del contenitore in cemento armato e la sua parte centrale mobile è poco più larga dell’apertura del prospetto scenico; è suddiviso in quattro ponti con due piani in legno di cui uno appartiene al piano del sottopalco e l’altro al pavimento del palcoscenico. I movimenti

dei ponti sono di tipo meccanico, con motori elettrici con contrappesi.

La distanza verticale tra i due piani, prevista per l’utilizzazione in sede di azione scenica, è determinata dai montanti situati nella parte posteriore dei ponti che collegano la costruzione di base con il piano superiore e creano uno spazio utile pressappoco uguale alla totalità della superficie dei ponti. Il movimento di abbassamento è tale che i piani superiori scendono in sottopalco a livello del primo ballatoio e l’alzamento è tale che i piani inferiori si trovano a livello del pavimento di palcoscenico fisso.

I primi tre ponti hanno il piano superiore inclinabile con movimenti meccanici, eseguiti a mano nel sottopalco mobile. I piani si alzano nella parte posteriore, azionando i dispositivi meccanici a gradazioni diverse e, insieme con l’alzamento dei ponti, creano un unico piano inclinato (declivio) largo quando il palcoscenico mobile e profondo quanto i tre ponti; hanno tre diverse pendenze del 3,6%, 7 %, 11 %.

I quattro ponti sono utilizzabili anche per concerti, ponendo a livelli diversi i singoli piani per l’orchestra, i cori ecc., e sono utili negli spettacoli di prosa per gli abbassamenti ed alzamenti vari, i tipi di piani inclinati (declivi) e l’utilizzazione del sottopalco mobile. Inoltre il piano in legno dei primi tre ponti, composto di elementi asportabili, permette l’apertura di botole dalla misura 1 x 1 in 9 gruppi di tre elementi, per un totale di 27 botole, nove delle quali poste sull’asse del teatro, e la loro utilizzazione per apparizioni e sparizioni di elementi scenografici.

I movimenti dei ponti, eseguiti meccanicamente con argani elettrici e contrappesi, sono previsti a corsa regolare, silenziosi, a velocità diverse e con la possibilità di bloccaggio (senza la percezione visiva dell’operazione) e la suddivisione della corsa in moduli che permettano sia l’inclinazione del piano totale del palcoscenico mobile nei vari declivi, sia la formazione dei vari piani alle altezze normali dei praticabili in uso nei palcoscenici italiani e stranieri.

I tiri a stangone della soffitta in sala sono appesi a cinque cavi di acciaio ed azionati da argani a mano con fermo di sicurezza.

Gli stangoni sono lunghi quasi quanto la sala e ne seguono l’andamento curvilineo laterale.

Le corde dei singoli tiri sono tutte utilizzabili sia da sinistra sia da destra. In sostituzione del moschettone normale con il ciondolo è prevista una legatura a piombo speciale. Inoltre nel soffitto della sala proseguono tiri a stangone, con relativi argani, e file di tiri semplici.

I tiri sono proposti per una continuazione in sala degli elementi scenografici del palcoscenico (rispettando le esigenze scenotecniche moderne), sia per l’utilizzazione degli impianti sia per l’illuminazione della sala.

L’apertura del prospetto scenico e chiusa dal sipario di sicurezza.

Costituito di due elementi, esso e suddiviso orizzontalmente in due parti di diversa altezza ed e azionato da motori elettrici e contrappesi. La parte inferiore del sipario di sicurezza è nel sottopalco e fa parte del palcoscenico mobile con la parte dello spessore rivestito in legno.

E’ l’elemento fondamentale (con la gradazione dei movimenti uguali ai ponti mobili di palcoscenico ed ai ponti della fossa dell’orchestra) per ottenere l’abbassamento completo del piano di palcoscenico al livello della platea. Insieme con la parte alta del sipario di ferro è l’elemento richiesto dalle speciali norme di pubblica sicurezza allo scopo di dividere fuoco e fumo tra palcoscenico e platea.

Entrambi i sipari sono costruzioni rigide in acciaio, con entrambi i lati rivestiti in lamiera e con le intelaiature calcolate per una sovrapressione da un unico lato. Sono ricoperti nella parte interna (in palcoscenico) da un cartone d’amianto contro il calore e hanno una protezione in rete metallica contro i danni meccanici.

La parte inferiore del sipario di palcoscenico è rivestita di materiale compatto non infiammabile ed elastico e appoggia sulla parte in legno del sipario inferiore.

Il sipario superiore nei movimenti normali appoggia su quello inferiore, a qualsiasi altezza si trovi quest’ultimo, con un interruttore automatico, installato nell’argano meccanico del sipario superiore, che entra in funzione in relazione a tutte le posizioni del sipario inferiore. Nelle chiusure di emergenza entrambi i sipari si muovono senza impulso elettrico o meccanico, ma esclusivamente per il loro peso specifico.

Il sipario inferiore scende rapidamente da qualsiasi posizione si trovi alla velocità d’arresto, e il sipario superiore si abbassa e chiude alla velocità accelerata richiesta per «l’emergenza».

La corsa d’alzamento del sipario inferiore è di poco superiore alla corsa d’alzamento massima dei piani di palcoscenico mobile e l’abbassamento e alla quota di platea (posizione di arresto). La corsa totale del sipario superiore incomincia al livello del piano di platea ed arriva alla posizione più alta oltre l’apertura del prospetto scenico. Le velocità normali sono per entrambi i sipari commutabili e regolabili senza scatti dalla posizione ferma fino a una velocità accelerata utile.

Sono previsti, nel sipario inferiore, innesti sulla parte frontale della platea che permettano l’applicazione di pannelli con decorazioni o una piccola ribalta a mensola, con sporgenze limitate e larga per tutta l’apertura del prospetto, che consenta l’utilizzazione della fossa dell’orchestra e del sipario tradizionale.

Verso la platea, davanti al prospetto scenico, si trova la fossa dell’orchestra, composta di ponti mobili.

I loro movimenti, sia nella gradazione delle varie posizioni sia nella velocità, sono del tipo e della qualità dei ponti di palcoscenico e del sipario di sicurezza inferiore. I piani mobili dell’orchestra sono indipendenti l’uno dall’altro e si possono predisporre tra loro a quote diverse. La posizione più bassa è quasi al livello del primo ballatoio del sottopalco e la più alta corrisponde all’altezza massima di un proscenio tradizionale.

La parte anteriore della platea, cioè il settore delimitato dal corridoio trasversale che unisce le due scale d’accesso del pubblico, è costituita da una costruzione, indipendente dalle strutture mu rarie, dall’inclinazione regolabile per mezzo di movimenti meccanici ed idraulici comandati elettricamente. Il punto di contatto con la «linea» della fossa dell’orchestra rimane fermo come cerniera e la parte posteriore si alza (quanto lo consente la struttura architettonica della sala) permettendo la correzione della visibilità quando il palcoscenico mobile scende a quote diverse al livello del piano di platea. Il movimento degli elevatori è bloccabile con precisione in qualsiasi posizione.

Nel I987-’88 Luciano Damiani idea e realizza, negli ambienti stessi di quel teatro, «una mostra che si prefigge di far conoscere il nuovo spazio del Teatro di Documenti», anch’esso ideato e realizzato da Damiani, a Roma nei magazzini di Monte Testaccio.

Il testo con il quale Damiani enuncia la struttura della mostra è anche in parte il manifesto della sua concezione della scenografia e della sua poetica di scenografo. La sua idea del «Nuovo Teatro» è quella di strutturare e riaggregare gli spazi funzionali – siti del pubblico, della scena, delle at­trezzature, dei vani di servizio. . . – secondo le opportunità e necessità tec­niche delle diverse funzioni. E’ in ciò il rifiuto della filogenesi del teatro, che ha specificato, ricavato e costruito gli spazi che via via si sono resi opportuni e necessari a partire dalla sala – il sito per il pubblico – e in­torno a questa in tutte le direzioni.

La scenizzazione intransigente della forma teatro secondo una sua teoria dello sguardo è oggi il punto di arrivo del pensiero di Damiani. Ne de­rivano logicamente conseguenze diverse, per esempio per quanto riguar­da i rapporti fra quadro visivo e mobilità del pubblico, la drammaturgia delle luci e del suoni, la distribuzione dello spettacolo nel tempo e negli spazi. Fra le altre implicazioni, è necessario almeno accennare alla revi­sione della funzione e del ruolo del pubblico e del regista. E con questo il percorso riflessivo e ideativo di Damiani, partito negli anni Sessanta dalla rivendicazione del ruolo dello scenografo – bozzettista, sembra ap­prodato alla discussione del ruolo funzionale centrale del teatro del No­vecento, cresciuto e sviluppatosi per tutto il secolo. E’ interessante no­tare che la discussione del ruolo del regista non muove dalle ragioni del testo, o degli attori, ma da quelle della scena. E’ questo un altro tratto di originalità del pensiero di Damiani.

«Allestire una mostra che si limiti a collezionare bozzetti e modelli di scenografie non mi ha mai interessato. Ho sempre sostenuto che il bozzetto di una scena, testimonianza di eventi già avvenuti ed esauriti, nasce in funzione di uno spazio che è altrove, e ad esso, alla sua dimensione lo spettatore deve fare riferimento, e immaginare di trovarsi a teatro. Mentre ha senso allestire una mostra di scenografia quando al visitatore è offerta la possibilità di sperimentare in concre­to lo spazio della scena e non limitarsi alla semplice riproduzione che ne dà il bozzetto.

La mostra del Teatro di Documenti ha come intento di compensa­re queste carenze, proponendo in seconda istanza l’esposizione di disegni, progetti, bozzetti, a testimoniare la ricerca che data ormai da quarant’anni.

L’obiettivo della mostra è quello di far conoscere al visitatore il Nuovo Teatro e come sono state recuperate le condizioni di spazio della scena, di fronte alle quali mi sono trovato nell’arco del mio la­voro, e di sottoporre a una verifica i documenti di Teatro cui ho fatto ricorso per appropriarmi di quella pagina “bianca” ma non neutrale che è lo spazio scenico del Teatro di Documenti, dove non esistono oggetti “innocenti”.

Mi si poneva il problema della scelta per il racconto, così da trac­ciare una sorta di itinerario nel Teatro che il visitatore può percor­rere, avvalendosi dei documenti come strumento – guida a una even­tuale verifica immediata e concreta delle soluzioni sceniche proposte.

Il pubblico è stimolato a un’esperienza che lo vede non più rele­gato al ruolo di spettatore, ma impegnato anche nella dimensione operante dell’attore.

Gestita sulla base di questi criteri, la mostra si articola sostanzial­mente come offerta di una via da esplorare, di una determinata ricer­ca di teatro, mediante veicoli di comunicazione non mutuati da altri campi di espressione artistica non specifici della dimensione teatrale.

Non intendo limitarmi a trattare il rapporto uomo – attore e scena, ma uomo – attore e teatro, teatro inteso come palcoscenico più sala. Più precisamente, si può parlare di “teatro nel teatro”, con il criterio dell’esperienza immediata, progressiva, applicata all’architettura del teatro che sono andato elaborando nel corso degli anni per approdare, nel Teatro di Documenti, al coinvolgimento totale della sala, del palcoscenico e anche degli spazi normalmente adibiti a camerini e depositi di attrezzeria. Arrivando così a uno schema di teatro dove il «sogno» si contrappone al «reale», il Teatro della Luce da una par­te e il Teatro dell’Ombra dall’altra e al centro il palcoscenico e l’or­chestra fusi in un unico “corpo”.

Il visitatore inizia il percorso avendo alla sinistra una bassa fine­stra ad arco dove vede una linea bianca sul pavimento correre all’in­finito, come lo spartitraffico di un’autostrada. A destra un sipario bianco, trasparente; attraversandolo, il visitatore entra idealmente in palcoscenico (riferimento al progetto di Wagner che voleva il pubblico partecipe). E’ il luogo del sogno, con le nuvole sulle volte, a sinistra i gradoni che salgono verso il “fantastico superiore”, poi le botole che portano al “fantastico inferiore”. Sulla destra le tre porte del Teatro Classico Pagano e poi della Cristianità: Inferno, Pur­gatorio, Paradiso.

Con l’apertura del sipario la parte del pavimento tra la finestra ad arco e il sipario stesso si apre, e si alza uno specchio, rivelando così la fossa dell’orchestra e la sala sottostante, dove la fossa dell’orche­stra appare come un palcoscenico all’italiana con macchinerie baroc­che.

Le volte con le nuvole e l’arco scenico con gli arredi chiari com­pletano i due spazi che vogliono, in sintesi architettonica – scenogra­fica, proporre al visitatore il Teatro all’Italiana e la crisi evolutiva determinata da Wagner.

Dal Teatro bianco dei sogni (o della Luce) lo spettatore, attraver­sando un velo nero passa nella Città, nel “reale”, dove sono i came­rini degli attori, del trucco: il nuovo spazio teatrale che potrebbe appartenere, per via di “squarci” nei pavimenti, al “tranche de vie” ma anche al teatro espressionista tedesco e, poiché i camerini hanno forme di templi in marmo nero bronzi e specchi, anche a un luogo di meditazione sulla vita.

Il visitatore si trova fra macchine teatrali, oggetti, specchi, auto­mobili, tavoli per conversare e consumare, in spazi intercomunican­ti che attraverso grandi grate poste nel pavimento permettono di vedere in verticale gli ambienti e i camerini, che appaiono sovrap­posti.

In questo spazio, agibile tridimensionalmente, il pubblico è stimo­lato a condurre un’esperienza che lo vede impegnato anche nella di­mensione dell’attore.

Durante lo svolgimento della mostra i disegni, i progetti e i boz­zetti esposti disegneranno una sorta di itinerario; ma avverranno anche interventi musicali, di prosa, poesia e canto, dislocati lungo il percorso della mostra che, con i materiali, le diverse possibilità ope­rative, gli strumenti di racconto disponibili, tenteranno di risolvere gli interrogativi posti dal mezzo teatrale, dall’uomo di teatro da una parte e dal suo diretto fruitore, il pubblico, dall’altra. Interventi mu­sicali, di prosa, poesia o canto, verranno eseguiti da artisti singoli o in gruppo, da noti professionisti e da allievi di Accademie.

Allo scopo di reperire i fondi necessari al completamente del Teatro di Documenti verranno offerti all’incanto bozzetti, documenti, riproduzioni appartenenti al mio Studio.»

Il documento, che porta la data 20 maggio 1988, ha una chiusa caratteri­stica di Damiani, come se egli volesse dire che, nell’indifferenza dei tempi in ben altri spettacoli incantati, il Teatro farà da sé, corpo separato della cultura e separato perché in esso ancora si combatte la lotta di Dioniso e Apollo contro Mercurio, il combattimento della sacralità con la venalità. Su altri palcoscenici, è finito da tempo.

(A cura di Giorgio Taborelli)

13 Maggio 2010

SCENOGRAFIA… quale? E soprattutto: perchè?

Filed under: Scenografia — admin @ 12:52

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Considerazioni intime, ma soprattutto domande retoriche e corrosivi dubbi di un (quasi) vecchio scenografo.

Mi corre obbligo avvertire colui che avrà la pazienza di leggere: non sarò ossequioso; avrò dubbi e domande, soprattutto su me stesso, ma anche su altri…
Ho frequentato la scenografia (con la esse minuscola, come minuscola ormai appare la sua importanza), ho conosciuto grandi maestri e grandi mistificatori, ho frequentato i laboratori di pittura e realizzazione (detta con una certa sufficienza “scenotecnica”), ho frequentato grandi palcoscenici (e grandi “artisti” che vi lavoravano), ho frequentato piccoli palcoscenici (e “piccoli grandi artisti” che vi prestavano la loro opera), ho praticato la scuola (accademica) prima come studente e poi come docente, ho visto teatri di tutte le misure e specie, ho visto progettarli, restaurarli, trasformarli. Ho visto un po’ di tutto e un po’ di niente (costa molto in termini di tempo e di soldi, purtroppo, il vedere uno spettacolo o visitare un lontano teatro). Mi chiedo spesso a cosa sia servito tutto ciò, tranne la piccola trasmissione della mia esperienza agli studenti…

Cominciamo dalla inevitabile irritazione che ho dentro quando apro un giornale o una rivista (anche specializzata che parli di teatro…): non riesco più a capire cosa mi succeda (può essere decisamente l’età, ma a parte questa concreta possibilità…) e perché mi assalgano una serie di domande e di dubbi.
Ho imparato, studiando, lavorando e insegnando, ad apprezzare e diffondere concetti quali la bellezza, la coerenza, la storia, la cultura, la funzione e lo scopo delle cose, la semplicità, la chiarezza, la curiosità e l’onestà intellettuale, il coraggio innovativo, ma poi…?

Poi vedo articoli, scritti da giornalisti, critici, letterati in cui si parla di tutto, si favoleggia di spettacoli meravigliosi, si teorizzano e se ne estrapolano interpretazioni straordinarie, ci si pavoneggia citando elementi storici sconosciuti ai più, si fanno riferimenti coltissimi, ma poi…?
Quando si tratta di parlare di scenografia…il nulla o quasi.
Descrivere la parte visiva dello spettacolo è diventata ormai un inutile accessorio (spesso non si cita neppure lo scenografo o il costumista dello spettacolo!). Primo dubbio: non sarà forse perchè tutte le persone che scrivono, in questo ambito, hanno una preparazione straordinaria dal punto di vista storico, critico, metodologico, ma assolutamente nessuna dal punto di vista visivo, scenografico, compositivo (non uso volutamente l’aggettivo “artistico”)?
Sembra ci si dedichi principalmente e sempre più spesso ad omaggiare i cosiddetti “nomi sicuri”… Il vecchio scenografo, con evidenti ed indubitabili grandi capacità ed esperienza (divenuto anche regista e costumista naturalmente: prendi uno e paghi 3), garanzia di uno spettacolo elegante al limite del lezioso, pulito ma sempre più o meno ripetitivo, strapagato, potente ed onnivoro (10/15 spettacoli l’anno fra riprese e nuove, faraoniche produzioni); oppure il “vulcanico interprete della visualità operistica” (come è stato definito un esotico (ex) giovane che naturalmente firma regia scene e costumi…) soprannominato Attila: quando c’è lui in cartellone, dopo i suoi allestimenti non c’è più un soldo per i titoli restanti della stagione; oppure il regista oriundo, alla moda (regia, scene[quali?] e costumi…com’è logico e sempre per lo stesso motivo…) “uno dei più innovativi interpreti del teatro musicale di oggi” e guardo i suoi “bozzetti” sul quotidiano (una rarissima occasione): tre “segni” che avrebbero la pretesa di essere “artistici” ma che in realtà scimmiottano i vecchi schizzi di Le Corbusier; e poi la realizzazione: il contrapporsi di forme assolutamente incoerenti, inutili, gratuite (gabbie di ferro a più piani contrapposte ad estrusioni curvilinee da orrendo monumento anonimo degli anni ’60), inutilmente roboanti e gigantesche, fintamente essenziali (la vera essenzialità è altra cosa: ma è poi necessaria quando si ripropone un’opera ottocentesca?) degne del primo studentello incolto e confuso al primo anno d’Accademia. Tutto ciò viene descritto con le seguenti parole:«…appartiene a una generazione di uomini di teatro che ha elaborato in chiave poetica la sperimentazione, e quindi ha rinunciato alla provocazione fine a se stessa: non alla lettura analitica, sorgiva ma anticonvenzionale, del mondo espressivo che regge la scrittura operistica ottocentesca…». Capisco che manca il coraggio di “rischiare” un nuovo nome, di puntare su qualcuno che sta crescendo, in una parola, sul “futuro”…

Poi mi chiedo perchè se vedo, al primo anno d’Accademia, un lavoro simile, invito lo studente che lo propone a cambiare corso di studi… Ma se a questo (giustificatamente) ingenuo essere, capita di vedere cose simili a quelle da lui prodotte, su un quotidiano nazionale, con le lusinghiere didascalie che lo descrivono, cosa penserà del suo severo ed ipercritico Docente? Che è un aguzzino ed un incapace? Credo di sì…ed avrebbe ragione. E la coerenza formale, l’analisi storica, i criteri compositivi e funzionali, l’attenzione al rapporto costo-risultato ed altre amenità del genere? Perchè studiando e sperimentando progettazione si richiede tutto ciò? E che fine fanno poi questi criteri, che si ritengono basilari?

Poi mi chiedo quanto costi quell’allestimento, quante persone ci abbiano lavorato, chi abbia approvato quel progetto e sulla base di quali considerazioni estetiche, pratiche ed economiche, e mi chiedo anche (domande che dovrebbero obbligatoriamente farsi certi amministratori teatrali, sovrintendenti sorretti solo da forze…politiche e direttori artistici) se fosse possibile far di meglio e con minore spesa…E scorrono davanti ai miei occhi una infinita serie di progetti e disegni, esecutivi, modelli, fatti da molti bravissimi studenti di scenografia (sempre con la esse minuscola) che ora hanno finito i loro studi e stanno servendo birre in un bar o stanno, se sono fortunati, lavorando saltuariamente in qualche studio di grafica o di web-design…

Poi mi chiedo a che titolo un famoso dirigente teatrale, sempre dalle colonne dello stesso quotidiano asserisca:«…l’attuale ordinamento delle fondazioni lirico-sinfoniche (ed il cosiddetto spettacolo dal vivo n.d.r.) si sta rivelando incapace di salvare sia l’immagine sia lo sviluppo dell’offerta del prodotto culturale da parte dei nostri storici Teatri d’opera. In un clima di indebolimento dei consensi, aggravato da disposizioni legislative e regolamentari che hanno trasferito all’esterno una visione distorta sui costi artistici (legati al mercato internazionale) e sui costi del lavoro, lo stato di degrado e di tramonto non è stato ancora bloccato…I nostri Teatri d’opera non sono realtà astratte: sono costituiti da professionisti della musica, del canto, e della danza cui si accompagnano specialisti adibiti alle attività diverse di palcoscenico, dei laboratori e dei servizi che perseguono comuni finalità di particolare valore sociale e culturale…penso invece che sia compito della politica, verificare (?n.d.r.) lo sbocco professionale degli autori, interpreti ed esecutori (soltanto? n.d.r.) e dei diplomati dei Conservatori (e delle Accademie? n.d.r.), anche alla luce dell’evidente mancanza di politiche pubbliche rivolte al mondo delle arti (finalmente! n.d.r.) e dello spettacolo…Si appalesa che non stiamo dando a chi si getta nelle braccia dell’arte quel “raggio di fiducia e di poesia” che è per loro indispensabile…».
Se non erro questa persona è dirigente teatrale ai massimi livelli da circa (posso sbagliare, ma di poco) trentacinque anni: dov’è stato fin’ora e che tipo di politica teatrale ha avallato, se ha assistito, impassibile (o forse impotente o soltanto opportunisticamente silente?) allo “stato di degrado e di tramonto che non è stato ancora bloccato”; e da chi deve essere bloccato? E’ “visione distorta sui costi artistici” il continuo, diffuso ricorrere alle tristemente famose “agenzie” (un tempo proibite in Italia ed ora perfettamente legali…questa sì, decisione “politica”) che, lucrando succulente percentuali sui contratti artistici (cantanti, direttori, registi ecc., quasi mai scenografi…c’è poco da lucrare), applicano compensi raddoppiati rispetto all’estero? Perchè non comincia lui stesso a dare quel “raggio di fiducia e di poesia” indispensabile alle nuove generazioni?
E’ vero che molte di queste agenzie hanno sede all’estero e quindi gli emolumenti erogati dalle Fondazioni finiscono in una sorta di “buco nero” anche fiscale?
E’ vero che sono stati chiusi quasi tutti i laboratori di scenografia delle Fondazioni (con la scusante, fasulla, degli eccessivi costi del personale) affidando l’esecuzione degli allestimenti esclusivamente a ditte private con finte gare d’appalto già pilotate? E’ vero che così facendo si è prima trascurata e poi persa (anche le ditte private stanno man mano chiudendo) una vera e propria “sapienza della tradizione scenografica” che era quasi esclusiva degli ex Enti Lirici e dei Teatri di Tradizione, vero e proprio “baluardo” di quei “valori culturali” dei quali si lamenta il tramonto e la perdita? Perchè si ricorre sempre più spesso a frettolosi, spesso inutili quanto costosi corsi di formazione ed aggiornamento del personale (attingendo a fondi europei…) perchè sindacalmente si è puntato sulla quantità anzichè sulla qualità e la formazione? Non è forse “mancanza di politiche pubbliche rivolte al mondo delle arti” il fatto (grave e soltanto italiano) che Conservatori e Accademie non siano ancora facoltà universitaria ma soltanto una indecifrabile quanto equivoca “alta formazione” non bene identificata? Non è forse vero che ancora oggi ci si affida più volentieri (e spesso) ad architetti senza nessuna competenza teatrale e preparazione specifica, proprio perchè provvisti di una laurea, anzichè a scenografi giovani e preparati per allestimenti e progettazione teatrale, ma anche museale ed espositiva? Perchè, come tutti i lavori pubblici (o quasi) non si mette “a concorso” un’opera ed il suo allestimento (con la possibilità di scelta sia del progetto che del suo rapporto costo-qualità)? Perchè si investe in co-produzioni che fanno lo stesso spettacolo (sovente molto mediocre) a distanza di poche decine di chilometri e non si punta, invece, a “vendere” un buon prodotto (e competitivo) anche all’estero? E, a proposito di “estero”, premettendo che non ho niente contro gli stranieri, anzi, credo che una delle poche ancore di salvezza culturale sia proprio il nostro rapporto con l’Europa: ma perchè, sull’onda spesso di malintese novità artistiche, per l’opera si chiamano registi e scenografi stranieri (spesso strapagati) che nulla hanno a che fare con la tradizione operistica italiana (che non conoscono e sovente neppure amano…), la più parte delle volte producendo dei “fiaschi” di pubblico, di consenso ed economici? (apro un qualsiasi numero di una rivista specializzata e leggo il resoconto di uno spettacolo visto in uno dei più prestigiosi teatri italiani di tradizione, testualmente:«…Lo spettacolo, che si coproduce con…(teatro straniero), è davvero modesto. E’ modesto per le soluzioni figurative prive di suggestione. Con quei cubi, che fungono da accessi alla scena e assomigliano a tunnel di un metro in corso d’opera, le scene di…(inglese) non accendono la fantasia. E’ modesto per una stilizzazione che, invece di aggiungere, toglie fascino all’allestimento e lo rende anodino, che è ancor peggio di anonimo. Ci potresti ospitare tutte le opere di argomento marinaro o lambite dal mare, dall’Idomeneo al Billy Budd. La regia di…(anch’egli inglese) ha lasciato che i fatti seguissero il loro corso…ha lasciato i personaggi a loro stessi…A mandare fuori rotta questa singolare eroina (la protagonista, n.d.r.), hanno contribuito anche i costumi del già citato…(scenografo, n.d.r.): in talune scene … ha optato per un abito la cui foggia è più adatta ad una diva invitata ad un ricevimento che alla vereconda sposa di…. E’ un errore grave, da matita blu.» A questo teatro è stato assegnato un “contributo speciale” di sei milioni (6.000.000!) di euri…Qualcuno verifica che siano spesi bene, oppure questi “manager” sono sempre ed ancora impudentemente al loro posto?)

E poi chiedo (a me stesso ed al mio ruolo istituzionale) perchè l’insegnamento della scenografia, nel suo insieme, viene sottovalutato e trascurato dagli ordinamenti e persino dalla cultura ufficiale? Perchè i corsi superiori d’arte, in generale, e nel nostro caso di scenografia non sono corsi di laurea veri e propri? Non può essere anche un po’ (o tanto) per colpa nostra? (di noi docenti dico…). E’ vero che siamo aggiornati, curiosi, scrupolosi, attenti, rigorosi? O forse spesso viaggiamo sulle ali di una certo, sicuro tradizionalismo, sia didattico che progettuale e sperimentale, soffocando conseguentemente in schematismi alquanto rigidi e sorpassati ogni possibile novità e ricerca? E soprattutto perchè non scriviamo? Perchè non esistono testi di scenografia (tranne pochissime, sparute ed introvabili pubblicazioni ormai anche obsolete)? Perchè in qualsiasi campo della conoscenza, della scienza e del sapere una rivista specialistica rappresenterebbe un indispensabile strumento, un sicuro punto di riferimento, aggiornamento, confronto, mentre in Italia (contrariamente all’estero) si vendono pochissime copie dell’unica rivista, ad esempio, di scenografia? Perchè siamo (quasi) sempre assenti da confronti e simposi internazionali, da concorsi ed esposizioni continentali, da collaborazioni con organizzazioni culturali straniere? Siamo proprio sicuri che quando un nostro studente va a vedere (se ci va…) uno spettacolo contemporaneo, riconosca esattamente i principi, gli strumenti, le tipologie tecniche, quelle drammaturgiche ed espressive che sono elementi fondanti della nostra didattica? Oppure ammettiamo che possa avere un senso di disorientamento quando di giorno, a scuola, apprende concetti e nozioni che di sera, andando a teatro, vede trasfigurati ed alterati, se non abbandonati perchè desueti, a tal punto da non riconoscerli o non vederli più? E, ancora in campo internazionale, perché all’ultima quadriennale di Praga, forse una delle più mportanti rassegne di scenografia mondiale, l’Italia era uno dei pochissimi paesi che non ha presentato i suoi scenografi adducendo, come scusa, la mancanza di fondi (una decina di migliaia di euri)?

Poi mi chiedo perchè le facoltà di medicina abbiano cliniche universitarie, quelle di scienze motorie abbiano palestre, quelle di ingegneria abbiano laboratori attrezzati ecc. e gli studi accademici sul teatro e sulla musica non abbiano dei teatri? Fabrizio Cruciani (Lo spazio del teatro, Editori Laterza, Roma-Bari, 1992) scriveva: «…in questa cultura lo spazio del teatro non può accettare di essere sala più o meno efficiente, più o meno umana, ma solo sala per spettacoli, per teatro-merce sempre più costoso. La committenza chiede però sale per spettacoli e gli architetti che le costruiscono fanno spazi per il teatro-merce o cattedrali nel deserto. E gli uomini di teatro fuggono dai teatri. Lo spazio del teatro, per essere vivo, deve avere proporzioni e memoria (sic! n.d.r). Se non è più il palazzo degli spettatori o il museo della cultura, può essere la “casa” degli attori (e di tutti coloro che il teatro lo “fanno”, n.d.r.). Un luogo abitato anche prima e dopo lo spettacolo, un luogo di lavoro in cui si ha interesse ad essere ospiti. Si può certo abitare in case costruite per altri o per altro (è quel che di solito viene fatto); si può anche costruire una casa in cui abitare come artisti e in cui ricevere ospiti. Qui lo spettatore che viene allo spettacolo “sente” lo spazio vissuto e “vede” quello spazio come elemento vivo e funzionale dello spettacolo stesso; qui lo spazio dello spettacolo crea la condizione del suo essere guardato, crea lo spettatore…». Gli fa eco Jean-Guy Lecat, Scenografo, per molti anni nella compagnia di Peter Brook: «…Ci sono tre pelli in un teatro. La prima è l’esterno, l’edificio nel contesto della città. La seconda pelle è il luogo di incontro, da una parte il pubblico e dall’altra degli attori, e comprende anche tutti i servizi, bar, ristoranti, toilettes. Per queste due parti gli architetti possono lavorare autonomamente. Ma la terza è lo spazio teatrale vero e proprio. Questo, la parte interna del teatro, non deve avere un legame artistico con le altre due, ma deve essere completato dalla gente di teatro in prima persona». Perchè allora ci si ostina a trovare fondi per il restauro o la costruzione di teatri per poi averne pochi o addirittura non averne per una seria programmazione e, invece, non si affidano queste strutture completamente a “persone di teatro” che fanno il “mestiere teatrale” o che lo stanno studiando?

Sicuramente cerco risposte: ma credo non ci siano risposte; credo che le domande galleggino in aria e restino come sospese…in attesa che qualcosa o qualcuno cambi. Certo è che non si deve più fingere che non esistano o che non si pongano affatto. Ce lo pongono e ci dicono che esistono tutte le generazioni di illusi che abbiamo costruito e formato e che non riescono a trovare, ed ormai disperano di trovare, quel “raggio di fiducia e di poesia, per loro indispensabile”, che abbiamo loro sottratto o quanto meno spento.

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